martedì 29 dicembre 2015

Dag Solstad, "La notte del professor Andersen", Iperborea


 Oslo, seconda metà degli anni novanta: è la notte di Natale, e Pål Andersen – 55 anni, divorziato senza figli, grande esperto di Ibsen, stimato professore di letteratura presso la locale Università – sta festeggiando la tradizionale ricorrenza in casa sua. È solo, ma non è affatto triste; anzi, si è preparato una cena gustosa, ha indossato un abito elegante e ora si sente perfettamente in armonia col mondo.
 Quando però si affaccia alla finestra con l’intenzione di contemplare la felicità degli altri attraverso le finestre illuminate degli edifici sull’altro lato della strada, un fatto inatteso interviene a spezzare quell’armonia: il professor Andersen assiste all’assassinio di una giovane donna bionda da parte dell’uomo che è con lei all’interno di uno degli appartamenti dirimpetto.
 D’impulso il professor Andersen si getta sul telefono per chiamare la polizia, ma una forza misteriosa lo trattiene; non denuncerà il delitto né quella sera né il giorno successivo.
 Con il passare dei giorni e poi delle settimane e dei mesi, il pensiero dell’omicidio di cui è stato testimone e che è rimasto impunito diventa un’ossessione per il protagonista del libro, senza tuttavia che egli riesca a parlarne né con gli amici che conta nella capitale, né con il collega che raggiunge in aereo a Trondheim con l’intenzione di confidarsi con lui.
 Le scuse dietro le quali il professor Andersen si trincera per giustificare la propria inerzia e il proprio silenzio sono le più disparate: si dice che il criminale non sfuggirà comunque alla giustizia, perché nel momento in cui si noterà la scomparsa della giovane donna, le attenzioni degli inquirenti non potranno che appuntarsi sull’uomo che era con lei; che forse la donna non è morta; che il delitto potrebbe essere esclusivamente frutto della sua immaginazione; si racconta persino che è legittimo, talvolta, esitare ad assumere la responsabilità della condanna senza appello di un uomo che non si conosce…

Dag Solstad

 E tuttavia, nel momento in cui, in un ristorante giapponese non lontano da casa sua, si trova faccia a faccia con l’assassino, lo riconosce, addirittura si vede costretto a intavolare una generica conversazione con lui, Pål Andersen deve ammettere a se stesso quanto siano inconsistenti le sue giustificazioni, e provare a dare una spiegazione autentica al proprio comportamento.
 Alla fine è costretto a dichiarare quanto, in fondo, dentro di sé, già sapeva: la sua decisione è stata frutto di una sorta di perfetto delirio di onnipotenza, del brivido voluttuoso che trasmette la possibilità di schioccare semplicemente le dita e di decidere così – magnanimamente − della sorte di un uomo, della vertigine solipsistica di sostituire le proprie leggi a quelle dettate dalle buone norme della convivenza civile, dalla morale corrente o dal timor di Dio.
 Il professor Andersen è arrivato a non credere più nell’uomo; la migliore premessa perché all’uomo assolutamente tutto sia consentito.
 Quello che, da principio, sembra un giallo, si trasforma presto in un romanzo esistenziale-filosofico in cui uno dei migliori scrittori norvegesi contemporanei gioca a sovrapporre alla realtà effettuale l’universo mentale del protagonista.
 La lettura è gradevole e l'effetto finale è sicuramente disturbante, ma forse non sufficientemente straniante - a tutti i livelli - perché si possa parlare di un grande libro.

