Oslo, seconda metà degli anni novanta: è la notte di Natale,
e Pål Andersen – 55 anni, divorziato senza figli, grande esperto di Ibsen,
stimato professore di letteratura presso la locale Università – sta festeggiando
la tradizionale ricorrenza in casa sua. È solo, ma non è affatto triste; anzi,
si è preparato una cena gustosa, ha indossato un abito elegante e ora si sente
perfettamente in armonia col mondo.
Quando però si affaccia alla finestra con l’intenzione di
contemplare la felicità degli altri attraverso le finestre illuminate degli
edifici sull’altro lato della strada, un fatto inatteso interviene a spezzare
quell’armonia: il professor Andersen assiste all’assassinio di una giovane
donna bionda da parte dell’uomo che è con lei all’interno di uno degli
appartamenti dirimpetto.
D’impulso il professor Andersen si getta sul telefono per
chiamare la polizia, ma una forza misteriosa lo trattiene; non denuncerà il
delitto né quella sera né il giorno successivo.
Con il passare dei giorni e poi delle settimane e dei mesi, il
pensiero dell’omicidio di cui è stato testimone e che è rimasto impunito
diventa un’ossessione per il protagonista del libro, senza tuttavia che egli
riesca a parlarne né con gli amici che conta nella capitale, né con il collega
che raggiunge in aereo a Trondheim con l’intenzione di confidarsi con lui.
Le scuse dietro le quali il professor Andersen si trincera
per giustificare la propria inerzia e il proprio silenzio sono le più
disparate: si dice che il criminale non sfuggirà comunque alla giustizia,
perché nel momento in cui si noterà la scomparsa della giovane donna, le
attenzioni degli inquirenti non potranno che appuntarsi sull’uomo che era con
lei; che forse la donna non è morta; che il delitto potrebbe essere
esclusivamente frutto della sua immaginazione; si racconta persino che è
legittimo, talvolta, esitare ad assumere la responsabilità della condanna senza
appello di un uomo che non si conosce…
Dag Solstad
E tuttavia, nel momento in cui, in un ristorante giapponese
non lontano da casa sua, si trova faccia a faccia con l’assassino, lo
riconosce, addirittura si vede costretto a intavolare una generica conversazione
con lui, Pål Andersen deve ammettere a se stesso quanto siano inconsistenti le
sue giustificazioni, e provare a dare una spiegazione autentica al proprio
comportamento.
Alla fine è costretto a dichiarare quanto, in fondo, dentro
di sé, già sapeva: la sua decisione è stata frutto di una sorta di perfetto
delirio di onnipotenza, del brivido voluttuoso che trasmette la possibilità di
schioccare semplicemente le dita e di decidere così – magnanimamente − della
sorte di un uomo, della vertigine solipsistica di sostituire le proprie leggi a
quelle dettate dalle buone norme della convivenza civile, dalla morale corrente
o dal timor di Dio.
Il professor Andersen è arrivato a non credere più nell’uomo;
la migliore premessa perché all’uomo assolutamente tutto sia consentito.
Quello che, da principio, sembra un giallo, si trasforma
presto in un romanzo esistenziale-filosofico in cui uno dei migliori scrittori
norvegesi contemporanei gioca a sovrapporre alla realtà effettuale l’universo
mentale del protagonista.
La lettura è gradevole e l'effetto finale è sicuramente disturbante, ma forse non sufficientemente straniante - a tutti i livelli - perché si possa parlare di un grande libro.
Voto: 6
La lettura è gradevole e l'effetto finale è sicuramente disturbante, ma forse non sufficientemente straniante - a tutti i livelli - perché si possa parlare di un grande libro.
Voto: 6
Nessun commento:
Posta un commento