sabato 17 ottobre 2015

Annie Ernaux, "Gli anni", L'Orma


 Come si può scrivere un’autobiografia senza rinchiudersi nell’angustia di una prospettiva radicalmente personalistica, anche qualora si riescano a eludere i rischi dell’autoindulgenza o della smodata celebrazione di sé? Come si può, contemporaneamente, provare a cogliere le caratteristiche, gli avvenimenti, i momenti essenziali della propria epoca storica, senza scivolare in luoghi comuni da divulgazione giornalistica o senza adottare, al contrario, uno sguardo troppo eccentrico e distorto?
 Ci prova in questo ottimo libro la scrittrice francese Annie Ernaux, classe 1940, che compie un’operazione stilisticamente assai interessante: fin dall’inizio evita di parlare di se stessa dicendo “io”, e rinuncia – per così dire – ad essere la protagonista unica della propria storia; pone invece in primo piano gli anni che ha vissuto, distillandone sulla base dei propri vividi ricordi il senso, il clima morale, le immagini indelebili. Soggetto e testimone di tutto ciò che accade non è quindi un singolo individuo, ma tutta una generazione: da qui l’uso abituale del “noi” per descrivere, rievocare, raccontare.
 Solo a tratti l’inquadratura “si stringe” e pone al centro della scena la Annie di un tempo, narrandola però sempre in terza persona, e soffermandosi su singole istantanee che la colgono ad età diverse, in momenti differenti, ma tutti ugualmente significativi, della sua esistenza.
 In questo modo è come se l’autrice utilizzasse il suo io semplicemente per filtrare tutto il tempo che l’ha attraversata, trasformando se stessa in una sorta di setaccio che spesso è solo accarezzato dal flusso degli avvenimenti, mentre altre volte ne trattiene cospicui frammenti, ne viene colpito, deformato e modellato.

Un'immagine giovanile di Annie Ernaux

 Si rivivono così i primi anni del dopoguerra, le tavolate famigliari nella provincia francese, quando, riemersi dalle asprezze della guerra d’occupazione, si alzavano i calici per brindare “ai crucchi, che non ne berranno”. Nei pomeriggi d’infanzia si sognava Parigi, lontana solo 140 km eppure quasi irraggiungibile, e si seguiva sulle cartine il percorso del Tour de France; ci si appassionava al dibattito sul raccapricciante affaire Dominici, e si guardava con diffidenza alla scuola e all’istruzione, almeno al di sopra di un certo livello.
 E poi il progredire degli anni cinquanta: Sartre era sempre un’icona, De Gaulle sembrava destinano a vivere in eterno, ma l’ineluttabile processo di decolonizzazione presentava un conto salatissimo alla Francia, con la sconfitta in Indocina e l’infuriare della guerra d’Algeria. Per una ragazza, crescere voleva dire andare alla ricerca di modelli diversi dalla propria madre e dall’infinita catena di mogli e madri che l’avevano preceduta, e dunque aspirare all’indipendenza in un mondo in cui la donna non era per nulla padrona del proprio corpo, e il sesso era un continente sconfinato, attraente e proibito.
 Per Annie l’età adulta, l’epoca delle scelte – e degli errori a cui è difficile porre rimedio – arriva prima del maggio 1968, ineludibile spartiacque sentimentale e culturale, che cambierà irreversibilmente la società, ponendo una pietra tombale sull’intollerabile bigotteria del passato, su mille censure e paure, e aprirà un’epoca di fughe in avanti, di frenate, di entusiasmi e di malesseri, di sogni meravigliosi e di attese deluse.
 Tutto quello che verrà dopo ne sarà in qualche modo influenzato: la ricerca di una maggiore autenticità, la frustrazione derivante dal confronto fra il proprio anelito di assoluto e la mediocrità del quotidiano, l’eterna insoddisfazione per la politica e i politici, il tentativo di Annie di sfuggire alla prigione dei problemi contingenti per rifugiarsi in una sorta di “tempo palinsesto”, che le consenta di “ripercorrere” il già visto e il già vissuto con una consapevolezza maggiore della prima volta. 

Un recente ritratto fotografico di Annie Ernaux
      
 Importante è rilevare come in questo libro, nel complesso intrecciarsi di avvenimenti pubblici e privati, l’atteggiamento con cui si guarda al passato è fondamentalmente contemplativo più che storicisticamente impostato, anche se la memoria si organizza intorno ad alcuni principi guida di valore assoluto e ad alcune idee “forti”, che consentono ad Annie Ernaux di interpretare le stagioni di cui ha fatto esperienza, di prendere posizione e di esprimere giudizi molto netti su fatti e personaggi, suddividendo la propria vita in “tappe” ben definite: così,  l’antifascismo è una costante culturale della sua formazione (e l’appartenenza alla sinistra, qualunque fisionomia essa assuma, ne è l’eredità); il ruolo cardine del maggio 1968 è il punto fermo della sua giovinezza, soprattutto per la rivoluzione della morale sessuale e per l’emancipazione della condizione femminile (con l’introduzione dell’aborto) che ne furono le più dirette conseguenze; l’esigenza di “rivivere” il tempo trascorso per recuperarlo e meglio comprenderlo, affrancandosi in qualche modo dall’indeterminatezza del presente, è il portato essenziale della maturità.
 Il risultato che ne scaturisce è assolutamente notevole; il racconto è sempre vibrante, non vi sono passaggi a vuoto. Il lettore ne è conquistato, e la lettura risulta piacevole dall'inizio alla fine.

Voto: 7+

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