domenica 27 marzo 2022

Primo Levi, "La tregua", Einaudi

 Nelle ultime settimane, a cercare ristoro dalla gravità della guerra che si sta combattendo a poche centinaia di chilometri dai nostri confini, e dalla grevità sciocca della logica bellica che è penetrata nel dibattito pubblico, sclerotizzandolo in schemi manichei, ho ripreso in mano dopo diversi anni La tregua di Primo Levi.
 La tregua è un libro molto importante per me, perché è il testo che, da ragazzo, mi ha fatto innamorare davvero della lettura e perché tuttora, con la maturità del lettore esperto, lo considero uno dei prodotti migliori in assoluto della letteratura italiana del Novecento.
 E' un libro che compendia tutte le virtù della scrittura letteraria - una verve narrativa travolgente, un'efficacia descrittiva senza pari, la curiosità per tutto ciò che è umano, l'apertura alla fantasticheria unita a una perfetta aderenza alla realtà, la disponibilità al lirismo, una profonda onestà intellettuale, la propensione a distillare dall'esperienza raccontata una morale dal tenore concretamente filosofico, un'irrisolta inquietudine di fondo -, eppure è il libro meno afflitto da libidine letteraria che si possa immaginare.
 Come è noto, il testo consta del racconto (seguito cronologico delle vicende tragiche narrate in Se questo è un uomo) della liberazione dei prigionieri del campo di sterminio di Auschwitz da parte dei soldati dell'Armata Rossa, e del tortuoso viaggio di ritorno a casa del protagonista - durato 9 mesi - nel caos del dopoguerra, attraverso vari Paesi dell'Europa dell'est (Polonia, Romania, Ungheria, Moldavia, Slovacchia, Germania, Austria), l'Ucraina e la Bielorussia, allora parti integranti dell'Unione Sovietica.
 Non c'è romanzo che riesca a compendiare in maniera migliore la felicità e insieme il senso di disorientamento che dona la libertà ritrovata, il sollievo per la guerra finita, e contemporaneamente il sospetto angoscioso che in realtà la guerra possa essere una condizione permanente, e che quella che si sta vivendo sia solo una sospensione temporanea di un conflitto eterno. 
 Tutto questo emerge da una lunga teoria di avventure allegre e tristi, in cui però brulica, nella sua inesauribile varietà, la vita; quella vita che l'universo concentrazionario era stato creato appositamente per negare, per cancellare, per semplificare drasticamente riducendola all'orrore malato di un folle incubo unidimensionale.
 E' quasi commovente rievocare i personaggi e gli episodi memorabili raccontati da Levi: l'Internazionale cantata dalla voce stridula del vecchio Thule - un prigioniero politico tedesco ad Auschwitz da dieci anni - nella prima notte insonne dopo la libertà ritrovata; Hurbinek, il bambino paraplegico nato forse nel lager, Hurbinek "che non aveva mai visto un albero", che dopo la fuga dei tedeschi muore nel reparto infettivi dell'infermeria, senza essere riuscito a imparare a parlare e a esprimere la propria umanità, "libero ma non redento"; Henek il sano e robusto adolescente ungherese che il lager ha trasformato in un individuo pronto e sagace, "un giovane carnivoro", eppure capace nei confronti di Hurbinek di un sentimento compiutamente materno che le due infermiere polacche non riescono ad esprimere.

