domenica 29 aprile 2018

Luca Ricci, "Gli autunnali", La nave di Teseo


 Gli autunnali è la storia di una stramba ossessione erotica che si innesta sull'abulica stanchezza di uno scrittore di mezza età, prigioniero di una sorta narcisismo decadente, di uno stato d'animo incline a un autocompiacimento insieme cinico e malinconico, che gli rende difficile continuare a scrivere romanzi, e indirizza su un binario morto il suo rapporto con la moglie Sandra.
 Tutto comincia all'inizio del mese di settembre quando, in una Roma immersa nell'atmosfera tiepida e voluttuosa di fine estate, il protagonista-narratore - che ha un figlio già grande che studia all'estero, e vive di collaborazioni giornalistiche ed editoriali e comparsate televisive, grazie alla fama ottenuta con i libri pubblicati in passato - si accorge che il suo matrimonio si è ridotto a un noioso ménage ormai incapace di dargli gli stimoli e le soddisfazioni di cui è in cerca; questo, nonostante Sandra sia ancora decisamente una bella donna.
 Glielo fa notare anche Gittani, l'amico di sempre, anche lui scrittore, anche lui in crisi espressiva ed esistenziale, che tradisce la moglie Carla, ricoverata in un hospice per malati terminali, con Maria, la piacente infermiera che quotidianamente l'assiste. Del resto Gittani è la persona meno indicata per dare al nostro consigli improntati a un pragmatico buon senso: ad accomunare i due amici, infatti, sono lo snobismo e l'ostentato disprezzo per tutto quanto possa apparire ordinario, esteticamente poco rilevante, o semplicemente "normale". Un edonismo del tutto autoreferenziale e un sarcasmo onnipervasivo sembrano le uniche modalità di rapportarsi con il reale che i due ritengano degne di considerazione; tanto che nell'antico sodale il protagonista finisce per trovare soltanto un uditore curioso e divertito delle proprie disavventure sentimentali e una morbida sponda per le proprie stravaganze.  
 Gittani non batte ciglio di fronte alla deriva psicologica che si innesca quando l'amico, un giorno, scopre su una bancarella di libri usati una monografia di Amedeo Modigliani, e sfogliandola viene letteralmente folgorato da una fotografia di Jeanne Hébuterne, la ragazza ritratta in numerosissimi quadri dal pittore, che ne fece la sua musa e la sua compagna di vita. Il legame fra i due era così stretto che, quando Modigliani morì di Spagnola, Jeanne si suicidò, nonostante fosse incinta al nono mese, gettandosi da una finestra del quinto piano dell'appartamento dei genitori.
 Sulla base di quella sola fotografia, il protagonista concepisce per Jeanne Hébuterne un amore ardente e impossibile, capace di superare il secolo che li separa, e in grado di riaccendere, grazie a una specie di bizzarro transfert, i suoi appetiti nei confronti del corpo di Sandra, che ha smesso da tempo di toccare. Il problema è che mentre fanno l'amore, a lui sembra di sentire sul letto, accanto a loro, il piede nudo di Jeanne Hébuterne; e non importa che con ogni probabilità si tratti del gatto entrato di soppiatto in camera dalla porta che dà sul terrazzo...
 Superata questa prima fase di originale eccitazione, il protagonista si riallontana da Sandra, e con una scusa (sostiene di avere bisogno di isolamento e concentrazione per concepire il suo prossimo romanzo) si ritira a passare le notti nella stanza lasciata libera dal figlio Maurizio, solo con la foto di Jeanne, a coltivare le sue complicate fantasie.
 La situazione cambia decisamente quando, una sera, Sandra invita a cena la cugina Gemma, assai più giovane di lei, con cui un tempo passava lunghe estati al mare. Incredibilmente, Gemma non solo risulta essere il ritratto perfetto di Jeanne Hébuterne, ma intrattiene anche una tormentata relazione con Clemente, un pittore dallo stile di vita decisamente bohémien dal quale ha scoperto da poco di aspettare un bambino. 
  
