domenica 9 dicembre 2018

Sandra Petrignani, "La scrittrice abita qui", Neri Pozza


 Mi sono imbattuto di recente in questo libro e, anche se è stato pubblicato per la prima volta ormai una quindicina di anni fa, ho deciso di parlarne qui oggi: in fondo i buoni libri non hanno una data di scadenza, e poi, in questo caso, il testo è ancora tranquillamente reperibile sul mercato.
 L'idea da cui parte Sandra Petrignani è semplice e originale: l'autrice visita le abitazioni di sei scrittrici fra le più grandi del Novecento, sulla base della convinzione che una casa conservi sempre in qualche modo l'impronta di chi l'ha abitata e ci racconti qualcosa di molto intimo e di estremamente autentico sul suo modo di essere; e da qui parte per esplorare quelli che ritiene gli aspetti più significativi delle biografie di questi personaggi, lasciandoci intuire, così facendo, anche qualcosa di se stessa.
 Le sei scrittrici prese in considerazione sono, nell'ordine: Grazia Deledda, di cui viene visitata la casa natale di Nuoro, ma della quale vengono ricordate anche le abitazioni romane, e la casa per le vacanze che acquistò a Cervia; Marguerite Yourcenar, per la quale si parte dalla bianca magione di Petite Plaisance, la casa a Monts-Desérts - nel Maine, quasi al confine col Canada - che l'autrice di Memorie di Adriano divise prima con Grace Frick, la compagna di una vita, poi con Jerry Wilson, l'amore dell'estrema vecchiaia; Colette, della quale si visita il paese natale in Borgogna, Saint-Sauveur-en-Puisaye, dove è stata ricostruita la famosa camera da letto completamente rossa, tanto somigliante alla stanza di un bordello, in cui la scrittrice passò, a Palais-Royal, gli ultimi anni di vita, immobilizzata dall'artrite; Alexandra David-Néel, la cui casa-museo a Digne les Baines è quanto mai rappresentativa della capacità di questa donna, definita da alcuni "la più grande esploratrice del Novecento", morta a 101 anni e lucidissima fino alla fine, di fondere lo spirito dell'Oriente e quello dell'Occidente, riproducendo in Francia uno stile di vita tibetano; Karen Blixen, che imparò ad amare la sua grande tenuta a Rungsted, non lontano da Copenaghen, solo nella fase finale della propria esistenza, senza peraltro smettere mai di rimpiangere la mitica fattoria descritta ne La mia Africa, che ella possedette fra gli anni dieci e gli anni venti del Novecento in Kenya, ai piedi delle colline Ngong; infine Virginia Woolf della quale si esplorano la dimora di Charleston, nel Sussex, sede del celebre Bloomsbury Group, e la poco lontana Monk's House, nella quale Virginia passò con il marito Leonard l'ultima parte della sua vita. 
 Fra l'altro, significativamente, il capitolo dedicato a Virginia Woolf viene lasciato per ultimo, nonostante la Petrignani confessi di avere avuto l'intuizione che sta alla base di questo libro proprio a Charleston, nell'edificio che conserva l'impronta non solo di Virginia, ma anche e forse soprattutto della sorella Vanessa Bell - che ne fece una sorta di tempio volto alla celebrazione del suo amore impossibile per l'omosessuale Duncan Grant -, mentre a Monk's House le tracce di Virginia convivono con quelle della sua storica, aristocratica amante, l'affascinante Vita Sackville-West.
 Il modo di procedere di Sandra Petrignani è turistico nell'accezione più nobile del termine: un colto vagabondaggio nella vita delle scrittrici rievocate che, quasi casualmente, senza seguire un piano sistematico di analisi e di restituzione documentaria, consente di toccare tutto ciò che di importante si può dire su queste donne: il loro percorso di formazione, il loro rapporto con l'amore e il sesso, con gli uomini e con le donne, i sogni che coltivarono, lo stile di vita che fecero proprio, la nascita e lo sviluppo della vocazione per l'arte che le rese famose, l'atteggiamento con cui affrontarono la vecchiaia e la morte.
 A volte sembra quasi che Petrignani si comporti con le biografie delle sei scrittrice come una bambina che insistentemente accarezza una coperta di velluto per spiarne con la massima attenzione i disegni che si formano sulla sua superficie, per goderne e per trarne divinazioni e per costruire su di essi vaghe fantasie. Nascono così i passi più belli di questo libro, come quando si ricordano i biglietti d'auguri dolci e infantili scritti per san Valentino da Marguerite Yourcenar a Grace Frick, così in contrasto con l'immagine di monumentale grandezza e di olimpico controllo delle proprie emozioni che la scrittrice amava dare di sé, tanto da permettere di aprire una riflessione sull'inafferabilità del suo temperamento. O come quando si racconta l'insistenza della giovane Colette sulla propria predilezione per la lettura e sull'assenza in lei del bisogno di scrivere, inclinazioni tanto esibite da far sospettare un "desiderio gigante" di diventare scrittrice; un desiderio che affondava le radici nell'orrore in lei suscitato dalla scoperta dell'impotenza nei confronti della scrittura del padre, un capitano dell'esercito con una gamba sola che, per tutta la vita, progettò la pubblicazione delle proprie memorie in una serie di colossali volumi (per i quali scelse la carta, che rilegò e confezionò, mettendo un titolo a ciascuno di essi), senza essere in grado in realtà di scriverne una sola pagina. O ancora, come quando si rievoca l'accostamento operato da Karen Blixen fra la bellezza di una giovane leoncina ricevuta in regalo dai suoi servitori in Kenya e la freschezza e l'innocenza di Marilyn Monroe, conosciuta nel 1959 durante un trionfale giro di conferenze tenuto dalla scrittrice danese negli Stati Uniti.