Voto: 6

giovedì 24 dicembre 2015

Emmanuel Carrère, "Il Regno", Adelphi


 Uno dei libri migliori che io abbia letto nel 2015.
 Emmanuel Carrère ricostruisce la storia delle origini del cristianesimo: lo fa da non credente – o meglio, da ex credente –, sulla scorta del suo stile particolare e inconfondibile, con quella tendenza ad addomesticare il sublime che è il suo maggior pregio e, forse, anche il suo limite più evidente.
 La base del suo lavoro è costituita da anni di rigorose ricerche sui testi sacri e sui documenti, ma il suo approccio è quello del romanziere, che applica il criterio della verosimiglianza per immaginare (e aiutare il lettore a immaginare) quello che non può essere accertato senza ombra di dubbio. Si sviluppa così un tentativo appassionante, tutto giocato sulla fantasia e sulla sensibilità filologica e psicologica dell’autore, di narrare con occhi nuovi una vicenda iniziata in un angolo oscuro dell’impero romano duemila anni fa, che tutti credono di conoscere abbastanza bene ma della quale possediamo in realtà solo pochi dati oggettivamente verificabili, sui quali si sono peraltro depositate le incrostazioni culturali di secoli di congetture, interpretazioni interessate, false credenze, miti popolari.
 Ne risulta un discorso brillante, idiosincratico, non prettamente scientifico, decisamente laico ma per nulla pervaso da un anticlericalismo di maniera; insomma, sempre molto originale.
 L’attenzione di Carrère non si concentra tanto sulla storia di Gesù (colui che in vita voleva essere re degli ebrei, e una volta morto finì per essere re di tutti tranne che degli ebrei), quanto su quella degli apostoli che furono protagonisti della diffusione in tutto il mondo antico del credo della loro piccola setta, di cui sarebbe stato facile pronosticare l’estinzione.
 Il merito principale dell’espansione della nuova fede al di fuori del territorio angusto della Palestina fu senz’altro di Paolo di Tarso, cittadino romano di origine ebraica che pose i presupposti in virtù dei quali il culto di Cristo poté diventare una religione diversa dall’ebraismo, e il cui ruolo nel processo di definizione e affermazione del cristianesimo fu storicamente più decisivo di quello di Gesù stesso (da lui mai incontrato). Per quanto se ne sa, Paolo era brutto, scontroso, collerico, e pessimi erano i suoi rapporti con la comunità dei cristiani di Gerusalemme, fondata sull’autorità dell’apostolo Pietro e di Giacomo, fratello di sangue di Cristo. Era però un uomo pervaso da un’energia impareggiabile, dotato di una retorica martellante e di una incrollabile forza d’animo, che facevano sì che le sue prese di posizione e la sua predicazione sfiorassero spesso il fanatismo. Di Paolo fu l’intuizione di puntare sulla potenza che era intrinseca all’idea (non scontata) della resurrezione; sua fu l’iniziativa di diffondere la “buona novella” fra i gentili e anche quella di ritualizzare l’abitudine dell’agape, il banchetto eucaristico da tenersi nel giorno successivo al sabato ebraico.
 Fra gli accoliti di Paolo ci fu anche Luca, che è il vero protagonista di questo libro. Luca – un uomo colto e curioso originario della Macedonia, un intellettuale che esercitava la professione di medico itinerante –, infatti, non solo fu l’autore del più bistrattato dei quattro Vangeli (perché viene considerato quello con meno “carattere”), che invece Carrère rivaluta enormemente; a lui lo scrittore francese attribuisce, sulla base di analisi stilistiche e dell’individuazione di assonanze di tono e di contenuto fra diversi passi di differenti libri del Nuovo Testamento, anche gli Atti degli Apostoli e la Lettera di Giacomo; a lui riconosce soprattutto la capacità di fare da ponte fra il cristianesimo “palestinese”, filoebraico, e quello “greco”, svincolato dalle antiche tradizioni giudaiche.
 Luca, con cui Carrère intuisce una profonda affinità caratteriale (che contempla anche una comune tendenza alla mediazione e al compromesso, e un istintivo rifiuto delle posizioni intransigenti del tutto estraneo sia all’insegnamento di Paolo sia all’atteggiamento di personaggi di primo piano del cristianesimo delle origini come Giacomo o Giovanni) e che considera una sorta di “collega” per l’abilità narrativa con cui imposta il racconto della vita di Cristo, riuscì a suo modo a portare a compimento l’opera di Paolo, rendendo il messaggio di Gesù “digeribile” anche per il romano medio.
Se il Vangelo di Marco è il più antico e probabilmente il più aderente ai fatti (Marco conobbe appena Gesù, ma divenne poi una sorta di “segretario” di Pietro, che di sicuro gli passò molte informazioni di prima mano sulla vita del Maestro), se il Vangelo di Matteo è il più “ecclesiatico” (non solo perché contempla i presupposti su cui si fonda la gerarchia interna della Chiesa, ma anche perché l’esistenza del suo autore non è storicamente accertata, e il suo testo è quasi certamente frutto del contributo collettivo di un’intera comunità di individui), se il Vangelo di Giovanni – l’ultimo a essere scritto − è il più profondo (e l’identità del suo autore rappresenta per gli esegeti un vero e proprio enigma: dotato di vasta cultura filosofica, è difficile identificarlo sia con “l’apostolo preferito dal Signore”, sia con il vulcanico compilatore dell’Apocalisse), il Vangelo di Luca è il più piacevole da leggere e il più fluido dal punto di vista narrativo: quello che può insegnare di più a chi provenga da una tradizione diversa da quella ebraica.