 Luca Ricci

Con la scusa di farsi fare un ritratto da Clemente - novello Modigliani - il protagonista entra in casa della coppia e, appena intuisce l'esistenza di qualche attrito fra Gemma e il suo compagno, ne approfitta per sedurre la donna di cui, a dispetto della parentela con Sandra, diviene l'amante; nemmeno in questo caso si tratta di un legame semplice però, perché Gemma, alle prese con la gravidanza, è riluttante al cospetto degli assalti amorosi del suo nuovo, imbarazzante partner, e finisce per imporgli una specie di castità forzata.   
 Così, il protagonista si ritrova a restare accanto a Gemma per adorarla, per accarezzarla, per annusarla, per accompagnarla alle visite ginecologiche che monitorano lo sviluppo intrauterino di un figlio non suo. A permettergli di sfogare i suoi istinti sessuali più impellenti e aggressivi ci penserà Kainene, una prostituta nigeriana che vive non lontano dall'abbaino di Sandra. Su Kainene egli si accanirà con una violenza sadica che finirà per andare ben oltre il furioso spirito di rivalsa e la ricerca di nuove emozioni, sconfinando nella brutalità incontrollata; costretta a sottostare in lunghe sedute alla frusta, la ragazza, che dapprima aveva pure apprezzato le perversioni del suo raffinato cliente, finirà per prendere paura, ribellandosi e scomparendo dalla circolazione.
 A questo punto, l'ossessione d'amore del protagonista-narratore si è spinta tanto in là da rasentare la follia e da essere quasi ingestibile: perfino al Gittani egli fatica a raccontare quanto gli sta succedendo.
 Quando Gemma viene a sapere che Clemente è sparito dalla circolazione, gli chiede infatti di provare a rintracciarlo. Ma nel momento in cui egli lo trova in casa di altri artisti, il pittore è tanto stordito dalle droghe che ha assunto che il protagonista crede che sia morto; e, tornando a casa dalla sua donna, concepisce una malsana fantasia: si convince che Gemma sia destinata a ripercorrere realmente le orme di Jeanne Hébuterne, e a uccidersi - incinta - una volta venuta a sapere della morte di Clemente. Addirittura le apre la finestra e la invita a buttarsi di sotto dal quinto piano! A questo punto Gemma, resasi pienamente conto della sua instabilità mentale, non può che cacciarlo di casa.
 Il protagonista decide allora di sposare in tutto e per tutto la causa di Jeanne Hébuterne, quella vera; tanto più che la moglie Sandra pare essersi raffreddata nei suoi confronti, per via dell'infatuazione che la sospinge verso un nuovo condomino, un uomo misterioso che ha l'abitudine di spiarla da una delle finestre del suo appartamento che danno sul cortile interno del condominio. 
 Vendicare Jeanne significa punire Amedeo Modigliani, colpendo ciò che è rimasto di lui nel mondo: le sue opere d'arte. Il protagonista arriva così a concepire e a pianificare un attentato nello spazio espositivo in cui è organizzata una mostra monografica dedicata al pittore; solo la prontezza di Nadia - una fedele lettrice dei suoi romanzi che, con la complicità di Gittani, aveva tentato di intrecciare una relazione con lui e ne era stata respinta - consente ai servizi di sicurezza presenti sul posto di individuarlo e di neutralizzarlo. 
 Per il protagonista si aprono allora le porte del carcere di Regina Coeli, dove Gittani - che nel frattempo ha perso la moglie Carla, e ha lasciato l'infermiera Maria, nelle braccia della quale, si scopre, Carla stessa l'aveva spinto - si reca a visitarlo; ma la follia sembra ormai essersi completamente impadronita di lui, portandolo a credere che tutto il suo complicato delirio sia stato indotto grazie a un piano ben architettato dall'amico, intenzionato a sottrargli la moglie Sandra, di cui sarebbe stato segretamente innamorato. 
 Il libro vorrebbe essere una raffinata messa in scena in chiave postmoderna della sempiterna capacità della passione d'amore di volgersi repentinamente dall'agonia all'euforia, dalla tragedia alla commedia, dalla doppiezza all'autenticità. 
 Ma l'esperimento assolutamente non riesce: l'autore non dà mai l'impressione di governare con disinvoltura la sostanza del racconto, gigioneggia con i tempi narrativi e con il parallelismo fra il degenerare della passione del protagonista e l'avanzare dell'autunno, costruisce personaggi tanto poco credibili quanto irritanti, fatica a conquistare il lettore e finisce per lasciare che tutta la vicenda diventi schiava di un simbolismo abbastanza schematico e superficiale.
 La correttezza - e, a tratti, la ricercatezza - della scrittura potrebbe sembrare la maggiore virtù del testo, se la sua pulizia non desse l'impressione di nascondere l'incapacità di modulare davvero stile e tono della narrazione. 
 Ne viene fuori un romanzo banale, pretenzioso, insopportabilmente estetizzante, la cui lettura non viene aiutata da qualche sciatteria redazionale di troppo, insolita per la casa editrice responsabile della pubblicazione.

