domenica 1 maggio 2022

Jean Amery, "Intellettuale a Auschwitz", Bollati Boringhieri

 
 
 Intellettuale a Auschwitz è tra i libri cardine che hanno segnato l'analisi della realtà dei campi di sterminio, in cui studiatamente ha preso forma compiuta quella inaudita perversione dell'umano che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 Se il più grande testimone della ferocia dell'universo concentrazionario, Primo Levi, procede sempre dalla narrazione di ciò che ha vissuto in prima persona, per poi ricavarne verità generali, punti fermi teorici di natura, etica, storica e antropologica, Jean Amery parte al contrario da interrogativi o questioni generali di ordine teorico e filosofico, cercando poi le risposte a queste domande nell'esperienza del lager e della violenza subita dai nazisti.
 Il confronto fra i due approcci è in particolare pertinente perché Levi e Amery furono curiosamente richiusi entrambi, per un certo periodo, nello stesso Lager, quello di Buna-Monowitz, sottocampo di Auschwitz, in cui si trovavano come prigionieri ebrei: l'infimo livello gerarchico fra i detenuti-schiavi del campo, considerati sottouomini persino dai criminali comuni e dai prigionieri politici ugualmente confinati dietro il filo spinato, destinati prima o poi alla morte sicura per esaurimento delle forze, o all'eliminazione nelle camere a gas.
 La figura di Amery è assai particolare perché egli non si era mai considerato un ebreo, prima che i nazisti gli imponessero questa etichetta. Nato col nome di Hans Mayer nel 1912 a Vienna in una famiglia di origine ebraica, ma non più praticante da generazioni e perfettamente integrata nella società austriaca, tanto da farne proprie mentalità e tradizioni, era stato brutalmente costretto a prendere atto della strutturazione della società su basi razziste imposta dai nazionalsocialisti dopo l'Anschluss, ed era allora emigrato in Belgio dove, in seguito all'invasione delle truppe hitleriane, si era unito alla Resistenza.
 Torturato dalle SS dopo la cattura e rinchiuso per due anni in diversi campi di concentramento fino alla fine della guerra, scrisse Intellettuale a Auschwitz  solo parecchi anni dopo la Liberazione. 
 Diversi sono gli argomenti che vi vengono presi in considerazione: il primo è quello della disumanizzazione dell'individuo incarcerato che i nazisti scientemente perseguirono nei lager. Prima ancora dell'eliminazione fisica dei prigionieri, infatti, l'ideologia hitleriana contemplava la loro destituzione da tutto ciò che costituisce la ricchezza della condizione umana, vale a dire 1) la facoltà di ogni singolo uomo di percepirsi come individuo libero e pensante, 2) la capacità di elevarsi al di sopra delle proprie funzioni fisiche e del proprio materiale operare, 3) la possibilità di coltivare predilezioni e affetti. 
 I prigionieri-schiavi, così, erano tenuti in vita solo fintantoché erano in grado di svolgere un lavoro manuale a beneficio del Reich. Il tradizionale intellettuale umanista (in cui Amery si riconosce), privo di qualsiasi competenza tecnica, naturalmente, non rientrando in nessuna delle categorie ritenutie "utili" dai nazisti a guardia dei campi, e quindi impiegato perlopiù come bestia di fatica, aveva modo di rendersi conto di tutto ciò con inusitata chiarezza.
 
Jean Amery
 
 Un procedimento analogo a quello messo in atto nei Lager si può riconoscere anche nella pratica della tortura, largamente praticata dai nazisti sui loro nemici, ed esperita personalmente dallo stesso Amery. Un uomo torturato è, di fatto, spogliato di sé e ridotto a un animale dolente, a un corpo che sente e pena, senza più nulla di "spirituale"; perciò, secondo Amery, l'essenza del nazismo è riscontrabile nella tortura non meno che nell'istituzione dei campi di sterminio. 
 Alla luce di tutto ciò, le ingiurie perpetrate dal popolo tedesco nei confronti dei suoi nemici nei tragici anni della propria infatuazione hitleriana sono di tale gravità da legittimare un risentimento che determina l'incancellabilità dei terribili fatti del periodo 1933-45: le colpe accumulate non possono essere dimenticate dopo un generico pentimento o con un semplice colpo di spugna, e non possono passare in prescrizione a cuor leggero, dato che pochissimi furono i tedeschi "giusti", coloro che, anche senza opporsi apertamente al regime (cosa di fatto impossibile in alcuni frangenti), si dissociarono da esso e rifiutarono di sacrificare la propria umanità sull'altare dell'esaltazione nazionalista del luminoso e terribile destino del sangue germanico. Il risentimento - nell'ottica dell'autore - diventa insomma uno strumento per mantenere viva la consapevolezza della tremenda colpa collettiva di cui l'ubriacatura nazista portò il popolo tedesco a macchiarsi.
 Particolarmente interessanti - sia in chiave psicologica sia in chiave sociale - sono poi le questioni identitarie poste nel libro: il bisogno di ogni uomo di avere una patria e il singolare rapporto di Amery stesso con l'ebraismo. Posto che ciascuno ha bisogno di sentirsi legato a una patria, l'autore si trova nella particolarissima condizione di non potere più fare riferimento alla sua originaria identità nazionale tedesco-austriaca - rivelatasi ostile in maniera del tutto inattesa, quasi per reazione autoimmune -, e di doversi quindi paradossalmente cucire addosso nella maniera migliore possibile l'abito di quell'identità ebraica che i nazisti hanno voluto imporgli; senza però riuscirci fino in fondo. Da qui il disorientamento derivante dal fatto di essere un "non-non ebreo". 
 Un disorientamento tanto profondo da condurre Amery - insieme ad altre considerazioni sull'inevitabile processo di invecchiamento e sulla logica imperfetta e fallace che lega la colpa all'espiazione - alla scelta di porre fine alla propria esistenza nel 1978 con una sorta di suicidio filosofico.
 
In poche parole: Jean Amery alla nascita a Vienna, nel 1912, si chiamava Hans Mayer; la sua era una famiglia di antiche origini ebraiche ma non praticante, che si era del tutto integrata nel tessuto sociale austriaco e aveva perfettamente assimilato la cultura germanica. Hans non si era mai percepito come un ebreo; furono i nazisti, dopo l'Anschluss nel 1938 a cucirgli addosso questa identità fittizia; egli reagì emigrando in Belgio, assumendo un nuovo nome e unendosi alla Resistenza dopo l'invasione del Paese da parte delle truppe hitleriane. Catturato, torturato e poi rinchiuso in campo di concentramento, sopravvisse miracolosamente all'Olocausto. Con Intellettuale a Auschwitz egli trae dalla propria esperienza del Lager una riflessione acutissima sulla fondamentale e irredimibile perversione che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 
Voto: 7

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