giovedì 24 dicembre 2015

Emmanuel Carrère, "Il Regno", Adelphi


 Uno dei libri migliori che io abbia letto nel 2015.
 Emmanuel Carrère ricostruisce la storia delle origini del cristianesimo: lo fa da non credente – o meglio, da ex credente –, sulla scorta del suo stile particolare e inconfondibile, con quella tendenza ad addomesticare il sublime che è il suo maggior pregio e, forse, anche il suo limite più evidente.
 La base del suo lavoro è costituita da anni di rigorose ricerche sui testi sacri e sui documenti, ma il suo approccio è quello del romanziere, che applica il criterio della verosimiglianza per immaginare (e aiutare il lettore a immaginare) quello che non può essere accertato senza ombra di dubbio. Si sviluppa così un tentativo appassionante, tutto giocato sulla fantasia e sulla sensibilità filologica e psicologica dell’autore, di narrare con occhi nuovi una vicenda iniziata in un angolo oscuro dell’impero romano duemila anni fa, che tutti credono di conoscere abbastanza bene ma della quale possediamo in realtà solo pochi dati oggettivamente verificabili, sui quali si sono peraltro depositate le incrostazioni culturali di secoli di congetture, interpretazioni interessate, false credenze, miti popolari.
 Ne risulta un discorso brillante, idiosincratico, non prettamente scientifico, decisamente laico ma per nulla pervaso da un anticlericalismo di maniera; insomma, sempre molto originale.
 L’attenzione di Carrère non si concentra tanto sulla storia di Gesù (colui che in vita voleva essere re degli ebrei, e una volta morto finì per essere re di tutti tranne che degli ebrei), quanto su quella degli apostoli che furono protagonisti della diffusione in tutto il mondo antico del credo della loro piccola setta, di cui sarebbe stato facile pronosticare l’estinzione.
 Il merito principale dell’espansione della nuova fede al di fuori del territorio angusto della Palestina fu senz’altro di Paolo di Tarso, cittadino romano di origine ebraica che pose i presupposti in virtù dei quali il culto di Cristo poté diventare una religione diversa dall’ebraismo, e il cui ruolo nel processo di definizione e affermazione del cristianesimo fu storicamente più decisivo di quello di Gesù stesso (da lui mai incontrato). Per quanto se ne sa, Paolo era brutto, scontroso, collerico, e pessimi erano i suoi rapporti con la comunità dei cristiani di Gerusalemme, fondata sull’autorità dell’apostolo Pietro e di Giacomo, fratello di sangue di Cristo. Era però un uomo pervaso da un’energia impareggiabile, dotato di una retorica martellante e di una incrollabile forza d’animo, che facevano sì che le sue prese di posizione e la sua predicazione sfiorassero spesso il fanatismo. Di Paolo fu l’intuizione di puntare sulla potenza che era intrinseca all’idea (non scontata) della resurrezione; sua fu l’iniziativa di diffondere la “buona novella” fra i gentili e anche quella di ritualizzare l’abitudine dell’agape, il banchetto eucaristico da tenersi nel giorno successivo al sabato ebraico.
 Fra gli accoliti di Paolo ci fu anche Luca, che è il vero protagonista di questo libro. Luca – un uomo colto e curioso originario della Macedonia, un intellettuale che esercitava la professione di medico itinerante –, infatti, non solo fu l’autore del più bistrattato dei quattro Vangeli (perché viene considerato quello con meno “carattere”), che invece Carrère rivaluta enormemente; a lui lo scrittore francese attribuisce, sulla base di analisi stilistiche e dell’individuazione di assonanze di tono e di contenuto fra diversi passi di differenti libri del Nuovo Testamento, anche gli Atti degli Apostoli e la Lettera di Giacomo; a lui riconosce soprattutto la capacità di fare da ponte fra il cristianesimo “palestinese”, filoebraico, e quello “greco”, svincolato dalle antiche tradizioni giudaiche.
 Luca, con cui Carrère intuisce una profonda affinità caratteriale (che contempla anche una comune tendenza alla mediazione e al compromesso, e un istintivo rifiuto delle posizioni intransigenti del tutto estraneo sia all’insegnamento di Paolo sia all’atteggiamento di personaggi di primo piano del cristianesimo delle origini come Giacomo o Giovanni) e che considera una sorta di “collega” per l’abilità narrativa con cui imposta il racconto della vita di Cristo, riuscì a suo modo a portare a compimento l’opera di Paolo, rendendo il messaggio di Gesù “digeribile” anche per il romano medio.
Se il Vangelo di Marco è il più antico e probabilmente il più aderente ai fatti (Marco conobbe appena Gesù, ma divenne poi una sorta di “segretario” di Pietro, che di sicuro gli passò molte informazioni di prima mano sulla vita del Maestro), se il Vangelo di Matteo è il più “ecclesiatico” (non solo perché contempla i presupposti su cui si fonda la gerarchia interna della Chiesa, ma anche perché l’esistenza del suo autore non è storicamente accertata, e il suo testo è quasi certamente frutto del contributo collettivo di un’intera comunità di individui), se il Vangelo di Giovanni – l’ultimo a essere scritto − è il più profondo (e l’identità del suo autore rappresenta per gli esegeti un vero e proprio enigma: dotato di vasta cultura filosofica, è difficile identificarlo sia con “l’apostolo preferito dal Signore”, sia con il vulcanico compilatore dell’Apocalisse), il Vangelo di Luca è il più piacevole da leggere e il più fluido dal punto di vista narrativo: quello che può insegnare di più a chi provenga da una tradizione diversa da quella ebraica.

Emmanuel Carrère

 Al termine del libro il lettore, da una parte, non può fare a meno di stupirsi nel constatare dove il cristianesimo è arrivato, viste quelle che furono le sue origini e quelle che erano le premesse della sua fondazione; dall’altra è indotto a seguire con attenzione fino in fondo il suggestivo percorso esistenziale-filosofico che sta alla base della ricerca di Carrère e ne è il propulsore.
 Carrère, dal canto suo, si trova infine costretto a chiedersi cosa rappresenti per lui quella religione da cui un tempo si sentì interamente pervaso, che per tanti anni ha studiato, e che ora osserva dall’esterno con una sorta di incanto. In tutto questo, la domanda decisiva è: in che cosa consiste quello che Gesù stesso definì “il Regno dei cieli”, e quali sono le sue caratteristiche essenziali?
Anche per un non credente il Regno resta qualcosa di splendido e di paradossale: un luogo della mente dove tutti i valori della vita terrena basati sulla logica e sull’esaltazione dell’individualità vengono rovesciati; un luogo dove solo quella forma particolare di amore universale che è la carità (che in un certo senso può ritenersi antitetica all’amore umano) ha libero corso, e dove la sapienza, l’intelligenza, la ricchezza rappresentano altrettanti handicap per chi vuole avvicinarsi al nocciolo della divinità con purezza d’animo.
 Difficile dire se un tentativo, come quello messo in atto in questo libro, di conoscere razionalmente la sostanza storica, morale, sentimentale della vicenda da cui questi stessi concetti ebbero origine, costituisca una sua onesta ricognizione o un suo radicale tradimento.

Voto: 8

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