Emmanuel Carrère

 Al termine del libro il lettore, da una parte, non può fare a meno di stupirsi nel constatare dove il cristianesimo è arrivato, viste quelle che furono le sue origini e quelle che erano le premesse della sua fondazione; dall’altra è indotto a seguire con attenzione fino in fondo il suggestivo percorso esistenziale-filosofico che sta alla base della ricerca di Carrère e ne è il propulsore.
 Carrère, dal canto suo, si trova infine costretto a chiedersi cosa rappresenti per lui quella religione da cui un tempo si sentì interamente pervaso, che per tanti anni ha studiato, e che ora osserva dall’esterno con una sorta di incanto. In tutto questo, la domanda decisiva è: in che cosa consiste quello che Gesù stesso definì “il Regno dei cieli”, e quali sono le sue caratteristiche essenziali?
Anche per un non credente il Regno resta qualcosa di splendido e di paradossale: un luogo della mente dove tutti i valori della vita terrena basati sulla logica e sull’esaltazione dell’individualità vengono rovesciati; un luogo dove solo quella forma particolare di amore universale che è la carità (che in un certo senso può ritenersi antitetica all’amore umano) ha libero corso, e dove la sapienza, l’intelligenza, la ricchezza rappresentano altrettanti handicap per chi vuole avvicinarsi al nocciolo della divinità con purezza d’animo.
 Difficile dire se un tentativo, come quello messo in atto in questo libro, di conoscere razionalmente la sostanza storica, morale, sentimentale della vicenda da cui questi stessi concetti ebbero origine, costituisca una sua onesta ricognizione o un suo radicale tradimento.

Voto: 8

martedì 15 dicembre 2015

Philip Levine, "Notizie del mondo", Mondadori


 News of the World è l’ultima raccolta di poesie di Philip Levine, uno dei maggiori cantori della working class americana del XX secolo, scomparso pochi mesi fa, di cui questo libro rappresenta in qualche modo il testamento.
 La raccolta è suddivisa in quattro parti, ciascuna delle quali consta di otto lunghi componimenti, che nella terza parte non sono poesie in versi ma poémes en prose.
 I temi affrontati sono i più vari: lo sguardo dell’io poetante si può focalizzare su un ricordo lontanissimo nel tempo (ad esempio in Yakov), su un personaggio che ha contato qualcosa nell’esistenza dell’autore (in Arrivo e partenza), su una situazione particolare (in Capodanno, in ospedale), su una storia che qualcun altro ha raccontato (il poema in prosa eponimo Notizie del mondo), su una curiosa fantasticheria (Due voci). Anche i luoghi evocati sono diversissimi tra loro: Detroit (la città nella quale Levine è cresciuto e ha lavorato, giovanissimo, nell’industria dell’automobile), Philadelphia, l’Australia, la Danimarca, Cuba, il Portogallo, la Spagna…
 Si danno casi in cui dall’esperienza concreta ci si impenna verso massime di ispirata saggezza (“Devi ricordarti che questa non è la tua terra. / Non è di nessuno, come il mare accanto a cui vivevi un tempo / pensando fosse tuo”); altre volte si indugia in semplici e quasi dozzinali descrizioni, come quella di Henry Ford (“Di mezza età, sommamente annoiato / dalla propria moglie, un lavoro che odia, / in preda all’insonnia, si alza / dal letto e gira per la sua magione / in vestaglia e ciabatte”).
 In questa estrema variabilità delle situazioni poetiche, tre sono le costanti: in primo luogo, la discorsività narrativa del dettato, che dà luogo a una notevole leggibilità dei testi. In secondo luogo, il trattamento complesso dei piani temporali, laddove tra passato, presente e futuro si creano dei cortocircuiti che possono aprire squarci quasi profetici (“Accetta il suo nome per intero, anche / da bambino se ne sta in piedi e ci fronteggia, / proprio come da qui a undici anni / in piedi fronteggerà la propria morte / che gli fiammeggerà contro”). Da ultimo, la convivenza e quasi la fusione di istanze individuali e collettive (“E quando unisci la tua voce piccola & sincera al canto, ti rendi conto che questa musica è solo lo sfondo a una grande epica americana. Tutte queste voci stanno cantando su chi sei tu”).
 È un po’ come se da uno specchio onirico emergessero alla coscienza dello scrittore esperienze distanti e fra loro apparentemente irrelate, ma capaci tutte insieme di definire un piano sensibile in cui le specifiche identità dei personaggi descritti si collocano in una precisa prospettiva temporale nella misura in cui vengono raccontate; ma proprio il racconto determina una specie di superamento dell’individualità stessa (si veda in Sangue l’immagine del “futuro che viene / verso di noi nell’ombra nera dell’olmo, / due fratelli – quasi un unico uomo - / tenuti insieme da ciò che non possiamo condividere”; o ancora, in Riti di sepoltura, l’idea del “mio nome non più una porzione / di me, non più gonfio / o ammaccato, non più a sobbollire / in un denso compostaggio di memoria / o in quello più semplice di ossa, sabbia / per gatti, le radici di un eucalipto / che io piantai nel ’73, / ma un minuscolo me che nulla prenda e nulla / dia, vuoto, e libero finalmente”).

