venerdì 23 ottobre 2015

Svetlana Aleksievich, "Preghiera per Chernobyl", edizioni e/o


 Libro della scrittrice bielorussa premio Nobel 2015 sulle apocalittiche conseguenze che il più grave incidente nucleare della storia – del quale nella prossima primavera ricorrerà il trentesimo anniversario – ebbe sulle moltissime persone che furono investite dal disastro, e la cui vita fu letteralmente sconvolta.
 La Aleksievich non si sofferma sulle cause tecniche dello scoppio verificatosi la notte del 26 aprile 1986 al reattore n.4 della centrale nucleare di Chernobyl, e non focalizza nemmeno l’attenzione sugli attori principali di quanto avvenne, vale a dire sui responsabili e sui tecnici della centrale; sposta invece l’obiettivo sulla gente, su quella folla composita di semplici cittadini, soldati, pompieri, operai, contadini, insegnanti, funzionari statali, vecchi, ragazzi, che furono le vittime spesso ignare dei terribili effetti della fuga radioattiva nei giorni, nelle settimane, nei mesi, negli anni che seguirono l’esplosione.
 Per mettere pienamente al centro della scena tutti costoro, l’autrice utilizza un espediente efficacissimo: dopo un sintetico inquadramento storico della vicenda (che ricorda fra l’altro come i venti prevalenti, nei giorni successivi alla catastrofe, spinsero la nube radioattiva verso la Bielorussia, un quinto della popolazione della quale vive tuttora in aree contaminate), ella si eclissa completamente, trasformando tutte le sue interviste – raccolte nel 1996 – in monologhi che danno la possibilità a ciascuno dei protagonisti non solo di raccontare la propria esperienza di Chernobyl, ma di rappresentare, attraverso il proprio specifico punto di vista e il proprio peculiare modo di esprimersi (il proprio idioletto, potremmo dire in termini linguistici), tutto un mondo, irrimediabilmente lacerato o addirittura spazzato via dall’incidente.
 La molteplicità delle voci che si succedono consente così di costruire una sorta di narrazione collettiva in cui i sentimenti, i pensieri, i ricordi, le opinioni di ogni testimone si sommano, si accavallano, si rispecchiano, si contrappongono, si inseguono componendo un quadro dalle multiformi iridescenze e dalle patenti dissonanze, che costituisce forse la restituzione più fedele possibile di quella tragedia.
 Alcuni critici hanno notato come questo tipo di tecnica narrativa sia stata mutuata dalle opere di uno dei più noti scrittori bielorussi del Novecento, Ales’ Adamovich, e hanno parlato di prosa epico-corale; a me è tornato alla memoria lo schema utilizzato in molti romanzi di Roberto Bolaño, in cui diversi personaggi si passano il testimone della narrazione sviluppando il racconto come un flusso continuo in cui però si giustappongono e si completano molteplici prospettive.
 Nell’ampio affresco realizzato in questo modo emergono sia l’imperizia e la criminale negligenza di quei militari e di quei funzionari sovietici che, anziché tutelare le popolazioni colpite, si preoccuparono soprattutto di minimizzare la portata dell’incidente al cospetto dei media occidentali, sia l’indescrivibile sgomento di coloro che si trovarono esposti, ciascuno a suo modo, a una minaccia terribile e fino allora inimmaginabile, e videro improvvisamente sovvertite tutte le loro convinzioni.