Primo Levi

 E poi, a mano a mano che ci si lascia alle spalle le brutture del campo di sterminio e il tono cambia e si illeggiadrisce, compaiono figure come il Greco, severo maestro di vita per il protagonista, uomo di abilissimi commerci e dalla volontà granitica, fondata su una visione del mondo pessimisticamente euclidea; il misterioso dottor Gottlieb, capace di irradiare naturalmente intelligenza in tutte le direzioni e in ogni momento, sopravvissuto ad Auschwitz chissà come, e chissà come diventato in pochi mesi il medico più rinomato di Katowice e un uomo facoltoso; Cesare, il giovane romano "figlio del sole", dall'indole furfantesca e generosa, e dall'inesauribile calore umano; il Moro Avesani, il vecchio bestemmiatore solido come una quercia, muratore per cinquant'anni in giro per il mondo per riuscire a mantenere l'amatissima figlia disabile; il signor Underdorven, uno dei "sognatori", direttore d'orchestra e compositore incompreso prima, cuoco di bordo su una nave che visita Paesi lontani e sconosciuti poi; il Velletrano, il selvaggio di Trastevere, dagli avambracci talmente coperti dai tatuaggi con i nomi delle sue donne da mettere in difficoltà il tatuatore del lager; Cantarella, il calabrese che in Russia Bianca si stabilisce nel bosco, si trasforma in una specie di eremita e si inventa una curiosa attività "sacerdotale", sancendo con la fabbricazione di pentole le nuove unioni che si creano fra le coppie di italiani profughi.
 E ancora, fra i "russi", la pragmatica infermiera siberiana Maria Fedorovna Prima, che a Katowice assegna al protagonista compiti da farmacista; la vitale diciottenne Galina, per la quale Primo Levi concepisce una speciale simpatia, pur sentendosi umiliato davanti a lei dal suo aspetto lacero e malsano; il vecchio "barbone" della fattoria al di là del bosco lungo la strada per la Casa Rossa, dall'aspetto quasi biblico; il tetro Tenente della Casa Rossa, che parla perfettamente l'italiano, conosce benissimo la topografia di Torino e Milano, ma afferma di non essere mai stato in Italia; il mitico e gigantesco generale Timoshenko, che giunge a Staryje Doroghi a bordo di una minuscola Fiat Topolino ad annunciare agli italiani il ritorno a casa.
 Indimenticabili appaiono parimenti, nel flusso inarrestabile del racconto, il bagno a cui i russi sottopongono gli ex prigionieri reduci dal lager - quasi un battesimo e un richiamo alla vita -, il surreale colloquio in latino fra il protagonista e un prete polacco, la spettacolare vendita di una camicia di lana a un malcapitato cliente da parte di Cesare al mercato di Katowice, l'incontro del protagonista con la povera Flora - già spazzina e prostituta dei Kapos nel lager - la tumultuosa proiezione di Hurricane da parte della squadra addetta al cinematografo nel teatro della Casa Rossa (una pagina dalla travolgente comicità, che a tredici anni avevo addirittura imparato a memoria). 
 La lettura di un libro così riconcilia letteralmente con la vita e con la letteratura. E' questa l'impressione che se ne trae, e che rimane nonostante il segreto timore, insinuato dall'autore nelle ultime battute del testo, che la libertà sia solo un'illusione, che la tregua sia temporanea, che l'azzeramento di ogni istinto vitale compendiato dall'esperienza del lager sia la summa del destino dell'uomo, che al termine del sogno di placidità che stiamo vivendo ci attenda ancora, freddo e implacabile, il comando straniero che ogni mattina risuonava nei dormitori di Auschwitz: "wstawac!" - alzarsi!
 
In poche parole: La tregua è un libro molto importante per me, perché è il testo che, da ragazzo, mi ha fatto innamorare davvero della lettura e perché tuttora, con la maturità del lettore esperto, lo considero uno dei prodotti migliori in assoluto della letteratura italiana del Novecento.
E' un libro che compendia tutte le virtù della scrittura letteraria - una verve narrativa travolgente, un'efficacia descrittiva senza pari, la curiosità per tutto ciò che è umano, l'apertura alla fantasticheria unita a una perfetta aderenza alla realtà, la disponibilità al lirismo, una profonda onestà intellettuale, la propensione a distillare dall'esperienza raccontata una morale dal tenore concretamente filosofico, un'irrisolta inquietudine di fondo -, eppure è il libro meno afflitto da libidine letteraria che si possa immaginare.
 
Voto: 9

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