domenica 10 febbraio 2019

Massimo Franco, "C'era una volta Andreotti", Solferino


 Versione ampliata e corretta della biografia di Giulio Andreotti di Massimo Franco, preparata per il centenario della nascita del celebre politico democristiano, questo ponderoso libro appare sotto diversi aspetti sostanzialmente contraddittorio: da una parte, infatti, dichiara che la figura di Andreotti appartiene irrevocabilmente al passato, dall'altra sembra quasi trattarne l'eredità politica come qualcosa di vivo, capace ancora oggi di dividere in maniera netta i suoi detrattori e i suoi estimatori; da un lato, riconosce che il suo operato è avvolto da ombre che nessuno è riuscito a dissipare - e che il giudizio umano e politico sul suo personaggio è gravato da pesanti sospetti e irriducibili ambiguità -, dall'altro finisce per tracciarne un ritratto per molti versi quasi agiografico.
 La parte più affascinante e meglio scritta del testo è sicuramente quella iniziale, che ricostruisce l'infanzia e la giovinezza di Andreotti: nato a Roma nel 1919 in una famiglia di estrazione piccolo-borghese originaria di Segni, in Ciociaria, Giulio Andreotti perse il padre quando aveva soltanto tre anni, e fu cresciuto dalla madre, amatissima ma assai poco espansiva con i figli: la leggenda vuole che il futuro Presidente del Consiglio non abbia mai ricevuto un bacio da lei.
 Fin da bambino si trovò a suo agio a contatto con gli ambienti ecclesiastici: non solo accolse con straordinaria docilità l'educazione cattolica che gli fu impartita, ma trasformò in tutto e per tutto il mondo cattolico nel suo mondo, tanto più che parecchi dei suoi migliori amici e compagni di giochi erano giovani seminaristi (fra di loro alcuni futuri cardinali), e la frequentatissima parrocchia di Segni divenne per lui come una seconda casa. A scuola era tranquillo, diligente, ma non particolarmente brillante; palesò però un precoce, notevole talento organizzativo, che gli valse l'incarico di stabilire i turni dei chierichetti destinati a servire messa lungo tutto l'arco della settimana. Egli stesso fu tentato di farsi prete; vi rinunciò perché, come ebbe modo di ripetere più volte, non lo entusiasmava la prospettiva del celibato.
 Non fu mai uno sportivo, ma da ragazzino maturò una passione per la squadra di calcio della Roma che lo accompagnò tutta la vita, così come la prossimità al Vaticano, che cominciò a frequentare prestissimo: pare che a otto anni riuscisse a infiltrarsi a una udienza concessa da Pio XI a un gruppo dell'Azione Cattolica belga; fu smascherato, perché il papa, accortosi di quel bimbetto tra tanti adulti, gli si rivolse in francese, e lui, che ancora non conosceva la lingua, non seppe rispondere.
