domenica 18 marzo 2018

Andrew O'Hagan, "La vita segreta. Tre storie vere dell'era digitale", Adelphi

 

 Quali sono le caratteristiche precipue della socialità digitale, quel vasto campo di relazioni che costituisce l'ingombrante portato emotivo, culturale e politico della realtà virtuale, e che - negli ultimi anni - ha assunto sempre maggiore peso nella vita di ciascuno di noi, fino a incidere in maniera significativa sulla definizione della nostra percezione del mondo esterno e persino della nostra identità personale?
 Io ne isolerei fondamentalmente tre: la prima e più evidente è l'isteria, derivante dall'oscillazione tra il puntuale senso di onnipotenza che l'utilizzo degli strumenti informatici infondono nel singolo utente, e la ricorrente impressione dell'inconsistenza e dell'irrilevanza dell'individuo - costantemente esposto al confronto con la comunità degli utenti e con il loro punto di vista prevalente - al cospetto della collettività digitale; del resto, dove non esiste uno spazio privato e protetto di libera sperimentazione e di graduale maturazione della personalità individuale, la tendenza non può che essere quella di annichilire qualsiasi deviazione dalla norma stabilita dalla maggioranza.
 La seconda è costituita dal manicheismo, per cui ogni posizione tende a radicalizzarsi eliminando qualsiasi sfumatura e incorporando un giudizio morale.
 La terza è l'autonomia delle dinamiche che sostanziano il mondo digitale rispetto a quelle del mondo reale, di cui la socialità digitale tende a ricalcare le logiche, obliterandone però categorie e significati.
 Tutte queste caratteristiche sono perfettamente rappresentate in questo interessantissimo libro di Andrew O'Hagan, costituito da tre storie che sono a tutti gli effetti dei reportage da una terra che tutti frequentiamo e che, in qualche modo, crediamo di conoscere, ma della quale non è stata ancora concretamente tracciata una dettagliata carta geografica.
 Il primo racconto prova a mettere a fuoco la controversa figura di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, del quale O'Hagan alcuni anni fa fu incaricato da un grosso editore di scrivere l'autobiografia in qualità di ghost writer.
 L'incarico portò lo scrittore scozzese a vivere e lavorare per alcuni mesi gomito a gomito con Assange (che allora non si era ancora rifugiato nell'ambasciata ecuadoregna a Londra, ma risiedeva nel Regno Unito in libertà vigilata), allo scopo di conoscerlo a fondo, di entrare in sintonia con lui per interpretarne nella maniera più fedele pensieri e intenzioni, per dar voce a beneficio del pubblico a tutti i suoi ricordi, per farsi specchio della sua personalità. 
 Nonostante i buoni propositi manifestati da Assange e i lauti anticipi a lui versati dall'editore, il progetto non andò in porto: il celebre programmatore australiano si mostrò insopportabilmente instabile dal punto di vista emotivo, recalcitrante di fronte agli impegni che aveva consapevolmente assunto, indicibilmente egocentrico, irresponsabile verso chiunque lo circondava, sostanzialmente inaffidabile. 
 L'immagine che viene fuori dell'uomo capace di mettere in scacco con le sue rivelazioni i servizi segreti di mezzo mondo, di imbarazzare i capi delle Forze armate e lo stesso Presidente degli Stati Uniti, di far credere che la trasparenza fosse il principale portato etico dell'era di Internet, è tutt'altro che positiva: drogato di celebrità, ossessionato dai suoi nemici, forse schiacciato dal compito di cui si sente investito (quello di denunciare le malefatte dei Governi, di riportare alla luce la polvere nascosta sotto il tappeto dai detentori del potere), Assange appare un bambino capriccioso, un logorroico, un maleducato, un superficiale, un individuo semi-autistico preoccupato unicamente di stupire continuamente i suoi interlocutori per nutrire il suo mito, ma in sostanza incapace di fare i conti con se stesso e i propri limiti. 
 Per O'Hagan questo complesso di atteggiamenti è in parte consustanziale alla personalità di Assange, in parte derivante dalle manie di persecuzione introiettate da un individuo che in effetti è uno degli uomini al mondo più odiati e più esposti a possibili persecuzioni giudiziarie.
 Un ritratto certo significativo e forse emblematico del personaggio è perfettamente compendiato da queste poche righe dell'autore: "Non avevo mai incontrato un uomo con una così buona causa e una così cattiva predisposizione all'ascolto, e neppure il capo di un'organizzazione con una tale, inesauribile capacità di preoccuparsi dei suoi nemici e di sbadigliare in faccia alla gente". 
 La seconda storia proposta è in realtà il resoconto di un esperimento: adottando le modalità operative di quegli agenti di polizia o dei servizi segreti che conducono lunghe operazioni sotto copertura - che assumono l'identità di bambini realmente esistenti ma morti precocemente, sviluppandone con assoluto realismo la biografia fittizia per infiltrarsi senza destare sospetti nel tessuto di grosse organizzazioni criminali, o nelle strutture di Stati stranieri -, Andrew O'Hagan prova a prendere a prestito l'identità di un certo Ronnie Pinn, deceduto nel 1984 a soli 20 anni, per dare vita a un personaggio capace di possedere uno statuto di realtà perfettamente autonomo e assolutamente credibile nel mondo digitale. Il redivivo Ronnie Pinn assume così la facoltà di inoltrarsi nei meandri del cosiddetto "deep web" o "dark web", quel livello della Rete in cui, senza temere troppo intrusioni delle autorità di polizia, ci si può procurare armi, sostanze proibite o si può trovare occasione di dare sfogo alle proprie perversioni sessuali senza preoccuparsi di ciò che è legale e ciò che non lo è.  

