Libro della scrittrice bielorussa premio Nobel 2015 sulle
apocalittiche conseguenze che il più grave incidente nucleare della storia –
del quale nella prossima primavera ricorrerà il trentesimo anniversario – ebbe
sulle moltissime persone che furono investite dal disastro, e la cui vita fu
letteralmente sconvolta.
La Aleksievich non si sofferma sulle cause tecniche dello
scoppio verificatosi la notte del 26 aprile 1986 al reattore n.4 della centrale
nucleare di Chernobyl, e non focalizza nemmeno l’attenzione sugli attori
principali di quanto avvenne, vale a dire sui responsabili e sui tecnici della
centrale; sposta invece l’obiettivo sulla gente, su quella folla composita di
semplici cittadini, soldati, pompieri, operai, contadini, insegnanti,
funzionari statali, vecchi, ragazzi, che furono le vittime spesso ignare dei
terribili effetti della fuga radioattiva nei giorni, nelle settimane, nei mesi,
negli anni che seguirono l’esplosione.
Per mettere pienamente al centro della scena tutti costoro,
l’autrice utilizza un espediente efficacissimo: dopo un sintetico inquadramento
storico della vicenda (che ricorda fra l’altro come i venti prevalenti, nei
giorni successivi alla catastrofe, spinsero la nube radioattiva verso la
Bielorussia, un quinto della popolazione della quale vive tuttora in aree
contaminate), ella si eclissa completamente, trasformando tutte le sue
interviste – raccolte nel 1996 – in monologhi che danno la possibilità a
ciascuno dei protagonisti non solo di raccontare la propria esperienza di
Chernobyl, ma di rappresentare, attraverso il proprio specifico punto di vista
e il proprio peculiare modo di esprimersi (il proprio idioletto, potremmo dire
in termini linguistici), tutto un mondo, irrimediabilmente lacerato o
addirittura spazzato via dall’incidente.
La molteplicità delle voci che si succedono consente così di
costruire una sorta di narrazione collettiva in cui i sentimenti, i pensieri, i
ricordi, le opinioni di ogni testimone si sommano, si accavallano, si
rispecchiano, si contrappongono, si inseguono componendo un quadro dalle
multiformi iridescenze e dalle patenti dissonanze, che costituisce forse la
restituzione più fedele possibile di quella tragedia.
Alcuni critici hanno notato come questo tipo di tecnica
narrativa sia stata mutuata dalle opere di uno dei più noti scrittori
bielorussi del Novecento, Ales’ Adamovich, e hanno parlato di prosa
epico-corale; a me è tornato alla memoria lo schema utilizzato in molti romanzi
di Roberto Bolaño, in cui diversi personaggi si passano il testimone della
narrazione sviluppando il racconto come un flusso continuo in cui però si
giustappongono e si completano molteplici prospettive.
Nell’ampio affresco realizzato in questo modo emergono sia l’imperizia
e la criminale negligenza di quei militari e di quei funzionari sovietici che,
anziché tutelare le popolazioni colpite, si preoccuparono soprattutto di
minimizzare la portata dell’incidente al cospetto dei media occidentali, sia l’indescrivibile
sgomento di coloro che si trovarono esposti, ciascuno a suo modo, a una
minaccia terribile e fino allora inimmaginabile, e videro improvvisamente
sovvertite tutte le loro convinzioni.
Il premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievich
Vi sono i pompieri, gli elicotteristi, i soldati, che fecero
proprio il mito dell’eroismo sovietico propagandato dal regime, e accettarono
di lavorare vicino al reattore ancora ardente senza le adeguate protezioni,
condannandosi a una morte certa, lenta e terribile. Vi sono i “liquidatori”
chiamati a erodere, armati di semplici vanghe, lo strato superficiale del
terreno contaminato, o a tagliare e seppellire i tronchi degli alberi della
foresta che avevano assorbito le radiazioni. Vi sono i contadini, che in molti
casi rimasero tenacemente aggrappati alla propria terra, nonostante le
ingiunzioni di sgombero delle autorità. Vi sono, al contrario, coloro ai quali
fu detto che potevano continuare a vivere come sempre, e che non prendendo le
necessarie contromisure per evitare la contaminazione persero se stessi e i
propri figli. Vi sono le mogli e le madri di coloro che andarono incontro alla
morte soltanto per aver ubbidito a un ordine. Vi sono quelli che sull’esperienza
di Chernobyl pretesero di costruire una nuova filosofia del vivere, e
svilupparono una sorta di disincantata misantropia. Vi sono coloro che nella
campagne abbandonate intorno al reattore si trasferirono pochi anni dopo il
disastro per sfuggire alle guerre che, al momento della dissoluzione dell’Unione
Sovietica, si accesero in tutti gli angoli dell’ex impero. Vi sono i bambini
malati, che scontano colpe non loro collegate a errori commessi prima del loro
stesso concepimento.
Alcuni episodi e alcuni particolari riportati dai testimoni
sono indimenticabili: come quel giornalista che, nell’effettuare delle riprese
nella zona dell’incidente, avverte la sensazione di trovarsi di fronte a uno
scenario astratto, e si rende presto conto che quell’impressione deriva dal
fatto che, nel pieno dello sbocciare della primavera, a Chernobyl i fiori non
profumano e gli uccelli non cantano. O come quel soldato che, tornato a casa da
Chernobyl, nell’atto di distruggere la propria divisa contaminata dalle radiazioni,
decide di tenere il berretto a bustina che aveva promesso di regalare a suo
figlio piccolo, e così facendo inconsapevolmente condanna il bambino, che di lì
a poco morirà per un tumore al cervello.
In tutto questo, i sentimenti prevalenti sono un senso di terribile solennità di fronte a un disastro immane e una profondissima commozione.
Voto: 8