Il premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievich

 Vi sono i pompieri, gli elicotteristi, i soldati, che fecero proprio il mito dell’eroismo sovietico propagandato dal regime, e accettarono di lavorare vicino al reattore ancora ardente senza le adeguate protezioni, condannandosi a una morte certa, lenta e terribile. Vi sono i “liquidatori” chiamati a erodere, armati di semplici vanghe, lo strato superficiale del terreno contaminato, o a tagliare e seppellire i tronchi degli alberi della foresta che avevano assorbito le radiazioni. Vi sono i contadini, che in molti casi rimasero tenacemente aggrappati alla propria terra, nonostante le ingiunzioni di sgombero delle autorità. Vi sono, al contrario, coloro ai quali fu detto che potevano continuare a vivere come sempre, e che non prendendo le necessarie contromisure per evitare la contaminazione persero se stessi e i propri figli. Vi sono le mogli e le madri di coloro che andarono incontro alla morte soltanto per aver ubbidito a un ordine. Vi sono quelli che sull’esperienza di Chernobyl pretesero di costruire una nuova filosofia del vivere, e svilupparono una sorta di disincantata misantropia. Vi sono coloro che nella campagne abbandonate intorno al reattore si trasferirono pochi anni dopo il disastro per sfuggire alle guerre che, al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, si accesero in tutti gli angoli dell’ex impero. Vi sono i bambini malati, che scontano colpe non loro collegate a errori commessi prima del loro stesso concepimento.
 Alcuni episodi e alcuni particolari riportati dai testimoni sono indimenticabili: come quel giornalista che, nell’effettuare delle riprese nella zona dell’incidente, avverte la sensazione di trovarsi di fronte a uno scenario astratto, e si rende presto conto che quell’impressione deriva dal fatto che, nel pieno dello sbocciare della primavera, a Chernobyl i fiori non profumano e gli uccelli non cantano. O come quel soldato che, tornato a casa da Chernobyl, nell’atto di distruggere la propria divisa contaminata dalle radiazioni, decide di tenere il berretto a bustina che aveva promesso di regalare a suo figlio piccolo, e così facendo inconsapevolmente condanna il bambino, che di lì a poco morirà per un tumore al cervello.
 In tutto questo, i sentimenti prevalenti sono un senso di terribile solennità di fronte a un disastro immane e una profondissima commozione.

Voto: 8

sabato 17 ottobre 2015

Annie Ernaux, "Gli anni", L'Orma


 Come si può scrivere un’autobiografia senza rinchiudersi nell’angustia di una prospettiva radicalmente personalistica, anche qualora si riescano a eludere i rischi dell’autoindulgenza o della smodata celebrazione di sé? Come si può, contemporaneamente, provare a cogliere le caratteristiche, gli avvenimenti, i momenti essenziali della propria epoca storica, senza scivolare in luoghi comuni da divulgazione giornalistica o senza adottare, al contrario, uno sguardo troppo eccentrico e distorto?
 Ci prova in questo ottimo libro la scrittrice francese Annie Ernaux, classe 1940, che compie un’operazione stilisticamente assai interessante: fin dall’inizio evita di parlare di se stessa dicendo “io”, e rinuncia – per così dire – ad essere la protagonista unica della propria storia; pone invece in primo piano gli anni che ha vissuto, distillandone sulla base dei propri vividi ricordi il senso, il clima morale, le immagini indelebili. Soggetto e testimone di tutto ciò che accade non è quindi un singolo individuo, ma tutta una generazione: da qui l’uso abituale del “noi” per descrivere, rievocare, raccontare.
 Solo a tratti l’inquadratura “si stringe” e pone al centro della scena la Annie di un tempo, narrandola però sempre in terza persona, e soffermandosi su singole istantanee che la colgono ad età diverse, in momenti differenti, ma tutti ugualmente significativi, della sua esistenza.
 In questo modo è come se l’autrice utilizzasse il suo io semplicemente per filtrare tutto il tempo che l’ha attraversata, trasformando se stessa in una sorta di setaccio che spesso è solo accarezzato dal flusso degli avvenimenti, mentre altre volte ne trattiene cospicui frammenti, ne viene colpito, deformato e modellato.