Voto: 5 -

sabato 21 aprile 2018

Siri Ranva Hjelm Jacobsen, "Isola", Iperborea


 In un'epoca come la nostra - di migrazioni massicce e talvolta dolorose, che però spesso non portano il migrante a troncare del tutto i rapporti col suo Paese d'origine (come per lo più avveniva nei secoli passati) -, mettere a fuoco la psicologia di chi si sposta da un angolo all'altro del mondo, e analizzare i legami suoi e dei suoi discendenti con le proprie radici remote e con la propria nuova patria è quasi un dovere per chiunque voglia cercare di capire il mondo in cui vive.
 Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen fa anche di più: declina liricamente la sopravvivenza nella psiche del migrante dell'universo che si è lasciato alle spalle, e ne esplora tutte le implicazioni; solo che il contesto migratorio che viene descritto è affatto diverso a quelli a cui siamo abituati.
 Infatti il nonno e la nonna materni dell'autrice - abbi e omma, Fritz e Marita - si trasferiscono sul finire degli anni Trenta del Novecento dalle remote isole Faroe (le diciotto "Isole delle pecore") alla Danimarca, a cui pure amministrativamente l'arcipelago appartiene.
 Fritz parte perché vuole andare in cerca di una vita diversa, che non lo costringa alla scelta tra fare l'allevatore o fare il pescatore: gli piacerebbe studiare per diventare ingegnere elettronico, ma le circostanze lo condurranno a diventare insegnante.
 Marita parte più tardi per raggiungere il fidanzato, ma la sua partenza è legata a un segreto: quando si imbarca, la ragazza ha ancora il ventre dolorante per via dell'aborto che si è procurata per eliminare le tracce della gravidanza conseguente alla sua relazione clandestina con il fratello di Fritz, Ragnar il Rosso, l'unico comunista del suo villaggio, amante dei libri, della filosofia, della tecnologia.
 Fritz e Marita si ritroveranno a Copenaghen, si sposeranno, avranno una figlia, vivranno una vita lunga e felice, ma non dimenticheranno mai la propria terra: la lingua faroese resterà per sempre il loro intimo codice espressivo, un mondo da cui la figlia - la madre dell'autrice - si sentirà costantemente esclusa; gli amici e i parenti rimasti in patria conserveranno un posto privilegiato nella loro geografia degli affetti; il fiero spirito indipendentista faroese resterà parte integrante del loro modo di pensare e di sentire, e li aiuterà a superare gli anni bui della Seconda guerra mondiale, quando la Danimarca sarà occupata dalle truppe tedesche (nonostante si fosse proclamata neutrale), mentre le Faroe fungeranno da base per la marina inglese nel nord dell'Oceano Atlantico.

