domenica 8 maggio 2022

Primo Levi, "La chiave a stella", Einaudi


  Nell'ambito della letteratura italiana del Novecento, i libri che sanno rappresentare il mondo del lavoro non sono molti; per di più, sulla maggior parte di essi grava un'ipoteca ideologica molto forte che, per quanto perfettamente pertinente, sposta il fuoco della narrazione su quanto sta sopra e intorno al lavoro propriamente detto: pensiamo ai romanzi di Paolo Volponi e Ottiero Ottieri.
 Su questo sfondo, La chiave a stella di Primo Levi spicca nettamente, perché riesce a rappresentare la dignità del lavoro - e persino la felicità del lavoro - al di fuori di gabbie filosofiche o sovrastrutturali troppo incombenti. 
 L'idea centrale da cui Levi parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
 Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.
 Il personaggio attraverso il quale questo concetto cardine è illustrato è Libertino (detto Tino) Faussone, un operaio specializzato, di professione montatore, che incarna il narratore di secondo grado dalla cui voce viene raccontata la maggior parte delle storie che animano il testo, e che ci vengono riferite dal narratore "titolare". Quest'ultimo - chimico per un azienda di vernici industriali - è sostanzialmente coincidente con la figura dell'autore stesso, e incontra Faussone, torinese come lui, durante una trasferta di lavoro in terra russa.
 Di Faussone veniamo a sapere che ha trentacinque anni, è figlio di uno stagnino e ha lavorato in passato alla catena di montaggio della Lancia. Grazie alla sua abilità, alla sua intraprendenza e alla sua viva intelligenza ha in seguito trovato un impiego in un altro ambito, specializzandosi nel montaggio di grandi tralicci, gru e cavi di ponti sospesi, a volte di dimensioni colossali. 
 Faussone ha scelto il lavoro di montatore perché gli permette di veder crescere con soddisfazione i complicati manufatti che realizza - e che pochi riuscirebbero ad assemblare con la sua stessa perizia - e perché gli consente di girare il mondo: la sua opera può essere richiesta in Africa, in India, in Alaska, in Medio Oriente o in Russia. Tutto ciò, d'altra parte, gli impedisce di avere molti amici, e gli ha sconsigliato di crearsi una famiglia, che dovrebbe abbandonare per mesi durante le lunghe trasferte; ma queste cose sembra non rimpiangerle troppo. Durante i brevi periodi in cui torna a Torino, ospitato dalle sue vecchie zie, la stanzialità finisce per venirgli presto a noia.
 
Primo Levi sul posto di lavoro
 
 In ogni storia che Faussone racconta (che si tratti di un gigantesco derrik eretto presso un impianto di estrazione petrolifera da mettere in opera in mezzo al mare, di una gru capace di sollevare pesi di decine di tonnellate o dei cavi intrecciati tirati tra una campata e l'altra di un modernissimo ponte sospeso, a sostenerne la struttura) il gusto per il lavoro svolto e il ricordo delle difficoltà incontrate sono sempre associate ad emozioni autenticamente umane, ed esprimono una vitalità da homo faber che si avvicina molto a comporre il ritratto di un individuo pienamente realizzato.
 Il narratore di primo grado, a sua volta, non è un ascoltatore passivo: al di là della curiosità con cui pone domande che punteggiano e danno un ritmo alle storie del suo interlocutore, anch'egli interviene raccontando a Faussone le proprie vicende professionali; ne nasce un dialogo basato su un linguaggio tutto particolare, quello dell'impegno quotidiano a cui ognuno è chiamato per ricavare i propri mezzi di sostentamento e per acquisire la dignità propria dell'uomo utile a sé e ai suoi simili.
 Qualche considerazione merita lo stile adottato: perseguendo un effetto realistico, Levi fa di Faussone un narratore tutt'altro che brillante, con la sua tendenza a infarcire il proprio discorso di proverbi piuttosto banali, con la sua mancanza di fantasia nelle similitudini, con il suo linguaggio costellato di vernacolismi e solecismi. Nel complesso, il tentativo di connotare il racconto di una persona dalla modesta preparazione letteraria e dalla cultura umanistica limitata può dirsi riuscito, anche se talvolta si ha la sensazione di una eccessiva insistenza sugli aspetti popolari dell'idioletto di Faussone, con effetti sgradevolmente caricaturali.
 E tuttavia il libro, a più di quarant'anni dalla sua pubblicazione, si continua a leggere con enorme piacere: un testo in cui uno degli aspetti preponderanti della vita della maggior parte di noi trova il giusto spazio per essere trattato con il giusto tono. 
 
In poche parole: attraverso le storie raccontate da Tino Faussone, specialista nel montaggio e nella posa di tralicci, gru e ponti di enormi dimensioni in tutto il mondo, in La chiave a stella Primo Levi rende omaggio all'importanza e alla dignità del lavoro. L'idea centrale da cui l'autore parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore, che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.

Voto: 7

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