Sandra Petrignani in una foto di alcuni anni fa

 Nonostante la grande quantità di informazioni riportate, questo approccio parzialmente rabdomantico e aneddotico rende la lettura di questo testo sempre piacevole e particolarmente lieve, e in più consente al lettore di farsi un'idea piuttosto precisa, sintetizzabile in pochi tratti emblematici del carattere essenziale delle sei scrittrici. 
 Così, di Grazia Deledda si ricorda la grande tenacia, che le consentì di abbandonare la Barbagia - il "cuore di tenebra della Sardegna" - di trasferirsi sul continente e di diventare scrittrice, arrampicandosi fino al premio Nobel nonostante non avesse avuto la possibilità di studiare oltre la quarta elementare; senza peraltro che per questo possa essere confinata entro la riduttiva categoria del verismo naif, etichetta che alcuni critici poco accorti cercarono di affibbiarle (per me la Deledda non è ascrivibile al verismo o al decadentismo, come la maggior parte dei critici italiani vorrebbero, e neppure al romanticismo gotico come ritiene dovrebbe essere la scrittrice sarda Michela Murgia; piuttosto è un esempio unico di declinazione italiana del simbolismo, privo di tutte le banalità di un Gabriele d'Annunzio).
 Di Marguerite Yourcenar viene sottolineata la vitale voracità (che si esprimeva nel suo desiderio di sedurre uomini e donne) associata all'assoluto autocontrollo che seppe esercitare su di sé nella letteratura come nella vita (dopo gli anni giovanili, eroticamente disordinati, convisse per decenni con Grace Frick praticamente more uxorio).
 Colette viene identificata con l'istinto trasgressivo associato al legame profondo con certi elementi della cultura francese (memorabile il giudizio che di lei diede proprio Marguerite Yourcenar, che vi vedeva l'emblema "della ricca e grassa Borgogna", della "parte portinaia e cartomante" così caratteristica di una certa Francia fra il 1900 e il 1946, dotata di un suo specifico codice di comportamento, in cui ciò che era conveniente e ciò che era sconveniente veniva stabilito sulla base di logiche non meno complicate di quelle che regolavano i rapporti tra le persone nella vecchia Cina).
 Alexandra David-Néel resta memorabile per la sua capacità di dare vita a una versione tipicamente occidentale del buddismo tibetano (considerava il sesso una perdita di tempo, ma rimase sposata tutta la vita con il marito, che non ne condivideva né la visione del mondo né la frugalità dello stile di vita, ma che ne rispettò sempre le scelte; persino quella di vivere lontana da lui, e di amarlo soltanto attraverso una assidua, tenera corrispondenza epistolare), per la sua inesauribile operosità, per il mite rigore con cui restò fedele a se stessa per tutto l'arco della sua lunghissima esistenza. 
 Di Karen Blixen non si può dimenticare il desiderio di riprodurre uno stile di vita aristocratico-feudale, che riuscì a incarnare nel corso della sua esperienza africana e che poi rimpianse per tutta la vita; l'attrazione che sempre nutrì per gli uomini di bell'aspetto capaci di dare vita al modello del maschio distinto e virile; l'amore viscerale per gli animali; la capacità di raggiungere vette stilistiche mirabili, nonostante avesse esordito nella scrittura solo a 49 anni di età, e quella di rappresentare in modo scintillante, al pari di Samuel Beckett, l'icona dello scrittore da vecchio.
 Infine, il contributo di questo libro a una miglior conoscenza della pur studiatissima Virginia Woolf consiste nella capacità di definirne i tratti caratteriali comparativamente, accostandola alla sorella Vanessa Bell - più estroversa ed eroticamente molto più sicura di lei - e dell'amica Vita Sackville-West, la cui fisicità e il cui fascino cozzavano con l'astratto intellettualismo della Woolf, che visse sempre di voli letterari, e forse fu indotta al suicidio proprio dal fatto che la vecchiaia e la guerra la costrinsero tirannicamente a fare i conti con i limiti della propria mai accettata corporeità.
 Concludo scegliendo, fra tutte le personalità letterarie presentate - anche per come sono presentate -, la mia preferita. Non ho dubbi in proposito: si tratta di Marguerite Yourcenar. 

 Voto: 7,5    

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