 Siri Ranva Hjelm Jacobsen

 Il cuore del libro è costituito dalla riscoperta e dal recupero di tutte queste cose da parte dell'autrice stessa, rappresentante della terza generazione dei migranti, quella che "è una coperta troppo corta: totalmente disinvolta e libera da condizionamenti culturali, oppure a casa solo per metà".
 Così, dopo la morte della nonna, la protagonista-narratrice sente l'esigenza di ritrovare il legame con la terra dei suoi antenati, con i suoi paesaggi, con il suo clima, con le sue leggende, grazie alla mediazione dei genitori - laddove possibile - e ai ricordi d'infanzia, e alla memoria dei racconti dei nonni, e a vecchi parenti ancora in vita.
 Il suo viaggio a Vagar è un'immersione in un'atmosfera senza tempo, in cui la storia della centrale di ricezione radio che, ai tempi della guerra fredda, serviva ad ascoltare le comunicazioni scambiate fra loro dai sovietici convive con la leggenda antichissima secondo cui alcune delle isole dell'arcipelago un tempo sarebbero state isole galleggianti; il ricordo dell'epica difesa di un medico del locale ospedale, accusato di essere stato un nazista, da parte di tutti gli abitanti dell'arcipelago, in nome della propria indipendenza e autonomia di giudizio sopravvive insieme alla memoria del tentativo fallito da parte di Ragnar il Rosso di sradicare con l'esplosivo un masso dal terreno sul retro della propria casa, che si diceva custodire creature soprannaturali; la vicenda della costruzione della vecchia centrale elettrica si incrocia con il racconto delle gesta del "gabbiano di Beate", che stabilì il proprio nido sul tetto della casa della moglie di Ragnar il Rosso, negli ultimi anni della sua vita.
 Il libro è bello, perché dà la sensazione di essere l'espressione di una necessità profonda, di un anelito identitario che nella sua estrema peculiarità appare veramente universale, alieno dal particolarismo gretto ed egoistico delle rivendicazioni identitarie figlie del nazionalismo a cui siamo abituati.
 Il linguaggio utilizzato dalla Jacobsen è uno dei caratteri più originali del libro: evocativo, immaginifico, stilizzato, fluttuante, riesce a passare repentinamente da una descrittività estremamente precisa e concreta a una vaghezza assolutamente onirica, dall'ironia scanzonata alla numinosità narcotica. Tutto questo è talvolta molto efficace; altre volte appare forse un po' troppo lontano dalla nostra sensibilità letteraria.

Voto: 6+

domenica 15 aprile 2018

Andrej Longo, "Dieci", Adelphi


 Oggi voglio proporre un libro pubblicato alcuni anni fa come rimedio ideale contro i cliché diffusi e consolidatisi nel tempo sulla "napoletanità deteriore", cioè sugli atavici problemi che affliggono la Campania più di altre regioni italiane (problemi quali criminalità, disoccupazione, miseria, ignoranza, mancanza di senso civico), che vengono quasi sempre rappresentati sotto le specie di modelli senz'altro icastici, ma spesso schematici e, in definitiva, un po' troppo superficiali e più inclini a mitizzare il male che utili per studiare - da un punto di vista socio-culturale - dei rimedi veri a quello che non va.
 Il libro si intitola Dieci; Dieci, come i dieci comandamenti. Andrej Longo costruisce il suo personale decalogo mettendo in scena peccati e peccatori: solo che siamo appunto a Napoli, nei quartieri dove a dettare legge è la camorra, dove a regnare sono la povertà e il degrado, dove lo stato di diritto non esiste; e qui anche la Bibbia e le norme che definiscono la rettitudine agli occhi di Dio assumono un significato diverso, sinistramente ironico.
 Nei dieci racconti che compongono il libro, i dieci protagonisti-narratori espongono la loro esperienza della vita, che è un’esperienza sempre amara, segnata dall’urto con una realtà dura, subita come una condanna dai più consapevoli, accettata come un destino ineluttabile da tutti gli altri: così, se Papilù (“Non avrai altro dio all’infuori di me”) è costretto ad asservirsi al boss Gigetto Mezzanotte, anche se la cosa gli ripugna, per evitare che la fidanzata Vanessa venga insidiata da tre prepotenti, Rosa (“Non commettere atti impuri”), che a quattordici anni è stata violentata e messa incinta dal padre, non possiede alcun mezzo per sfuggire al suo male; e la mite Ciuciù (“Ricordati di santificare le feste”) non può fare nulla per tenersi vicino il marito, costretto a passare l’intera settimana a Roma per lavorare e far fronte onestamente alle spese che comporta il mantenimento di una famiglia.