Un'immagine giovanile di Annie Ernaux

 Si rivivono così i primi anni del dopoguerra, le tavolate famigliari nella provincia francese, quando, riemersi dalle asprezze della guerra d’occupazione, si alzavano i calici per brindare “ai crucchi, che non ne berranno”. Nei pomeriggi d’infanzia si sognava Parigi, lontana solo 140 km eppure quasi irraggiungibile, e si seguiva sulle cartine il percorso del Tour de France; ci si appassionava al dibattito sul raccapricciante affaire Dominici, e si guardava con diffidenza alla scuola e all’istruzione, almeno al di sopra di un certo livello.
 E poi il progredire degli anni cinquanta: Sartre era sempre un’icona, De Gaulle sembrava destinano a vivere in eterno, ma l’ineluttabile processo di decolonizzazione presentava un conto salatissimo alla Francia, con la sconfitta in Indocina e l’infuriare della guerra d’Algeria. Per una ragazza, crescere voleva dire andare alla ricerca di modelli diversi dalla propria madre e dall’infinita catena di mogli e madri che l’avevano preceduta, e dunque aspirare all’indipendenza in un mondo in cui la donna non era per nulla padrona del proprio corpo, e il sesso era un continente sconfinato, attraente e proibito.
 Per Annie l’età adulta, l’epoca delle scelte – e degli errori a cui è difficile porre rimedio – arriva prima del maggio 1968, ineludibile spartiacque sentimentale e culturale, che cambierà irreversibilmente la società, ponendo una pietra tombale sull’intollerabile bigotteria del passato, su mille censure e paure, e aprirà un’epoca di fughe in avanti, di frenate, di entusiasmi e di malesseri, di sogni meravigliosi e di attese deluse.
 Tutto quello che verrà dopo ne sarà in qualche modo influenzato: la ricerca di una maggiore autenticità, la frustrazione derivante dal confronto fra il proprio anelito di assoluto e la mediocrità del quotidiano, l’eterna insoddisfazione per la politica e i politici, il tentativo di Annie di sfuggire alla prigione dei problemi contingenti per rifugiarsi in una sorta di “tempo palinsesto”, che le consenta di “ripercorrere” il già visto e il già vissuto con una consapevolezza maggiore della prima volta. 

Un recente ritratto fotografico di Annie Ernaux
      
 Importante è rilevare come in questo libro, nel complesso intrecciarsi di avvenimenti pubblici e privati, l’atteggiamento con cui si guarda al passato è fondamentalmente contemplativo più che storicisticamente impostato, anche se la memoria si organizza intorno ad alcuni principi guida di valore assoluto e ad alcune idee “forti”, che consentono ad Annie Ernaux di interpretare le stagioni di cui ha fatto esperienza, di prendere posizione e di esprimere giudizi molto netti su fatti e personaggi, suddividendo la propria vita in “tappe” ben definite: così,  l’antifascismo è una costante culturale della sua formazione (e l’appartenenza alla sinistra, qualunque fisionomia essa assuma, ne è l’eredità); il ruolo cardine del maggio 1968 è il punto fermo della sua giovinezza, soprattutto per la rivoluzione della morale sessuale e per l’emancipazione della condizione femminile (con l’introduzione dell’aborto) che ne furono le più dirette conseguenze; l’esigenza di “rivivere” il tempo trascorso per recuperarlo e meglio comprenderlo, affrancandosi in qualche modo dall’indeterminatezza del presente, è il portato essenziale della maturità.
 Il risultato che ne scaturisce è assolutamente notevole; il racconto è sempre vibrante, non vi sono passaggi a vuoto. Il lettore ne è conquistato, e la lettura risulta piacevole dall'inizio alla fine.

