sabato 9 luglio 2022

Veronica Raimo, "Niente di vero", Einaudi


 "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
 Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
 L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. Veronica (Verika per la madre, Oca per il padre, Veronika per se stessa quando sogna di diventare una rockstar) è una ragazza nata nel 1978, che cresce insieme ai genitori (madre insegnate, padre dirigente d'azienda) e al dotatissimo fratello maggiore in un appartamento non troppo grande nel quartiere romano di Rebibbia. 
 Nell'intento di permettere a ciascuno dei componenti del nucleo familiare di conservare la propria autonomia e di salvaguardare la propria privacy, il padre suddivide con dei tramezzi in cartongesso l'appartamento in una serie di microscopici stanzini, che trasformano la casa in una sorta di alveare dalle cui cellette è possibile origliare le pseudo-solitudini degli altri, interiorizzarne le nevrosi, abituarsi alle loro idiosincrasie. L'appantamento parcellizzato diventa un po' il simbolo dell'angustia delle relazioni familiari di Veronica: quella con la madre Francesca ansiosa e leggermente sessuofobica, ossessionata dai figli non avuti, capace di telefonare sempre nel momento meno opportuno; quella con il padre premuroso e collerico insieme, patofobico e malato di lavoro, famoso per la sua espressione deprecativa "siamo arrivati al paradosso"; quella con il fratello devoto e prodigiosamente intelligente, destinato a diventare un politico e uno scrittore.
 Lo stile con cui vengono ricostruiti numerosi episodi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, e alcuni snodi essenziali della vita della protagonista è contemporaneamente analitico e svagato, divagante e capzioso: si può passare dalle visite in Puglia a nonna Muccia alla scoperta del sesso, dalla morte del padre alla carriera scolastica di Veronica, dalle sue avventure con la storica amica Cecilia al sentimento religioso da cui vengono conquistati il fratello o il suo ex fidanzato.
 
Veronica Raimo
 
 Ciò che a poco a poco emerge con nettezza, però, è innanzitutto l'impossibilità di fissare quello che effettivamente è stato con assoluta certezza. Emblema di questo assioma è la constatazione che il falso diario concepito da ragazzina da Veronica per ingannare e tranquillizare sua madre (che - ella sapeva - di certo l'avrebbe letto di nascosto) sembra, riletto con gli occhi di oggi, più che plausibile: perfettamente, addirittura sentimentalmente attendibile.
 L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino. Al contrario, mi sembra che si ostenti una sorta di compiaciuta eccentricità, un soslipsismo estetizzante, che evidentemente si ritiene possa nobilitare il sostanziale disinteresse per punti di vista diversi dal nostro. Certe sinuosità stilistiche, certe ricercate immagini, così, più che impreziosire il dettato acuendo la sua acribia analitica, finiscono per esaltarne la piega narcisistica. Temo che tutto questo configuri un modo di apparire alternativi e anticonformisti un po' troppo a buon mercato.
 
In poche parole: "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. 
L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino.

Voto: 6,5

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