Andrej Longo

 Ciò che rende ancora più amara l’ironia di questi racconti non è solo il fatto che i comandamenti che vengono via via enunciati sembrano essere validi non in relazione al principio di giustizia costituito dalla divinità, bensì alle ingiuste gerarchie di potere che vigono fra gli uomini; ad accrescere l’amarezza è anche la constatazione che non sempre il peccato su cui si focalizza l’attenzione è il più grave che viene commesso. Pensiamo all’ottavo racconto, “Non dire falsa testimonianza”: Nicola probabilmente non dice la verità a Riccardo, che torna a casa dopo tanto tempo, su com’è la vita a Napoli (senza mentirgli del tutto consapevolmente, peraltro); ma lo sconosciuto che ruba l’auto di Nicola, addirittura uccide Riccardo che tenta di impedirglielo.
 L’alta qualità letteraria di questo libro è determinata anche dallo stile: Andrej Longo scrive come i suoi personaggi parlano, e questo crea un efficacissimo effetto-verità favorendo l’immersione totale del lettore nella “napoletanità”, però tutto ciò avviene senza compromettere mai la facilità di lettura. La lingua adottata, infatti, non è il dialetto napoletano, ma l’italiano che si parla a Napoli, ricco di inflessioni e di espressioni napoletane, diretto, incisivo, vivace.
 Possiamo dire che Longo arriva dove a Saviano non riesce di arrivare. Laddove Gomorra era una notevole inchiesta giornalistica, che dal punto di vista narrativo esprimeva valori piuttosto modesti, Dieci traduce in componimenti letterari di alta qualità tutti i problemi della Campania di oggi, scongiurando la trappola più insidiosa: quella del luogo comune.

