mercoledì 18 dicembre 2019

Annie Ernaux, "L'evento", L'Orma


 Comunque la si pensi, quello dell'aborto è un tema che non si può affrontare con leggerezza. Esso implica infatti, da una parte, la questione del riconoscimento del diritto all'autodeterminazione della donna e della piena giurisdizione dell'essere femminile sul proprio corpo; dall'altra, il problema di una precisa definizione dell'essere umano: che cos'è un uomo? In quale momento un individuo appartenente alla nostra specie comincia a essere tale?
 C'è chi crede che un essere umano cominci nell'istante stesso del suo concepimento, e chi pensa che un feto diventi un uomo solo con la sua venuta al mondo, al momento del parto. C'è chi ritiene che l'embrione debba avere diritti perfettamente equivalenti a quelli di un uomo fatto, e che tali diritti facciano premio sulla facoltà della donna di decidere in assoluta autonomia dell'uso del proprio corpo; e chi - al contrario - reputa esclusiva ed inviolabile la libertà della donna di gestire da sola tutto quello che è pertinente alle funzioni del proprio essere femminile.
 In diversi Paesi, gli orientamenti giuridici in merito a tali questioni sono differenti, ma la legge - forse saggiamente, certo con un po' di vaghezza filosofica - tende sempre a imporre una soluzione che si pone tra questi due estremi.
 Personalmente sono convinto che un essere umano possa essere individuato dall'intreccio del suo corredo cromosomico e delle relazioni che stabilisce con i suoi simili nel corso dell'esistenza. Così, se il corredo cromosomico viene definito nell'istante stesso del concepimento, il principio della vita di relazione dell'individuo si può riconoscere nel frangente che vede l'annidamento dell'ovulo fecondato nell'utero materno.
 Basta questo per dire che è quello il momento in cui un essere umano ha inizio (e per trarne, dal punto di vista etico, conseguenze cogenti, come quella che vorrebbe lecita la cosiddetta "pillola del giorno dopo", che impedisce l'annidamento dell'ovulo fecondato, e illeciti altri mezzi abortivi)? Forse no, visto che il concetto stesso di vita di relazione è piuttosto complesso e fotografa una realtà che prende forma, si sviluppa e si consolida nel tempo.
 Inoltre la pretesa di stabilire ciò che è lecito e ciò che non lo è incrocia la questione ineludibile dell'autodeterminazione femminile: si può obbligare una donna a serbare dentro di sé suo malgrado un essere che la costringe a piegare il suo corpo alle proprie improcrastinabili esigenze?
 Al cospetto di questo groviglio quasi inestricabile di dilemmi irrisolti, i libri che trattano narrativamente il problema dell'aborto non possono che contemplare le questioni filosofiche senza indugiare su di esse, insistendo piuttosto sugli aspetto storici e sociologici di questo difficile tema; affidandosi magari alla capacità quasi magica del racconto di suggerire spesso verità che sanno andare oltre le tesi preconcette da cui esso prende le mosse.

Annie Ernaux

 Così è senz'altro per L'evento di Annie Ernaux, che rievoca l'esperienza sconvolgente dell'aborto clandestino con cui l'autrice, nel gennaio del 1964, quando era una studentessa universitaria di soli 23 anni, decise volontariamente di interrompere una gravidanza inattesa e indesiderata.
 L'aborto, allora, in Francia, era una pratica illegale; e tuttavia molte giovani vi ricorrevano, poiché fortissimo era lo stigma sociale per le sventurate che concepivano un figlio fuori dal matrimonio.
 Per di più, per Annie, dare seguito alla propria gravidanza avrebbe significato riconoscere la fondatezza di quei pregiudizi classisti che volevano le ragazze di estrazione popolare naturalmente inclini a "rovinarsi", e quindi accettare di essere ricacciata come in una prigione nel mondo piccolo borghese ed operaio dal quale proveniva, senza più possibilità di uscirne.
 Il testo si giova di un efficacissimo effetto di "presentificazione" degli avvenimenti del 1963-64: Annie accoglie la notizia della sua gravidanza con incredulità più che con sgomento, e all'incredulità fa seguito un curioso senso di inerzia che la ragazza fatica a scrollarsi di dosso. Del resto, nessuno di coloro che le sono intorno la aiuta minimamente a rendersi conto della sua condizione e a riflettere su di essa: confidarsi con i genitori è fuori discussione; le compagne a cui rivela il proprio segreto la guardano con indifferenza o commiserazione; i ragazzi la osservano con morbosa curiosità, come la protagonista di una storia piccante che si vuole sapere come andrà a finire.
 Il senso di abbandono di Annie è totale, e si combina con un torpore irreale. Solo quando il rischio di restare impigliata in una situazione ormai senza rimedio si fa concreto, la ragazza decide di agire: grazie a una conoscente che ha vissuto la propria medesima esperienza, la protagonista si rivolge a una "fabbricante d'angeli" di Parigi che, con un duplice intervento non privo di qualche complicazione, la libera del suo imbarazzante fardello.
 Il libro è bello perché la ricostruzione della temperie emotiva che definì il periodo compreso tra l'ottobre del 1963 e il gennaio del 1964 è estremamente coscienziosa.
 Dal punto di vista formale, vale forse la pena di notare un elemento significativo. In tutti i libri della Ernaux si fa ampio uso di parentesi che racchiudono i pensieri riferibili a un livello di coscienza più profondo rispetto a quello che asseconda il flusso narrativo, quasi a un piano meta-narrativo e meta-normativo (capace di andare oltre i punti fermi del buon senso, del senso comune e, addirittura, della perfetta coerenza logico-razionale). Ebbene, le caratteristiche parentesi della Ernaux non sono mai state numerose come in questo testo: segno probabilmente che l'autrice si ritrova a maneggiare una materia ancora incandescente, con aspetti di cui è difficile parlare e che è persino difficile affrontare.
 Tocca al lettore - se ne ha la forza - varcare il confine filosofico in prossimità del quale la Ernaux si ferma, decidendo di riversare nel fedele racconto degli avvenimenti e degli stati d'animo di allora tutta la propria onestà intellettuale.
 Una scelta, questa, che pone il testo della scrittrice francese molte spanne sopra quell'insopportabile esercizio di retorica che è la "Lettera a un bambino mai nato" di Oriana Fallaci, l'opera che forse per prima ha affrontato narrativamente in Italia la questione dell'aborto.

Voto: 7

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