domenica 17 febbraio 2019

Milan Kundera, "L'insostenibile leggerezza dell'essere", Adelphi


 Quando per la prima volta lessi L'insostenibile leggerezza dell'essere, ai tempi del liceo, il libro andava molto di moda; lo presi allora come una sorta di manuale di libertinaggio sullo sfondo della Primavera di Praga.
 Naturalmente non avevo capito nulla di questo romanzo complesso, potente, disarmonico, persino brutto in alcuni suoi passaggi, ma con una capacità di trasfigurazione del reale che poche opere narrative possiedono.
 E' come se il testo avesse due facce, apparentemente inconciliabili tra loro: da una parte sembra un trattato filosofico di natura erotica e politica, in cui lo sviluppo narrativo ha lo scopo di esemplificare le tesi che l'autore vuole sostenere; dall'altro lato, si presenta come una sorta di Cantico delle creature di matrice acattolica.
 Molti sono i personaggi che entrano in scena e agiscono lungo tutto l'arco del racconto - che abbraccia il periodo che va approssimativamente dagli anni precedenti la Primavera di Praga e l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche fino alla fine degli anni settanta -, ma solo quattro sono i protagonisti principali, la cui parabola esistenziale assume un valore paradigmatico: Tomàs, Tereza, Sabina e Franz. 
 Tomàs è un chirurgo di grande valore che lavora in uno dei principali ospedali di Praga. In passato, è stato sposato con una donna, una comunista ortodossa, che però ha abbandonato insieme al figlio avuto da lei (pur continuando a sostenerli economicamente), e per questo è stato ripudiato dai suoi stessi genitori. La sua curiosità nei confronti del prossimo e della sua specifica, originale individualità lo porta da allora a passare da un'amante all'altra senza legarsi sentimentalmente a nessuna: infatti, si regola in maniera tale da incontrare le amanti fisse solo a intervalli di tempo non inferiori alle tre settimane, e da lasciare quelle avventizie dopo tre convegni ravvicinati al massimo.
 L'abitudine di frequentare molte donne diverse resta a Tomàs anche dopo l'incontro con Tereza, una giovane cameriera in cui si imbatte, per via di una serie di circostanze fortuite, in una cittadina di provincia, di cui si innamora, e che sposa, dopo il trasferimento della ragazza a Praga. 
 Nella capitale, la giovane comincia a lavorare come fotografa presso uno studio di arti visive grazie all'aiuto di Sabina, pittrice di discreta fama, grande amica e storica amante di Tomàs. Sembrano esserci tutti i presupposti per una vita di coppia felice per Tomàs e Tereza: il nuovo lavoro piace alla ragazza, che ama profondamente Tomàs e sente che lui la ricambia con lo stesso sentimento. 
 Quando però scopre il legame del marito con Sabina, e poi con tutte le altre donne che frequenta, Tereza non può fare a meno di cadere preda di una angosciosa gelosia. A nulla vale la consapevolezza della diversità fra il trasporto che Tomàs sente per lei e l'impulso che lo spinge a cercare altre donne: le infedeltà di Tomàs danno a Tereza l'impressione di essere tradita dal proprio stesso corpo, con cui ha sempre avuto un rapporto difficile, dovuto agli antichi traumi in lei lasciati dalla grossolanità e dall'impudicizia con cui sua madre viveva la propria fisicità, e le rinfacciava la sua timidezza.
 Così, nel momento in cui carri armati sovietici invadono le strade del Paese per porre fine all'esperimento del "Socialismo dal volto umano" avviato da Alexander Dubcek, e per stroncare la cosiddetta Primavera di Praga, dopo i primi giorni di pacifica e orgogliosa resistenza alla logica brutale dell'occupazione (giorni in cui Tereza gira per le strade fotografando i soprusi dei militari russi e le ragazze boeme che provocano beffardamente con la loro sessualità prorompente i soldati delle truppe occupanti), è anche per spezzare la catena delle infedeltà conclamate del marito e della propria soffocante gelosia che la donna spinge Tomàs ad accettare la proposta di lavoro del primario di chirurgia di una importante clinica di Zurigo, e a trasferirsi in Svizzera.