Voto: 7

domenica 8 aprile 2018

Matsumoto Seicho, "Tokyo Express", Adelphi


 A sessant'anni dalla sua prima uscita, Adelphi propone al pubblico italiano uno dei libri più famosi di Matsumoto Seicho, autore di centinaia di romanzi e racconti gialli, considerato una sorta di Simenon giapponese.
 Tokyo Express (il cui titolo originale è Ten to sen) è un romanzo poliziesco che nulla concede alla moda del thriller, e anziché stimolare il lettore con un'azione dal ritmo incalzante e con il continuo ricorso a contenuti adrenalinici, tiene alta la tensione giocando sulle geometrie intellettuali che consentono, attraverso la pervicacia della logica, la tenacia del pensiero, la costanza della ragione, l'individuazione dei colpevoli del crimine che è stato consumato.
 La trama induce a una vera e propria immersione totale nella cultura e nella mentalità tradizionale giapponese, con la sua particolare concezione del ruolo della donna, con il suo spiccato senso dell'onore, con il suo assoluto rispetto delle gerarchie.
 Una mattina d'inverno, un operaio che si reca al lavoro scopre sulla spiaggia rocciosa che si affaccia sulla baia di Hakata - sull'isola di Kyushu, nei pressi di un vecchio santuario Kanpei - i corpi di un uomo e di una donna. L'uomo è vestito all'occidentale, la donna indossa un kimono da viaggio color ruggine sotto un soprabito; composti e perfettamente in ordine, sembra quasi che i due dormano tranquillamente.
 Basta poco alla polizia per scoprire che si tratta di Sayama Ken'ichi, Vicecapo di Sezione presso un Ministero recentemente investito da uno scandalo che vede i suoi dirigenti fortemente indiziati di corruzione, e di Otoki, una ragazza che lavora presso un prestigioso ristorante di Tokyo, il Koyuki, come cameriera e accompagnatrice dei clienti. Il ruolo di Otoki (il cui vero nome è Kuwayama Hideko, e che si è trasferita a Tokyo dalle campagne di Akita per cercare lavoro dopo la separazione dal marito) è simile a quello di una geisha: è chiamata a servire e a intrattenere raffinatamente gli uomini ai quali è assegnata, senza che questo intrattenimento abbia necessariamente implicazioni erotiche.
 Tutto lascia pensare che Sayama e Otoki si siano suicidati insieme, utilizzando una bibita avvelenata contenuta in una bottiglia trovata vicino ai loro corpi: la polizia ipotizza che Sayama - uno dei testimoni chiave nell'inchiesta sulla corruzione di alcuni alti funzionari del Ministero nel quale è impiegato - si sia tolto la vita per non essere costretto ad accusare i suoi capi, tradendoli e coprendosi così di disonore; la donna, con ogni probabilità la sua amante, avrebbe deciso di uccidersi con lui, assecondando una tradizione assai radicata nel Paese del Sol Levante.
 Il problema è che nessuno era a conoscenza di un legame tra Sayama e Otoki, che nonostante la sua proverbiale riservatezza avrebbe verosimilmente rivelato alle amiche l'esistenza di un amante. Solo pochi giorni prima del ritrovamento dei cadaveri, due colleghe della ragazza, Yaeko e Tomiko, avevano scorto con grande sorpresa Otoki alla stazione di Tokyo in compagnia di un uomo - quasi sicuramente Sayama - mentre si accingeva a salire sull'Asakaze, l'espresso che collega Tokyo all'isola di Kyushu. Le due ragazze si trovavano alla stazione per accompagnarvi il signor Yasuda, un imprenditore cliente abituale del Koyuki, che doveva recarsi in treno a Kamakura a far visita alla moglie malata di tubercolosi; era stato proprio Yasuda, che conosceva molto bene Otoki, a far notare la sua presenza sul binario 15 a Yaeko e Tomiko.

