martedì 15 dicembre 2015

Philip Levine, "Notizie del mondo", Mondadori


 News of the World è l’ultima raccolta di poesie di Philip Levine, uno dei maggiori cantori della working class americana del XX secolo, scomparso pochi mesi fa, di cui questo libro rappresenta in qualche modo il testamento.
 La raccolta è suddivisa in quattro parti, ciascuna delle quali consta di otto lunghi componimenti, che nella terza parte non sono poesie in versi ma poémes en prose.
 I temi affrontati sono i più vari: lo sguardo dell’io poetante si può focalizzare su un ricordo lontanissimo nel tempo (ad esempio in Yakov), su un personaggio che ha contato qualcosa nell’esistenza dell’autore (in Arrivo e partenza), su una situazione particolare (in Capodanno, in ospedale), su una storia che qualcun altro ha raccontato (il poema in prosa eponimo Notizie del mondo), su una curiosa fantasticheria (Due voci). Anche i luoghi evocati sono diversissimi tra loro: Detroit (la città nella quale Levine è cresciuto e ha lavorato, giovanissimo, nell’industria dell’automobile), Philadelphia, l’Australia, la Danimarca, Cuba, il Portogallo, la Spagna…
 Si danno casi in cui dall’esperienza concreta ci si impenna verso massime di ispirata saggezza (“Devi ricordarti che questa non è la tua terra. / Non è di nessuno, come il mare accanto a cui vivevi un tempo / pensando fosse tuo”); altre volte si indugia in semplici e quasi dozzinali descrizioni, come quella di Henry Ford (“Di mezza età, sommamente annoiato / dalla propria moglie, un lavoro che odia, / in preda all’insonnia, si alza / dal letto e gira per la sua magione / in vestaglia e ciabatte”).
 In questa estrema variabilità delle situazioni poetiche, tre sono le costanti: in primo luogo, la discorsività narrativa del dettato, che dà luogo a una notevole leggibilità dei testi. In secondo luogo, il trattamento complesso dei piani temporali, laddove tra passato, presente e futuro si creano dei cortocircuiti che possono aprire squarci quasi profetici (“Accetta il suo nome per intero, anche / da bambino se ne sta in piedi e ci fronteggia, / proprio come da qui a undici anni / in piedi fronteggerà la propria morte / che gli fiammeggerà contro”). Da ultimo, la convivenza e quasi la fusione di istanze individuali e collettive (“E quando unisci la tua voce piccola & sincera al canto, ti rendi conto che questa musica è solo lo sfondo a una grande epica americana. Tutte queste voci stanno cantando su chi sei tu”).
 È un po’ come se da uno specchio onirico emergessero alla coscienza dello scrittore esperienze distanti e fra loro apparentemente irrelate, ma capaci tutte insieme di definire un piano sensibile in cui le specifiche identità dei personaggi descritti si collocano in una precisa prospettiva temporale nella misura in cui vengono raccontate; ma proprio il racconto determina una specie di superamento dell’individualità stessa (si veda in Sangue l’immagine del “futuro che viene / verso di noi nell’ombra nera dell’olmo, / due fratelli – quasi un unico uomo - / tenuti insieme da ciò che non possiamo condividere”; o ancora, in Riti di sepoltura, l’idea del “mio nome non più una porzione / di me, non più gonfio / o ammaccato, non più a sobbollire / in un denso compostaggio di memoria / o in quello più semplice di ossa, sabbia / per gatti, le radici di un eucalipto / che io piantai nel ’73, / ma un minuscolo me che nulla prenda e nulla / dia, vuoto, e libero finalmente”).

Philip Levine

 Del resto, questa sorta di volontà di smantellamento della trama dell’io, più che da propositi dichiarati a chiare lettere, si coglie dal modo stesso di fare poesia di Levine, da uno stile che cullando il lettore con la sua distesa narratività e con il ritmo dei suoi versi, ampio e cadenzato come un respiro, crea le premesse affinché, affascinati, quasi ci si dimentichi di sé.
 La poesia più bella del libro, secondo me, è Unholy Saturday (Sabato profano):

Three boys down by the river
search for crawdads. One has
hammered a spear from a
curtain rod, and head down,
jeans rolled up to his knees, wades
against the river’s current.
Barely seven, he’s the most
determined. He’ll go home
hours from now with nothing
to show for his efforts except
dirt and sweat and that residue
he’s unaware of sifting
down from a distant sky
and glinting like threads
of mica across his shoulders.
In the distance someone keeps
calling the names of the brothers
in the same order over
and over, but they don’t hear
what with the riverbank gorged
with blue weed patches and all
the birds hiding. Perhaps no
one is calling and it’s only
the voices of the air as
the late light of June hangs on
in the cottonwoods before
the dark whispers the last word.

(“Tre ragazzini giù al fiume / cercano gamberi. Uno ha / forgiato un arpione da / un’asta per le tende, e a testa bassa, / i jeans arrotolati alle ginocchia, risale / la corrente del fiume. / Sette anni a stento, è il più / determinato. A casa tornerà / tra ore e ore con nulla in mano / da mostrare per i suoi sforzi tranne /  sporco e sudore e quel residuo / che neppure sa di raccogliere / da un cielo distante / e che gli scintilla come fili / di mica sulle spalle. / Da lontano qualcuno continua / a chiamare per nome i fratelli / nello stesso ordine ancora / e ancora, ma quelli non sentono / per via del gorgo di alghe / azzurre sulla riva e di tutti / quegli invisibili uccelli. Forse nessuno / li sta chiamando e sono solo / le voci dell’aria mentre / la luce tarda di giugno se ne sta sospesa / sui pioppi un istante prima che / l’oscurità bisbigli l’ultima parola”).

Voto: 7

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