Voto: 7+

venerdì 9 ottobre 2015

Elena Loewenthal, "Lo specchio coperto", Bompiani


 Molti sono i libri notevoli costruiti attorno all’esperienza dolorosissima della perdita del compagno o della compagna di una vita: mi vengono in mente, nell’ambito della letteratura italiana, Il taglio del bosco di Carlo Cassola o Nei mari estremi di Lalla Romano.
 Il più appropriato termine di paragone che si può individuare per questo breve testo di Elena Loewenthal – storica traduttrice italiana dei romanzi dei principali scrittori israeliani – si trova però al di fuori dei nostri confini, ed è A Grief observed (pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo Diario di un dolore) di Clive Staples Lewis.
 Il testo di C.S. Lewis è un tesissimo e profondissimo corpo a corpo con l’idea stessa della fede, condotto da un fervente cristiano precipitato nella più cupa disperazione dopo la morte della moglie. La realtà ineludibile di un dolore quasi insopportabile spinge l’autore fino a ipotizzare l’esistenza di un dio malvagio e spietato, che viene voglia di sfidare o addirittura di rigettare. Ma, a ben vedere, la straziante sofferenza di un uomo che ha perso quanto aveva di più caro al mondo non intacca per nulla le ragioni della fede; anzi le rafforza, invitando ad annullare le complesse geometrie dell’amore umano nell’assolutezza di una fede che può sussistere solo in quanto cieca e pura.
 La Loewenthal, invece, dopo la morte del compagno, si muove nell’ambito di una elaborazione del lutto secondo i rituali previsti dalla religione ebraica: lo specchio coperto da un drappo (da qui il titolo del libro) per fugare anche la tentazione di un episodico cedimento alla vanità personale del sopravvissuto al cospetto della solennità della morte; la settimana di lutto strettissimo in cui si rimane chiusi in casa a ricevere le pietose visite di amici e parenti.
 E tuttavia, soprattutto, il libro della Loewenthal, al contrario di quello di C.S. Lewis, presenta un profilo essenzialmente laico: la scomparsa del compagno non porta la scrittrice a fare i conti con la fede o con una dimensione trascendente in cui si suppone o si spera che possa sopravvivere qualcosa dell’amato; la morte è esplorata invece nella sua umana concretezza, per cui viene vissuta da chi rimane fondamentalmente come assenza straziante, vuoto incolmabile.

Elena Loewenthal

 Al sollievo iniziale per la fine della tormentosa malattia che si è portata via il compagno, subentra infatti per l’autrice il senso del “mai più”, o meglio del “per sempre” della mancanza: la consapevolezza dell’irreparabilità della perdita – la convinzione che nulla potrà più essere come prima – acuita dal quotidiano contatto con gli oggetti che appartenevano al morto, che erano “vissuti” dal morto, e che appaiono inevitabilmente carichi di ricordi.   
 E poi, una volta attutitasi la violenza dello schiaffo iniziale, prende corpo l’analisi attonita della fenomenologia del lutto, dello sconcertante agire della morte su di sé: alcuni dei ricordi che contro la propria volontà ineluttabilmente sbiadiscono; il dolore che si fa anche fisico, che si ricava uno spazio suo dentro il sopravvissuto, e che giorno dopo giorno si trasforma e lo trasforma; l’ombra di vaghi sensi di colpa, che si sposa a un desiderio di ribellione contro la vita che si traduce nella voglia di essere sgarbati con chiunque; la nostalgia, lacerante anche quando non è condita da alcun rimpianto; l’incertezza del futuro, incupita da un’unica, tragica certezza, quella che lui non ci sarà più; e, alla fine, l’intima comprensione del fatto che con l’amato è materialmente morta anche una parte di sé: tutto il proprio essere che era contenuto nei suoi pensieri e nel suo sentire.
 Per questo non c'è e non ci può essere nessuna vera, umana consolazione.

