sabato 1 ottobre 2016

Eraldo Affinati, "L'uomo del futuro", Mondadori


L'uomo del futuro (titolo meraviglioso) non è tanto una biografia di don Milani; è piuttosto una sorta di seduta spiritica con cui si cerca di far rivivere don Milani e di farlo "parlare".
La rievocazione del Priore passa, da una parte, attraverso la visita dei luoghi che furono teatro degli snodi fondamentali della sua esistenza, e dei superstiti fra le persone che gli furono accanto; dall'altra attraverso la ricerca delle "reincarnazioni" - nei contesti e nelle situazioni più disparate e impensabili - del modo di vivere, di insegnare, di imparare che si realizzò negli anni sessanta a Barbiana.
Pur consapevole dell'irripetibilità umana di don Lorenzo, Eraldo Affinati tenta così di intercettare quelle che potremmo chiamare le "onde gravitazionali" scatenatesi al passaggio nel mondo di una delle figure più discusse e ammirate dell'Italia che, trascorsi gli anni dell'immediato dopoguerra, si affacciava alla modernità.
Nel suo peregrinare - reale e ideale - l'autore visita i luoghi che videro Lorenzo Milani giovane, dalle vie di Firenze, a Montespertoli, a Castiglioncello: appartenente a una prestigiosa famiglia dell'alta borghesia, mezzo ebraica (da parte di madre), mezzo cattolica, il ragazzo aveva la possibilità di vedersi schiudere dinanzi qualsiasi tipo di carriera. Visse un'infanzia privilegiata e poi un'adolescenza veramente degna di un giovin signore, al termine della quale, una volta compiuti gli studi liceali, Lorenzo sembrava destinato a diventare un pittore.
Solo a questo punto maturò rapidamente in lui la vocazione religiosa.
Fin dagli anni del seminario (frequentato nel corso della Seconda guerra mondiale, mentre la Penisola era in fiamme) emersero la sua indole indipendente e la sua intelligenza, capace di critiche puntute all'autorità a cui il mondo ecclesiastico preconciliare non era sicuramente abituato. Con ciò, don Milani non uscì mai dal solco dell'ortodossia; il fatto che entrasse spesso in urto con i suoi superiori (che lo punirono a più riprese), e che mettesse in discussione su tutti i fronti l'obbedienza come valore non lo indusse mai a credere di poter fare a meno dall'abito talare.

Eraldo Affinati

Fu profondamente devoto, il che non gli impedì di sviluppare un approccio intrinsecamente giacobino al problema dell'ingiustizia: credeva nella lotta di classe, pensava che ci si dovesse necessariamente schierare e si schierò senza esitazioni dalla parte dei poveri contro l'etica, la mentalità, lo stesso modo di essere dei borghesi, quasi volesse non solo rinnegare, ma addirittura fare a brandelli tutto ciò che era stato da ragazzo.
Il suo radicalismo si espresse concretamente nel sistema pedagogico da lui teorizzato e praticato: concepì la classe come collettivo, con lo scopo di creare un contesto in cui nessuno fosse lasciato indietro; la forza del gruppo permetteva anzi di rivolgere il processo educativo in primo luogo a beneficio dei più deboli. Il tempo pieno costituiva la dimensione naturale di una scuola che, prima di essere un'istituzione, voleva essere una totalizzante esperienza formativa.
Di certo con questa visione - di cui sono stati sottolineati nel tempo pregi e limiti -, ancora oggi, chiunque abbia a che fare con l'insegnamento deve confrontarsi.
Eraldo Affinati, da parte sua, dichiarandosi seguace di don Milani, la fa propria in toto; in questo modo si dispone a raccogliere, nella realtà intorno a sé, le prove che don Milani aveva ragione.
Innanzitutto riconosce qui in Italia i poveri di oggi - quelli per cui don Lorenzo si sarebbe battuto - negli immigrati.
Contemporaneamente, durante i suoi viaggi in molti Paesi del mondo, trova ragazzi a cui solo un approccio come quello di don Milani saprebbe dare dignità e consapevolezza, fornendo loro gli strumenti per strapparsi dalla propria miserevole condizione.
Su un altro piano, individua in diversi contesti geografici e culturali insegnanti che di don Milani sono emuli spesso inconsapevoli, e rappresentano per i loro allievi la sola speranza di poter avere una vita migliore. Succede in Sierra Leone, in Marocco, a Benares, a Pechino, ma anche nelle periferie degradate delle capitali europee, a Berlino per esempio.
Il modo di procedere dell'autore è squisitamente rapsodico, sia nelle concatenazioni narrative che nello stile, graffiante e raffinato, e questo a volte può disorientare il lettore.
L'abbondanza di riferimenti culturali colti non ostacola la preponderante estrinsecazione degli aspetti emotivi del racconto.
Infine, l'impressione vivida che rimane a seguito della lettura è quella di una passione bruciante e contagiosa, che ci si sente in qualche modo chiamati a fare propria.

Chiudo questa recensione con una piccola nota personale: difficilmente dimenticherò questo libro, visto che lo stavo leggendo nei giorni in cui moriva mia madre.

Voto: 7

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