 Andrew O'Hagan

 L'operazione riesce perfettamente: Ronnie Pinn si procura un passaporto, un conto in banca, e ricostruisce una biografia che va oltre quella mattina di un giorno d'estate in cui fu trovato morto per overdose nel suo appartamento; Pinn assume anche una personalità sua, intervenendo sui social media, esprimendo le proprie opinioni, maturando i propri gusti personali. E poi, immergendosi nelle profondità del Web, riesce a procurarsi senza troppi problemi della droga e persino un'arma che gli viene recapitata a casa da un corriere un pezzo alla volta.
 Al termine dell'esperimento, O'Hagan fatica addirittura a cancellare le tracce del passaggio di Ronnie Pinn nell'era digitale; qualche frammento dei suoi interventi continuerà a lungo a galleggiare nel mare magnum di Internet. Così, la visita dell'autore, una mattina del dicembre 2014, alla madre del vero Ronnie Pinn, fortunosamente rintracciata dopo mesi di ricerche, appare quasi un risarcimento per l'abuso compiuto, e un omaggio - venato però di ironia - al "vecchio" mondo reale.
 L'ultimo racconto è forse quello più intrigante, e narra il tentativo di dare finalmente un volto e un nome a Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro il quale si nasconde l'inventore di Bitcoin, la tecnologia che sta alla base della più famosa criptovaluta al mondo. 
 Tutto ha inizio nel 2015, quando Craig Wrigth, un brillante e poliedrico informatico australiano, è costretto a una rocambolesca fuga dal suo Paese natale (prima verso la Nuova Zelanda, poi verso Londra) dopo l'irruzione delle autorità fiscali negli uffici di una sua società a Sydney. L'Australian Taxation Office sospetta Wright di aver compiuto imponenti operazioni finanziarie in criptovaluta eludendo la tassazione vigente.
 Alcune riviste specializzate cominciano allora a ventilare l'ipotesi che le transazioni sospette rilevate dalle autorità siano avvenute utilizzando una chiave di accesso alla bolckchain identificabile con la "firma digitale" usata da Satoshi Nakamoto per il primo spostamento di valore in criptovaluta risalente al 3 gennaio del 2009.
 A questo punto intervengono grosse società e facoltosi uomini d'affari che, dando credito all'ipotesi che Craig Wright sia in effetti Satoshi Nakamoto, rilevano tutte le sue società cariche di debiti, riempiono di soldi il programmatore australiano, e si incaricano di gestire e promuovere tutti i brevetti che egli tiene nel cassetto in cambio della pubblica dimostrazione di incarnare il mitico Nakamoto. A raccontare la lucrosa operazione (Matthew e McGregor, i principali investitori, che si propongono di mettere in contatto Wright con colossi come Uber e Google, stimano il valore del giro d'affari che la rivelazione metterebbe in moto in 1 miliardo di dollari...) viene chiamato proprio Andrew O'Hagan.
 O'Hagan comincia dunque a frequentare Wrigth per raccogliere informazioni dettagliate sull'uomo che promette di diventare un mito assoluto dell'era digitale, al pari di Tim Berners-Lee o di Robert Calliau. 