Voto: 7

P.S.: Curiosamente, per via di una di quelle coincidenze talvolta imbarazzanti che capitano in editoria, il libro della Loewenthal riporta in copertina la medesima immagine scelta per il romanzo di Marina Mizzau che ho commentato un paio di settimane fa (un'immagine forse più appropriata per questo testo che per quello...).

giovedì 1 ottobre 2015

Marco Balzano, "L'ultimo arrivato", Sellerio


 Libro vincitore – con pieno merito – del premio Campiello 2015.
 Ninetto Giacalone è un bambino siciliano di 9 anni che, in seguito alla paralisi che colpisce la madre, è costretto prima ad abbandonare la scuola per contribuire al sostentamento della famiglia, poi a lasciare la nativa San Cono, suo padre, la sua casa e tutto il suo mondo per partire al seguito di un semplice conoscente, Giuvà, alla volta di Milano in cerca di fortuna.  
 È il 1959, e sul treno pieno di emigranti come lui, Ninetto (detto “pelleossa”) porta con sé solo il ricordo del suo fraterno amico Peppino, il quaderno regalatogli dall’indimenticabile maestro Vincenzo Di Cosimo – con l’invito a tenervi un diario –, e il sogno di diventare un poeta.
 A Milano, in principio, il ragazzino evita di “dormire alla luna” solo grazie all’ospitalità di alcuni parenti di Giuvà (che peraltro gli offrono una sistemazione piuttosto sgradevole), ma imparerà prestissimo a cavarsela da solo: troverà lavoro dapprima come galoppino per conto di una lavanderia, poi come muratore, infine, al compimento del quindicesimo anno di età, entrerà come operaio all’Alfa Romeo di Arese. Prima ancora, però, sposerà Maddalena, una piccola calabrese – sua coetanea – lavorante in un pastificio industriale.
 In realtà, nella tessitura romanzesca, l’epoca avventurosa dell’approdo a Milano è rievocata da un Ninetto ormai cinquantasettenne, che ha appena finito di scontare dieci anni di carcere. In prigione – come si scoprirà solo nella parte finale del romanzo – il protagonista-narratore del libro ci è finito per via della conseguenze di una sorta di raptus di gelosia: Ninetto ha infatti accoltellato Paolo, fidanzato della figlia Elisabetta (avuta dalla sempre fedele Maddalena, che gli è rimasta vicina nonostante tutto), dopo averli sorpresi mentre si scambiavano effusioni in cantina.
 Rievocare il suo ormai remoto passato da emigrante serve a Ninetto per prendere le misure a una Milano che non riconosce più (e che non offre più nessuna delle infinite possibilità di un tempo), a provare a tracciare un bilancio della propria esistenza (paradossalmente, gli anni “tranquilli” vissuti come operaio all’Alfa Romeo gli sembrano ora i più grigi e tristi che abbia vissuto) e, soprattutto, a raccogliere le idee per realizzare quella che è diventata la sua più alta aspirazione: affidare alla piccola Lisa, la bambina che Elisabetta e Paolo hanno avuto dopo essersi sposati – e che da Ninetto viene accuratamente tenuta lontana – la storia della sua vita.

Marco Balzano festeggia la conquista del "Campiello"

 Il libro è decisamente bello, possiede una grande freschezza, e il racconto della vita del piccolo emigrante svolto attraverso la viva voce e il punto di vista del Ninetto adulto, – che peraltro evita ogni forma di autocommiserazione – è a tratti quasi commovente.
 Marco Balzano, con un’operazione di una certa raffinatezza, cerca di ricreare la parlata ibrida degli emigranti trasferitisi dall’Italia meridionale in Lombardia e ivi rimasti: un curioso impasto del dialetto siciliano (originario del protagonista), di un italiano “scolastico” e delle sue interferenze con l’oralità del dialetto milanese. Ne viene fuori una lingua che riesce sufficientemente “vera”, diretta e vivace, elaborata  e nello stesso tempo semplice da capire per il lettore.
 Questa lingua informa di sé l'intero romanzo, conferendogli un'impronta stilistica inconfondibile, che rende questo libro senz'altro più maturo rispetto alle precedenti, pur gradevoli, prove narrative dell'autore: Il figlio del figlio e Pronti a tutte le partenze.

Voto: 7