 La contiguità con gli ambienti cattolici lo preservò dalla nefasta influenza del fascismo, pur non facendo di lui propriamente un antifascista. D'altra parte, con l'ingresso negli anni dell'adolescenza, il fatto di frequentare il liceo Tasso, lo stesso dei figli del duce, gli regalò paradossalmente una libertà altrove impensabile; italianamente, Mussolini, forse per imbarazzo verso chi aveva la responsabilità della formazione dei propri rampolli, chiudeva un occhio nei confronti delle opinioni manifestate da insegnanti dell'istituto culturalmente "non allineati" al regime. E' noto come della stessa apertura culturale godettero altri studenti del Tasso di allora: Alfredo Reichlin, Luigi Pintor e Luciana Castellina, futuri esponenti del Pci, Vittorio Gassman con la sorella Mary (per la quale pare che il giovane Giulio avesse un debole), Maria Crocco, figlia di un grande imprenditore e futura moglie di Raimondo Manzini, storico direttore dell'Osservatore Romano, Giorgio Ceccherini, che di Andreotti fu per decenni il braccio destro.
 Altri, però, furono gli incontri decisivi per la carriera politica di Andreotti, ed ebbero luogo tra la fine degli anni trenta e l'inizio degli anni quaranta, dopo l'iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza all'Università La Sapienza a Roma e dopo l'ingresso di Giulio nella Fuci, la federazione degli universitari cattolici: primi fra tutti quello con Alcide De Gasperi, severo direttore della Biblioteca Vaticana, e quello con monsignor Giovan Battista Montini, il futuro papa Paolo VI.
 Andreotti entrò presto nella redazione della pubblicazione quindicinale della Fuci, Azione Fucina, divenne il principale collaboratore del direttore del giornale Aldo Moro - lui sì studente brillantissimo -, e lo sostituì quando quest'ultimo, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, venne richiamato alle armi (mentre Giulio, riformato alla visita di leva per insufficienza toracica, evitò la coscrizione).
 Il nuovo incarico gli consentì di entrare in familiarità con papa Pio XII, verso il quale Andreotti mostrò sempre una profonda ammirazione. Non tutti lo apprezzavano come direttore di Azione Fucina: molti ricordarono in seguito i feroci contrasti che ebbe in quel periodo con Eleonora Chiavarelli, a sua volta redattrice del quindicinale e futura moglie di Aldo Moro. 
 Nonostante questo le sue innate doti di mediatore gli consentirono di porsi come tramite tra la posizione rigidamente anticomunista del papa e le istanze dei rappresentanti dell'ala sinistra della Fuci; salvo poi, al termine della guerra, abbandonare questi ultimi al proprio destino per farsi interprete del fondamentale conservatorismo del Vaticano. A questo punto la carriera di Andreotti - che nel frattempo era convolato a nozze con Livia Danese, la donna che gli darà quattro figli - era pronta a decollare davvero.
 Quando furono indette le prime libere elezioni, i buoni uffici dei tanti prelati con i quali aveva stretto amicizia e l'antico radicamento in Ciociaria gli consentirono di trasformare questa regione in un serbatoio di voti, un vero e proprio feudo elettorale che Andreotti coltivò nei decenni successivi ricorrendo metodi apertamente clientelari (su piccola come su larga scala: i benefici che distribuiva andavano dal sostegno alimentare a famiglie indigenti alla valorizzazione degli immobili dei più grandi proprietari terrieri della Regione), e che gli rimase fedele fino ai primi anni novanta (quando il Presidente della Repubblica Cossiga lo nominò Senatore a vita).  

