venerdì 9 ottobre 2015

Elena Loewenthal, "Lo specchio coperto", Bompiani


 Molti sono i libri notevoli costruiti attorno all’esperienza dolorosissima della perdita del compagno o della compagna di una vita: mi vengono in mente, nell’ambito della letteratura italiana, Il taglio del bosco di Carlo Cassola o Nei mari estremi di Lalla Romano.
 Il più appropriato termine di paragone che si può individuare per questo breve testo di Elena Loewenthal – storica traduttrice italiana dei romanzi dei principali scrittori israeliani – si trova però al di fuori dei nostri confini, ed è A Grief observed (pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo Diario di un dolore) di Clive Staples Lewis.
 Il testo di C.S. Lewis è un tesissimo e profondissimo corpo a corpo con l’idea stessa della fede, condotto da un fervente cristiano precipitato nella più cupa disperazione dopo la morte della moglie. La realtà ineludibile di un dolore quasi insopportabile spinge l’autore fino a ipotizzare l’esistenza di un dio malvagio e spietato, che viene voglia di sfidare o addirittura di rigettare. Ma, a ben vedere, la straziante sofferenza di un uomo che ha perso quanto aveva di più caro al mondo non intacca per nulla le ragioni della fede; anzi le rafforza, invitando ad annullare le complesse geometrie dell’amore umano nell’assolutezza di una fede che può sussistere solo in quanto cieca e pura.
 La Loewenthal, invece, dopo la morte del compagno, si muove nell’ambito di una elaborazione del lutto secondo i rituali previsti dalla religione ebraica: lo specchio coperto da un drappo (da qui il titolo del libro) per fugare anche la tentazione di un episodico cedimento alla vanità personale del sopravvissuto al cospetto della solennità della morte; la settimana di lutto strettissimo in cui si rimane chiusi in casa a ricevere le pietose visite di amici e parenti.
 E tuttavia, soprattutto, il libro della Loewenthal, al contrario di quello di C.S. Lewis, presenta un profilo essenzialmente laico: la scomparsa del compagno non porta la scrittrice a fare i conti con la fede o con una dimensione trascendente in cui si suppone o si spera che possa sopravvivere qualcosa dell’amato; la morte è esplorata invece nella sua umana concretezza, per cui viene vissuta da chi rimane fondamentalmente come assenza straziante, vuoto incolmabile.

Elena Loewenthal

 Al sollievo iniziale per la fine della tormentosa malattia che si è portata via il compagno, subentra infatti per l’autrice il senso del “mai più”, o meglio del “per sempre” della mancanza: la consapevolezza dell’irreparabilità della perdita – la convinzione che nulla potrà più essere come prima – acuita dal quotidiano contatto con gli oggetti che appartenevano al morto, che erano “vissuti” dal morto, e che appaiono inevitabilmente carichi di ricordi.   
 E poi, una volta attutitasi la violenza dello schiaffo iniziale, prende corpo l’analisi attonita della fenomenologia del lutto, dello sconcertante agire della morte su di sé: alcuni dei ricordi che contro la propria volontà ineluttabilmente sbiadiscono; il dolore che si fa anche fisico, che si ricava uno spazio suo dentro il sopravvissuto, e che giorno dopo giorno si trasforma e lo trasforma; l’ombra di vaghi sensi di colpa, che si sposa a un desiderio di ribellione contro la vita che si traduce nella voglia di essere sgarbati con chiunque; la nostalgia, lacerante anche quando non è condita da alcun rimpianto; l’incertezza del futuro, incupita da un’unica, tragica certezza, quella che lui non ci sarà più; e, alla fine, l’intima comprensione del fatto che con l’amato è materialmente morta anche una parte di sé: tutto il proprio essere che era contenuto nei suoi pensieri e nel suo sentire.
 Per questo non c'è e non ci può essere nessuna vera, umana consolazione.

Voto: 7

P.S.: Curiosamente, per via di una di quelle coincidenze talvolta imbarazzanti che capitano in editoria, il libro della Loewenthal riporta in copertina la medesima immagine scelta per il romanzo di Marina Mizzau che ho commentato un paio di settimane fa (un'immagine forse più appropriata per questo testo che per quello...).

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