Milan Kundera

 Il fatto è che Tomàs "si porta dietro le sue abitudini come la lumaca porta con sé il guscio": in Svizzera l'uomo continuerà ad avere delle amanti, e riuscirà persino a rivedere Sabina - a sua volta fuggita dalla Cecoslovacchia e trasferitasi a Ginevra -, riprovando con lei il gusto eccitante della trasgressione. Solo che quando Tereza, di nuovo in preda ai propri fantasmi, fuggirà sconvolta da Zurigo per tornare a Praga, Tomàs lascerà ogni cosa per seguirla; e i due si troveranno a quel punto prigionieri di un Paese le cui frontiere sono ormai chiuse per chiunque voglia uscirvi, e su cui è calata la cappa di piombo della repressione.
 Messo nel mirino dalla polizia segreta per via di un articolo, pubblicato su una rivista letteraria nei giorni euforici del 1968, in cui, partendo dal mito di Edipo (accecatosi per la propria colpa nonostante l'avesse commessa inconsapevolmente) stigmatizzava le responsabilità dei comunisti ortodossi boemi, Tomàs subisce il destino toccato a tanti intellettuali "declassati": non avendo accettato di "abiurare" e di umiliarsi pubblicamente cedendo al ricatto del regime, viene costretto a lasciare prima il suo ospedale a Praga, poi l'attività al tavolo operatorio, infine la stessa pratica medica. 
 Riciclatosi come lavavetri, non dovrà per questo rinunciare alla sua carriera di seduttore; anzi, la grande quantità di tempo libero a sua disposizione e la benevolenza mostrata nei suoi confronti da tutti coloro che hanno udito la sua storia gli consentiranno di "agganciare" un numero di donne superiore a quello avuto in qualsiasi altro periodo della sua vita. 
 Solo la persistente angoscia di Tereza, che su di lui comincia a sentire ogni notte l'odore del sesso delle donne che frequenta, e la decisione di volersi liberare da tutti i doveri che gravano sulla sua coscienza (fra i quali l'impulso a conoscere nuove donne, trasformatosi ormai in una sorta di coazione a ripetere, un incombente es muss sein) indurranno Tomàs a trasferirsi con la moglie in campagna, lontano da tutto, e a trovare qui una quiete perfetta e una felicità autentica; prima di morire sfracellato cadendo in un burrone con il camion con cui lavora.
 La notizia della morte di Tomàs - per mezzo di suo figlio Simon, ritrovato dall'uomo negli ultimi anni di vita - raggiungerà anche Sabina che, come ha sempre fatto, continuerà per tutta il resto della propria esistenza a passare da un tradimento all'altro, perpetuando la catena che l'aveva portata ad allontanarsi dal padre, dall'ortodossia comunista, dai dettami artistici del realismo socialista, dal primo marito, dalla Boemia: il tutto in nome dell'odio viscerale per il Kitsch, l'edulcorazione banalizzante della realtà propria di ogni principio che si pretende assoluto. 
 La saldatura psicologica tra vocazione al tradimento e rifiuto del Kitsch porterà Sabina ad allontanarsi anche da Franz, il docente universitario (sposato con una gallerista presso la quale la pittrice aveva esposto i suoi quadri) che si è innamorato di lei, e che ella a sua volta ricambia. Abbandonerà così Ginevra per trasferirsi a Parigi, e poi ancora più lontano, negli Stati Uniti, per lasciarsi ogni cosa alle spalle, per far dimenticare a tutti persino la sua origine boema.
 Franz, da parte sua, non si libererà mai del pensiero di Sabina; anzi, fedele alla sua tempra di sognatore, sarà proprio pensando a lei, e cercando di essere degno del suo sguardo, che si farà uccidere da un gruppo di delinquenti comuni decisi a rapinarlo in Cambogia, dove si era recato per partecipare a una manifestazione di intellettuali progressisti a sostegno della popolazione fiaccata da anni di guerra. 
 L'impalcatura teoretica sulla quale cresce questa trama piuttosto articolata, sebbene non perfettamente simmetrica e non del tutto coerente, si basa su alcuni capisaldi che derivano dalla filosofia nietzschiana (l'idea dell'eterno ritorno), dal concetto di ascendenza romantica di Destino (l'es muss sein che si fa derivare dal motivo di un Quartetto per archi di Beethoven), dal mito veterotestamentario della cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre, dal concetto secondo il quale tutte le ideologie politiche novecentesche si potrebbero ricondurre all'ideale estetico del Kitsch.
 Secondo Kundera, nella vita umana conviverebbero l'attrazione verso la "pesantezza" (collegata a ciò che si ritiene possa ripetersi e persistere) e quella verso la "leggerezza" (collegata a ciò che brilla una sola volta e poi scompare senza lasciare traccia); ma solo a quest'ultima sarebbe assimilabile verosimilmente la traiettoria che caratterizza l'esistenza di ogni uomo, pur resistendo in lui la vocazione verso qualcosa di più solido e duraturo. Una vocazione che talvolta si traduce in un anelito di regressione verso la circolarità del tempo tipico dell'esistenza degli animali (che dal paradiso terrestre non sono mai stati cacciati), talaltra porta a vagheggiare l'assolutizzazione di ideali quali l'Amore o il Progressismo ("La Grande marcia in avanti"), sfortunatamente destinati a degenerare sempre nell'orrore del Kitsch.
 Molte delle conclusioni a cui approda Kundera paiono francamente discutibili, e molti passaggi del suo libro sembrano esprimere una qualità letteraria non eccelsa; eppure questa è un'opera con la quale bene o male occorre confrontarsi, magari per attraversarla e approdare ad altri lidi. Per questo, L'insostenibile leggerezza dell'essere a mio parere rappresenta indiscutibilmente una pietra miliare della cultura europea dell'ultimo terzo del secolo scorso.  

Voto: 9         

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