Massimo Franco

 Diventato Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi lo scelse come suo sottosegretario. Fu in questo periodo, tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta che nacque il mito dell'uomo politico perfettamente introdotto nelle più segrete stanze sia dello Stato italiano sia della Curia pontificia, e dunque custode geloso dei misteri delle une e delle altre; dell'abile diplomatico capace di servirsi alla perfezione delle proprie rendite di posizione per ottenere sempre ciò che voleva.
 Ogni mattina, De Gasperi e Andreotti, alle 7, prima di cominciare il lavoro, erano soliti assistere insieme alla celebrazione della messa; fu questa consuetudine a suggerire a Montanelli la fulminante battuta secondo la quale, "la gente, vedendo De Gasperi e Andreotti entrare in chiesa, pensa che facciano la stessa cosa: in realtà De Gasperi va a parlare con Dio, Andreotti con il prete".
 In questa fase, ad Andreotti fu affidato anche l'incarico di rilanciare il cinema italiano e, nel contempo, di vigilare sulla "moralità" delle pellicole che venivano prodotte: attività che gli valsero in egual misura critiche e benemerenze.
 Dopo il tramonto dell'astro di De Gasperi e la morte dello statista trentino, la stella di Andreotti come è noto non cessò di brillare: ormai uomo simbolo della destra democristiana, titolare di una corrente interna al partito piccola ma assai vivace, la sua duttilità gli consentì di attraversare tutte le diverse stagioni della Prima Repubblica riservandosi quasi sempre un ruolo di primo o di primissimo piano.
 La lunga carrellata - di carattere per lo più puramente compilativo - sulla sua interminabile carriera occupa tutta la seconda parte del libro. Andreotti visse più o meno da protagonista gli anni del centrosinistra, quelli della contestazione, gli anni della crisi energetica e gli anni di piombo, gli anni del compromesso storico e dell'omicidio Moro e gli anni del craxismo. Fu di volta in volta considerato troppo vicino agli americani, in combutta con i comunisti, troppo legato ai paesi arabi affacciati sul Mediterraneo. La corte di collaboratori e uomini di fiducia pittoreschi e spesso discutibili di cui si circondò (da Franco Evangelisti a Vittorio Sbardella, da Salvo Lima a Paolo Cirino Pomicino) fu in grado di salvaguardarne l'autorità; la sua ironia, il suo talento da battutista, il cinismo e la sapienza con cui seppe coltivare le proprie clientele ne salvaguardarono la popolarità. 
 L'immarcescibile abitudine all'esercizio del potere unita alla singolarità del suo aspetto fisico e alla capacità di uscire indenne dagli scandali che a più riprese lo sfiorarono senza scalfirne la posizione (da quello legato alla Loggia massonica P2 a quelli legati alle attività finanziarie di Michele Sindona e al crack del Banco Ambrosiano) lo circondarono di un'aurea sulfurea, che parve trovare conferma nelle accuse di prossimità alla mafia che gli piombarono addosso a partire dal 1993, dopo il crollo del sistema partitico sul quale si reggeva la Prima Repubblica, l'uccisione del suo luogotenente a Palermo Salvo Lima, gli attentati in cui trovarono la morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 
 Tutta la parte finale del libro è dedicata proprio ai processi per mafia a carico di Andreotti, al ruolo che vi ebbe la sua avvocatessa Giulia Bongiorno, alle assoluzioni arrivate sulla scorta di motivazioni tanto ambigue da non riuscire a rimuovere mai veramente i dubbi su una sua eventuale colpevolezza, agli anni della sopraggiunta vecchiezza e del definitivo declino del Senatore a vita.
 E' questa la sezione più noiosa e ripetitiva della biografia di Massimo Franco, quella che si sostanzia in un corposo e incomprensibile panegirico di Giulia Bongiorno, e in una descrizione del profilo di Andreotti senescente davvero molto indulgente, e comunque tale da denunciare una vicinanza dell'autore al protagonista del suo libro, ai suoi familiari e ai suoi amici che pare compromettere in parte l'oggettività della sua ricerca.
 Difficile per tutti è formulare un giudizio circostanziato su una figura così sfaccettata e su una carriere politica così lunga e piena di elementi di segno addirittura opposto; chi si occupa della loro ricostruzione, però, dovrebbe almeno provarci. 
 La mia impressione è che l'importanza di Andreotti, così come le sue responsabilità siano state spesso ampiamente sopravvalutate. Mi spiego: personalmente ritengo che Andreotti meriti di essere studiato per il ruolo che ha avuto in tanti fondamentali momenti di passaggio della storia dell'Italia repubblicana nei suoi primi cinquant'anni di vita; ma nello stesso tempo penso che le sue qualità - in positivo come in negativo - vadano ridimensionate, perché la tendenza dei cronisti è sempre stata quella di ingigantirle oltremisura. In fondo, la sua principale preoccupazione fu sempre quella di sopravvivere politicamente e di perpetuare la sua permanenza laddove si esercitava il potere: un duttile opportunismo fu l'unica costante del suo modus operandi e il vero asse portante di tutta la sua avventura nella politica italiana. 
 Sulla base di quello che di Andreotti si conosce, è probabilmente lecito ipotizzare anche che ricorresse con una certa disinvoltura ai più esecrabili compromessi pur di ottenere e conservare il consenso, perfino nella Sicilia controllata dalle cosche mafiose, naturalmente. Pure, non è possibile affermarlo con assoluta certezza.
 Diciamo che Giulio Andreotti operò in un'Italia multiforme e corrotta, e a quest'Italia seppe adattarsi alla perfezione, senza preoccuparsi troppo di come cambiarla: questa per me è la sua più grande colpa.
 Ma dal compito di vagliare e approfondire simili doverose considerazioni, Massimo Franco, con tutta la messe imponente di informazioni che fornisce, si tiene prudentemente lontano. 

Voto: 5,5       

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