martedì 8 dicembre 2015

Serena Vitale, "Il defunto odiava i pettegolezzi", Adelphi


 Il pregio maggiore di Serena Vitale è la capacità di trasformare quelli che sono a tutti gli effetti dei saggi sulla letteratura russa − prodotti da una specialista della materia − in narrazioni affascinanti e vivaci, senza per questo scadere nell’aneddotica e senza banalizzarne il contenuto.
 Il protagonista del suo ultimo libro è uno dei poeti di maggiore spicco di tutto il Novecento, il principale esponente letterario del futurismo russo: Vladimir Majakovskij.
 L’indagine condotta dall’autrice attraverso la consultazione dei documenti originali conservati negli archivi ex sovietici (scritti di Majakovskij e di chi gli era più vicino, verbali degli agenti di polizia, informative degli uomini dei servizi segreti che sorvegliavano il poeta), e perfezionata grazie a una rigorosa comparazione delle testimonianze di diversi personaggi appartenenti all’intelligentija moscovita degli anni trenta, mira a stabilire quali furono le reali circostanze della morte di Majakovskij, il 14 aprile del 1930.
 Una scuola di pensiero che conta ancora oggi parecchi proseliti, infatti, vorrebbe Majakovskij morto non per sua stessa mano, come suggerisce la ricostruzione dei fatti effettuata dalla polizia all’epoca, bensì assassinato.

Vladimir Majakovskij

 Assassinato – o al limite indotto al suicidio −, secondo alcuni, da Veronika Polonskaja, la donna che il poeta frequentava nella primavera del 1930, l’ultima persona che lo vide vivo; secondo altri dagli agenti dei servizi segreti sovietici. Per costoro, Majakovskij, che incarnava lo spirito rivoluzionario delle origini, caratteristico della fase fondativa del Socialismo reale, era ormai inviso al potere staliniano, dal momento che il despota georgiano stava imponendo definitivamente allo Stato ridotto sotto il suo controllo una feroce stretta autoritaria.
 Tale stretta autoritaria si sarebbe tradotta di lì a poco nella diffusione di un grigio perbenismo burocratico (destinato ad avvolgere in una spessa nebbia morale la vita quotidiana di milioni di persone); nell’appiattimento della cultura sugli stolidi paradigmi dell’ortodossia ideologica e di uno pseudo-realismo esaltatorio dei provvedimenti del regime; nella spietata repressione di ogni accenno di dissenso, e quindi nel dilagare a livello collettivo di un terrorizzante filisteismo basato su un’angosciosa diffidenza reciproca, capace di innescare nella popolazione meccanismi viziosi come la delazione preventiva nei confronti di individui da cui si temeva di essere a propria volta denunciati per il presunto tradimento degli ideali bolscevichi.
 Come è noto, Majakovskij venne trasformato dopo la sua morte, su disposizione dello stesso Stalin e grazie allo zelo della sorella Ljudmila, in una sorta di icona del sovietismo; ma al momento della scomparsa, con il clima che si era creato a Mosca, la sua stella si stava indubbiamente offuscando al cospetto delle trasformazioni in atto nel mondo della cultura russofona, e il suo stesso stile di vita decisamente bohemien lo esponeva all’accusa – potenzialmente letale – di conservare chiare tracce di una “mentalità piccolo-borghese”. Tutto questo, secondo taluni dietrologi, lo avrebbe condotto alla morte.
 Bisogna inoltre tenere conto di un altro aspetto della questione: il fiorire di ipotesi alternative alla versione ufficiale – fornita dalle autorità − di quanto avvenne quel 14 aprile è dovuto anche al fatto che molti ammiratori del poeta non sono disposti ad ammettere che un uomo di levatura assoluta come Majakovskij si sia potuto banalmente suicidare per una piccola delusione d’amore: possibile che abbia deciso di spararsi solo per essere stato respinto da una ragazzina − quale era allora Veronika Polonskaja −, destinata fra l’altro a diventare negli anni successivi una attrice di teatro di seconda schiera?

Serena Vitale

 E tuttavia, la ricerca effettuata con rara acribia da Serena Vitale fuga ogni dubbio, e dimostra in modo praticamente incontrovertibile che proprio di questo si trattò: del suicidio, compiuto d’impulso, di un uomo smarrito, forse depresso, triste, solo, che non sentiva più affetto intorno a sé e non si riconosceva più nell’ambiente che frequentava.
 Nel 1930, infatti, Lili e Osip Brik, i suoi protettori, i coniugi con i quali Majakovskij intratteneva da tempo uno scandaloso ménage à trois, erano in viaggio attraverso l’Europa; la rappresentazione di Banja (in italiano Il bagno a vapore) era stata un fiasco; il poeta si sentiva stanco e forse malato; Tatiana Yakovleva, la donna di cui credeva di essersi innamorato durante il suo soggiorno parigino, si era sposata con un altro; inoltre, la vita culturale moscovita non lo vedeva più protagonista assoluto come era stato un tempo, e questo lo esponeva ad ogni sorta di critica da parte di intellettuali mediocri ma particolarmente zelanti nell’adulare i funzionari del Partito, e desiderosi di mettersi in luce con attacchi mirati a chi esprimeva un discorso poetico indipendente dalle “istruzioni” delle autorità.
 Non è in fondo troppo strano che, in una simile situazione, in un simile stato d’animo, un uomo già di per sé incline ai gesti eclatanti, in un momento di rabbia estrema, possa essersi sparato un colpo di pistola al cuore.
 Ciò nondimeno – sembra suggerirci l’autrice − anche senza immaginare misteriosi complotti, non è pura speculazione di fantasia affermare che per uno come Majakovskij non ci sarebbe stato più posto nella Mosca dei tardi anni trenta.
 Il conformismo staliniano non avrebbe potuto tollerare l’anticonformismo sistematico, viscerale prima ancora che programmatico, di Vladimir Majakovskij: uno scrittore dalla cui bocca – per fare il verso a un passo de La nuvola in calzoni – le parole uscivano come prostitute nude che si gettano dalle finestre di un bordello in fiamme.
 Non si potrebbe concepire nulla di più lontano da quello che l'Unione Sovietica poi, in effetti, diventò.

Voto: 7

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