sabato 5 agosto 2017

Wanda Marasco, "La compagnia delle anime finte", Neri Pozza Editore


 Di fronte al corpo, appena ricomposto dalla badante rumena, della madre Vincenzina morta da poco, Rosa cerca - come in preda a una allucinazione - di rievocarne lo spirito, per farsi accompagnare da esso in un mondo a cui sente ancora di appartenere: il mondo della sua infanzia, di una Napoli in cui nulla scompare mai veramente ma tutto si stratifica, e il passato e il presente, i vivi e i morti trovano singolari, stranianti, malinconiche forme di convivenza.
 Vincenzina Umbriello era venuta a Napoli nel marzo del 1946, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per fare la domestica, seguendo l'esempio delle due sorelle maggiori Maria e Italia, trasferitesi in città pochi mesi prima dalle campagne di Villaricca, un po' per il pane e un po' per sfuggire all'occhiuta, tirannica tutela della madre Adelina.
 Adelina era diventata l'anima della sua numerosissima famiglia dopo la morte del marito Biasino, ucciso dalla fucilata di un concorrente geloso mentre percorreva sul carretto una via fuori dal paese insieme alla sua bella amante. Adelina era talmente autoritaria da spingere alla follia la più graziosa delle sue figlie, Iolanda, pur di imporle la rottura del fidanzamento con l'uomo che amava per sposare uno scarparo scelto da lei. Iolanda, pazza di dolore, era finita in un manicomio, e ne era uscita sempre bella ma irrimediabilmente "stupetiata".
 Per Vincenzina, l'occasione di liberarsi della sua ingombrante genitrice era venuta grazie a Rafele Maiorana, figlio del dottor Ennio, un giovane ragioniere di famiglia borghese, abitante in un grande, polveroso appartamento in via Duomo. Sfortunatamente la madre di Rafele, la terribile Lisa Campanini, si era opposta al matrimonio, che si era così celebrato senza il consenso e il sostegno economico dei Maiorana, con Vincenzina già incinta.
 Per i neosposi, a quel punto, era cominciata una vita di ristrettezze dentro un appartamento in uno dei grandi casamenti della collina di Capodimonte, la "Posillipo dei poveri". Lì era cresciuta Rosa, sullo scorcio degli anni cinquanta e sessanta, a stretto contatto con la varia umanità dei "vasci" e la "guagliunera" costituita da tutti i ragazzini sparsi nei vichi del quartiere.
 Dopo la morte precoce di Rafele per via di un cancro, Vincenzina si era messa a fare l'usuraia, riscuotendo i debiti per conto di un vecchio malavitoso, con Rosa che la accompagnava nel corso del suo giro. Questo, paradossalmente, aveva avvicinato Vincenzina e i suoi figli alla gente del posto, anziché allontanarli da essa; come se tutti insieme facessero parte dello stesso girone infernale.

Wanda Marasco

 Rosa, in questo modo, era diventata la migliore amica di Annarella, una ragazza magra e dispettosa, una sorta di spiritello curioso, quasi il nume tutelare della sua scoperta del mondo, degli uomini e del sesso; aveva conosciuto Mariomaria, un "femminiello", una strana creatura dalla spiccata sensibilità e dalla complessa fisionomia emotiva; aveva cominciato a frequentare le due allegre lesbiche Tetella e Gloria, ed Emilia, una ragazza dalla bellissima voce che viveva con loro, e che aveva perso la sua verginità per via di uno stupro; aveva potuto ascoltare i racconti misteriosi e sconclusionati del vecchio Sepe, un anziano cacciatore trasformatosi in "paralitico per noia".
 Tutti costoro erano divenuti la vociante comunità di riferimento di Rosa bambina e poi adolescente, insieme ai fratelli Cerasuolo, alle "orche" che abitavano il suo stesso caseggiato, condividendo la professione di sua madre, al mitico maestro Nunziata, una donchisciottesca figura a metà tra il grande uomo di lettere e la maschera della Commedia dell'arte.
 Tutti costoro, per Rosa adulta, diventata moglie, madre e insegnante, grazie all'evocazione dello spirito di Vincenzina, continuano ad essere una vociante Spoon River, emergente dai recessi della città ipogea, le catacombe napoletane mostrate un giorno ai suoi allievi proprio dal maestro Nunziata, ancora intatte e accessibili sotto le fondamenta dei caseggiati, protette dalle antiche colate di fango e dalle macerie della guerra e dei terremoti.
 Questa Spoon River è così viva e presente nella memoria di Rosa - e così stretto è il rapporto con essa della protagonista narratrice - che, quasi per magia, con inopinato salto temporale, alla fine del libro la sua immersione in quel mondo diventa totale: Rosa finisce per identificarsi completamente in Vincenzina e per sostituirsi a lei; forse perché l'allucinazione diventa incantesimo, o forse perché la vita le riserva realmente un destino analogo a quello della madre.
 Rosa, infatti, muore a sua volta accompagnata dalla nenia di una vecchia canzone della badante rumena, e circondata dai visi dei figli e di quelli che le furono corona durante la sua giovinezza, con i quali va a ricongiungersi definitivamente.
 Wanda Marasco riesce a costruire un bel romanzo, che si giova di una prosa dall'oscillante armonia, piena di slanci, sfumature e accensioni, capace di operare una trasfigurazione onirica della realtà, elevando una febbrile tensione emotiva a norma del rapporto dell'individuo col mondo. Diventano così estremamente concreti personaggi che, pur nella loro modernità, paiono spesso modellati nella stessa creta dei miti classici, che sembrano circondati da una vibrante aura fatata, come se il loro aspetto esteriore e le loro parole riverberassero apertamente i sentimenti che dovrebbero essere custoditi nella loro interiorità.
 Il lettore che sottoscrive il patto narrativo è chiamato a condividere, più che un punto di vista, un modo di essere e quasi una fede. All'inizio questo può destabilizzare un po', e dare l'impressione di essere in balia di un vortice incontrollato di parole. Ma se si impara ad abbandonarsi e a lasciarsene trasportare, si finisce per farsi cullare da un'altalena narrativa che si muove tra patetismo ed esaltazione, con effetti che pochi scrittori riescono ad ottenere.

Voto: 7+      

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