Philip Levine

 Del resto, questa sorta di volontà di smantellamento della trama dell’io, più che da propositi dichiarati a chiare lettere, si coglie dal modo stesso di fare poesia di Levine, da uno stile che cullando il lettore con la sua distesa narratività e con il ritmo dei suoi versi, ampio e cadenzato come un respiro, crea le premesse affinché, affascinati, quasi ci si dimentichi di sé.
 La poesia più bella del libro, secondo me, è Unholy Saturday (Sabato profano):

Three boys down by the river
search for crawdads. One has
hammered a spear from a
curtain rod, and head down,
jeans rolled up to his knees, wades
against the river’s current.
Barely seven, he’s the most
determined. He’ll go home
hours from now with nothing
to show for his efforts except
dirt and sweat and that residue
he’s unaware of sifting
down from a distant sky
and glinting like threads
of mica across his shoulders.
In the distance someone keeps
calling the names of the brothers
in the same order over
and over, but they don’t hear
what with the riverbank gorged
with blue weed patches and all
the birds hiding. Perhaps no
one is calling and it’s only
the voices of the air as
the late light of June hangs on
in the cottonwoods before
the dark whispers the last word.

(“Tre ragazzini giù al fiume / cercano gamberi. Uno ha / forgiato un arpione da / un’asta per le tende, e a testa bassa, / i jeans arrotolati alle ginocchia, risale / la corrente del fiume. / Sette anni a stento, è il più / determinato. A casa tornerà / tra ore e ore con nulla in mano / da mostrare per i suoi sforzi tranne /  sporco e sudore e quel residuo / che neppure sa di raccogliere / da un cielo distante / e che gli scintilla come fili / di mica sulle spalle. / Da lontano qualcuno continua / a chiamare per nome i fratelli / nello stesso ordine ancora / e ancora, ma quelli non sentono / per via del gorgo di alghe / azzurre sulla riva e di tutti / quegli invisibili uccelli. Forse nessuno / li sta chiamando e sono solo / le voci dell’aria mentre / la luce tarda di giugno se ne sta sospesa / sui pioppi un istante prima che / l’oscurità bisbigli l’ultima parola”).

Voto: 7

martedì 8 dicembre 2015

Serena Vitale, "Il defunto odiava i pettegolezzi", Adelphi


 Il pregio maggiore di Serena Vitale è la capacità di trasformare quelli che sono a tutti gli effetti dei saggi sulla letteratura russa − prodotti da una specialista della materia − in narrazioni affascinanti e vivaci, senza per questo scadere nell’aneddotica e senza banalizzarne il contenuto.
 Il protagonista del suo ultimo libro è uno dei poeti di maggiore spicco di tutto il Novecento, il principale esponente letterario del futurismo russo: Vladimir Majakovskij.
 L’indagine condotta dall’autrice attraverso la consultazione dei documenti originali conservati negli archivi ex sovietici (scritti di Majakovskij e di chi gli era più vicino, verbali degli agenti di polizia, informative degli uomini dei servizi segreti che sorvegliavano il poeta), e perfezionata grazie a una rigorosa comparazione delle testimonianze di diversi personaggi appartenenti all’intelligentija moscovita degli anni trenta, mira a stabilire quali furono le reali circostanze della morte di Majakovskij, il 14 aprile del 1930.
 Una scuola di pensiero che conta ancora oggi parecchi proseliti, infatti, vorrebbe Majakovskij morto non per sua stessa mano, come suggerisce la ricostruzione dei fatti effettuata dalla polizia all’epoca, bensì assassinato.