 Matsumoto Seicho

 Il caso verrebbe senz'altro archiviato come un duplice suicidio, se non fosse per l'intuito di un vecchio poliziotto di Hakata, magro, grigio, quasi stropicciato: Torigai Jutaro. Nella tasca del cappotto di Sayama, infatti, è stata ritrovata una ricevuta relativa a un pranzo consumato da una sola persona sul vagone ristorante dell'Asakaze; e a Torigai sembra semplicemente inverosimile che una donna tanto innamorata del proprio uomo da decidere di suicidarsi con lui lo lasciasse mangiare senza compagnia mentre viaggiava sul suo stesso treno verso la morte. Il suo sospetto, dunque, è che Sayama viaggiasse da solo verso Hakata, e che Otoki fosse in realtà scesa dal treno prima della sua destinazione finale. Ma allora, dove è scesa dal treno Otoki, e dove è stata per tutto il tempo che separa la sua partenza dal ritrovamento del suo cadavere, mentre Sayama soggiornava in un ryokan (una specie di pensione tradizionale) nei pressi di Hakata?
 Torigai prova a raccogliere qualche indizio che avvalori il dubbio che ha concepito: si reca alla stazione dove Sayama e Otoki devono essere scesi per raggiungere la spiaggia sulla quale - cinque giorni dopo la loro partenza da Tokyo - si sarebbero suicidati; va alla ricerca di testimoni capaci di riconoscere e ricordare una coppia corrispondente alla descrizione dei due giovani; soprattutto, comincia a studiare l'orario ferroviario per ricostruire nel dettaglio i possibili spostamenti dei due sventurati amanti.
 Per la verità l'indagine personale di Torigai non sembra fare significativi passi avanti; se non che il suo testimone viene raccolto da un agente della polizia di Tokyo, Mihara Kiichi, il quale, ben conoscendo l'importanza della figura di Sayama come possibile teste dell'accusa nel processo che prometteva di sconvolgere il Ministero nel quale il Vicecapo sezione lavorava, non può convincersi fino in fondo della volontarietà del suo gesto: troppi e troppo importanti sono coloro che hanno tratto beneficio dalla scomparsa di Sayama!
 Mihara, con grande acume e incomparabile tenacia, riesce a scoprire che il signor Yasuda - l'imprenditore cliente del ristorante Koyuki che ha creato le condizioni affinché vi fossero testimoni del legame tra Sayama e Otoki, indispensabile per avvalorare l'ipotesi del doppio suicidio - è uno dei fornitori più importanti del Ministero coinvolto nello scandalo; che il diretto Asakaze si può vedere fermo sul binario 15 della stazione di Tokyo solo per un breve intervallo di 4 minuti, perché in qualsiasi altro momento la visuale è coperta dalla presenza in stazione di altri convogli fermi sui binari adiacenti, e che proprio in quel breve intervallo di tempo Yasuda si è fatto accompagnare dalle due ragazze del Koyuki al proprio treno, che però sarebbe partito solo diversi minuti dopo; che Yasuda conosce alla perfezione l'orario ferroviario, vista la frequenza delle sue visite alla moglie malata a Kamakura; che la moglie di Yasuda, la delicata Ryoko, che si diletta di letteratura, ha addirittura scritto un racconto il cui bizzarro tema è l'orario delle ferrovie, e la sua facoltà di evocare luoghi lontani e per lei irraggiungibili.
 Yasuda diventa dunque agli occhi di Mihara il principale sospettato di quello che potrebbe rivelarsi non un suicidio di coppia, bensì un duplice omicidio.
 Sfortunatamente Yasuda possiede un alibi di ferro: il giorno della morte di Sayama e di Otoki si trovava non in Kyushu, e neppure a Tokyo, ma addirittura a Sapporo, nell'isola di Hokkaido, nel nord del Giappone, dove si era recato per affari, come sono in grado di confermare non solo testimoni diretti, ma anche le carte di imbarco firmate dallo stesso Yasuda al momento di prendere il traghetto.
 Solo in virtù della sua straordinaria pazienza, della sua incrollabile acribia analitica e di molti caffè, Mihara riuscirà a smontare l'alibi di Yasuda e a incastrare l'imprenditore, portando avanti un'indagine molto simile a una partita a scacchi tutta giocata con quel codice particolarissimo e assai complesso costituito dall'orario ferroviario e dai finissimi ricami da esso intessuti sul filo dei minuti.
 La soluzione del caso ci riserverà anche un colpo di scena finale, che darà al lettore la possibilità di rileggere i rapporti fra i personaggi alla luce della declinazione tutta giapponese di concetti quali amore, sessualità, affetto, gelosia, onestà, rispetto.
 Il libro è bello e piuttosto originale: lo allontanano dalla tradizione del romanzo poliziesco occidentale non solo la diversa contestualizzazione, le differenti "categorie dello spirito" che vengono prese in considerazione e il ritmo un po' meno incalzante rispetto a quello dei gialli a cui siamo abituati, ma anche la presenza non di uno ma di due investigatori (Torigai e Mihara), che si passano il testimone dell'indagine (e del punto di vista prevalente adottato nel corso della narrazione) facendola quasi assomigliare a un'inchiesta collettiva. 
 Occorre inoltre sottolineare il carattere totalmente incruento della storia raccontata, laddove l'intreccio si presenta simile a un intricato labirinto, pieno di falsi passaggi e di muri ciechi, per uscire dal quale è indispensabile operare con logica sottile e con invincibile forza di volontà.
 E mai come in questo caso, la sostanza del racconto è più importante del suo esito finale.

Voto: 6,5