 Craig Wright appare nelle descrizioni dell'autore un personaggio estremamente brillante e pieno di energia: incapace di comunicare - se non attraverso excursus matematici e serie di algoritmi incomprensibili ai più -, pieno di quei complessi che spesso attanagliano i nerds, Wright è però un vulcano di idee e un mostro di cultura, capace di spaziare dall'informatica alla fisica alla filosofia alla storia delle religioni.
 Parlando con lui, confrontando le sue affermazioni con quelle di altri esperti, lo scrittore si convince che Wrigth sia realmente Satoshi, sebbene la sua ricorrente reticenza su talune questioni lo metta talvolta in allarme.
 Del resto, nessuno di coloro che sono intorno a lui sembra nutrire il benché minimo dubbio sul fatto che Craig Wright e Satoshi Nakamoto siano la stessa persona: persino una prima dimostrazione avvenuta in privato sembra andare a buon fine.
 Così, appare semplicemente catastrofico il fallimento da parte di Wright della prova decisiva effettuata davanti ai giornalisti di mezzo mondo: catastrofico per Wright, e catastrofico per chi ha investito su di lui svariati milioni di dollari. 
 Pretendendo di firmare un movimento di criptovaluta con la chiave digitale utilizzata da Satoshi Nakamoto nel 2009, infatti, Craig Wright commette un errore così marchiano da lasciare il sospetto che la sua, più che una truffa, possa essere un consapevole rifiuto di palesarsi per quello che è.
 Forse, l'ossessione per l'anonimato, così radicata nel mondo pseudo-anarchico dei maghi del web, ha fatto premio in lui su qualsiasi altra considerazione; molti indizi suggerirebbero che egli ha fatto realmente parte del gruppo di persone celate dietro il nome di Satoshi Nakamoto; il problema è che per le logiche del Web, un fallimento è definitivo e non si può riscattare: Craig Wright, agli occhi della comunità digitale, è ormai bollato come un impostore, anche se forse non lo è realmente o non lo è fino in fondo (nell'ipotesi che dietro Satoshi non si celi una sola persona ma un complesso di programmatori capaci di collaborare a distanza tra loro).
 Il libro è sicuramente godibile, scritto in uno spigliato stile giornalistico, seppur con qualche impuntatura dovuta all'inevitabile utilizzo, in alcuni passaggi, di qualche tecnicismo del gergo informatico.
 Se un difetto si può trovare, esso sta nel fatto che la scrittura di O'Hagan dia a tratti l'impressione di incorporare quell'aria di presunzione tipica degli hacker e, in generale, dei protagonisti della rivoluzione informatica; ma questo non sporca lo sforzo dell'autore di mettersi al servizio dell'onestà intellettuale per illustrare fedelmente al lettore quanto ha potuto scoprire nel corso della sua affascinante esplorazione del mondo digitale e dei suoi protagonisti.
 Bruttino e poco significativo, devo dire, soltanto il titolo.

Voto: 6,5

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