Vladimir Majakovskij

 Assassinato – o al limite indotto al suicidio −, secondo alcuni, da Veronika Polonskaja, la donna che il poeta frequentava nella primavera del 1930, l’ultima persona che lo vide vivo; secondo altri dagli agenti dei servizi segreti sovietici. Per costoro, Majakovskij, che incarnava lo spirito rivoluzionario delle origini, caratteristico della fase fondativa del Socialismo reale, era ormai inviso al potere staliniano, dal momento che il despota georgiano stava imponendo definitivamente allo Stato ridotto sotto il suo controllo una feroce stretta autoritaria.
 Tale stretta autoritaria si sarebbe tradotta di lì a poco nella diffusione di un grigio perbenismo burocratico (destinato ad avvolgere in una spessa nebbia morale la vita quotidiana di milioni di persone); nell’appiattimento della cultura sugli stolidi paradigmi dell’ortodossia ideologica e di uno pseudo-realismo esaltatorio dei provvedimenti del regime; nella spietata repressione di ogni accenno di dissenso, e quindi nel dilagare a livello collettivo di un terrorizzante filisteismo basato su un’angosciosa diffidenza reciproca, capace di innescare nella popolazione meccanismi viziosi come la delazione preventiva nei confronti di individui da cui si temeva di essere a propria volta denunciati per il presunto tradimento degli ideali bolscevichi.
 Come è noto, Majakovskij venne trasformato dopo la sua morte, su disposizione dello stesso Stalin e grazie allo zelo della sorella Ljudmila, in una sorta di icona del sovietismo; ma al momento della scomparsa, con il clima che si era creato a Mosca, la sua stella si stava indubbiamente offuscando al cospetto delle trasformazioni in atto nel mondo della cultura russofona, e il suo stesso stile di vita decisamente bohemien lo esponeva all’accusa – potenzialmente letale – di conservare chiare tracce di una “mentalità piccolo-borghese”. Tutto questo, secondo taluni dietrologi, lo avrebbe condotto alla morte.
 Bisogna inoltre tenere conto di un altro aspetto della questione: il fiorire di ipotesi alternative alla versione ufficiale – fornita dalle autorità − di quanto avvenne quel 14 aprile è dovuto anche al fatto che molti ammiratori del poeta non sono disposti ad ammettere che un uomo di levatura assoluta come Majakovskij si sia potuto banalmente suicidare per una piccola delusione d’amore: possibile che abbia deciso di spararsi solo per essere stato respinto da una ragazzina − quale era allora Veronika Polonskaja −, destinata fra l’altro a diventare negli anni successivi una attrice di teatro di seconda schiera?

Serena Vitale

 E tuttavia, la ricerca effettuata con rara acribia da Serena Vitale fuga ogni dubbio, e dimostra in modo praticamente incontrovertibile che proprio di questo si trattò: del suicidio, compiuto d’impulso, di un uomo smarrito, forse depresso, triste, solo, che non sentiva più affetto intorno a sé e non si riconosceva più nell’ambiente che frequentava.
 Nel 1930, infatti, Lili e Osip Brik, i suoi protettori, i coniugi con i quali Majakovskij intratteneva da tempo uno scandaloso ménage à trois, erano in viaggio attraverso l’Europa; la rappresentazione di Banja (in italiano Il bagno a vapore) era stata un fiasco; il poeta si sentiva stanco e forse malato; Tatiana Yakovleva, la donna di cui credeva di essersi innamorato durante il suo soggiorno parigino, si era sposata con un altro; inoltre, la vita culturale moscovita non lo vedeva più protagonista assoluto come era stato un tempo, e questo lo esponeva ad ogni sorta di critica da parte di intellettuali mediocri ma particolarmente zelanti nell’adulare i funzionari del Partito, e desiderosi di mettersi in luce con attacchi mirati a chi esprimeva un discorso poetico indipendente dalle “istruzioni” delle autorità.
 Non è in fondo troppo strano che, in una simile situazione, in un simile stato d’animo, un uomo già di per sé incline ai gesti eclatanti, in un momento di rabbia estrema, possa essersi sparato un colpo di pistola al cuore.
 Ciò nondimeno – sembra suggerirci l’autrice − anche senza immaginare misteriosi complotti, non è pura speculazione di fantasia affermare che per uno come Majakovskij non ci sarebbe stato più posto nella Mosca dei tardi anni trenta.
 Il conformismo staliniano non avrebbe potuto tollerare l’anticonformismo sistematico, viscerale prima ancora che programmatico, di Vladimir Majakovskij: uno scrittore dalla cui bocca – per fare il verso a un passo de La nuvola in calzoni – le parole uscivano come prostitute nude che si gettano dalle finestre di un bordello in fiamme.
 Non si potrebbe concepire nulla di più lontano da quello che l'Unione Sovietica poi, in effetti, diventò.

Voto: 7