mercoledì 26 ottobre 2016

Alessandro Piperno, "Dove la storia finisce", Mondadori


 Al suo ritorno a Roma dopo sedici anni passati in California, dove era scappato per sfuggire ai creditori, Matteo Zevi - cinquantasei anni e quattro mogli, due al di qua e due al di là dell'Oceano - trova tutti coloro che un tempo gli erano vicini disordinatamente sparpagliati sulla mappa geografica dell'esistenza, ciascuno in un punto dove era difficile prevedere che sarebbe arrivato.
 Giorgio, il figlio di primo letto, ha aperto l'Orient Express, un locale di enorme successo che gli ha permesso di arricchirsi. I suoi rapporti col padre sono stati discreti fino a quando il genitore si è tenuto lontano dall'Italia; dal momento in cui egli ha preso la decisione di rientrare, sono improvvisamente peggiorati. Forse Giorgio teme che l'imprevedibilità di Matteo possa minare la stabilità sentimentale che ha faticosamente conquistato con Sara, ebrea come lui, che porta in grembo il loro bambino.
 Federica (figlia di un ex Giudice della Corte Costituzionale ed ex Senatore della sinistra italiana), la donna per la quale Matteo 25 anni prima ha lasciato la prima moglie, alle soglie dei cinquant'anni è invece ancora in trepidante attesa di quello che non può fare a meno di continuare a considerare il suo uomo, in virtù dei nove anni passati con lui, i migliori della sua vita. Però non può ammetterlo davanti a suo padre, che disprezza Matteo e non sa darsi pace al pensiero che la figlia non abbia mai voluto chiedere il divorzio.
 Insieme, Matteo e Federica hanno avuto Martina, che quando il padre è fuggito in America aveva solo 9 anni, e adesso è una donna. Prima ancora di concludere gli studi, infatti, ha sposato Lorenzo Mogherini, figlio di un noto professore universitario e fratello di Benedetta, la sua storica migliore amica. Apparentemente ha tutto quello che si potrebbe desiderare: soldi, amore, la prospettiva di una brillante carriera di avvocato, l'armonia di una famiglia molto distinta e perfettamente inserita nella buona società dei salotti romani. E tuttavia la ragazza non è felice, e si rende conto di come il ritorno del padre possa ingarbugliare ancor di più il suo difficile stato emotivo. Il disagio più grande è dovuto al fatto che a poco a poco sta sorgendo in lei il dubbio di non essere tanto innamorata di Lorenzo quanto di Benedetta, verso la quale i suoi sentimenti sono certo differenti da quelli che normalmente si nutrono nei confronti di un'amica, assai più complessi e profondi.
 E poi c'è Tati, l'amico di gioventù di Matteo, la persona che non l'ha mai abbandonato, e che a lungo ha aiutato i figli del suo antico sodale - in sua assenza - come se fossero suoi (come se si trattasse dei figli che lui e sua moglie non sono mai riusciti ad avere).
 Tra tutti costoro, sembra che Matteo non riesca più realmente a raccapezzarsi; un po' perché ognuno si è abituato a vivere senza di lui, un po' perché egli si comporta costantemente come se fosse immerso in una sorta di eterna adolescenza, il che non lo aiuta certo ad essere un buon marito e un buon padre. Così, dopo qualche mese tormentato a Roma, si risolve a tornare negli Stati Uniti, con buona pace dei suoi famigliari.

Alessandro Piperno

 Proprio alla vigilia della sua partenza, però, un terribile attentato all'Orient Express (assai simile agli attentati che hanno funestato Parigi alcuni mesi fa) sconvolgerà Roma e i romani, cambiando per sempre il corso della vita di tutti gli Zevi, e rimescolando le carte che sembravano già state date per l'ultima mano della loro partita con il futuro. Non solo: l'attentato segnerà una ineludibile cesura storica, la fine di un'esistenza dominata da problematiche tutto sommato piuttosto frivole e l'inizio dell'epoca delle nuove responsabilità.
 Il libro è meno convincente delle precedenti prove di Piperno, sulle quali, nonostante avessero ricevuto buone critiche e costituissero delle letture piuttosto gradevoli, personalmente già nutrivo qualche perplessità.
 Mi spiego: leggendo Piperno, talvolta, ci si chiede se non si sia di fronte a un nuovo Moravia: accomunano i due scrittori l'origine ebraica, il background altoborghese, l'insistita e problematica esplorazione dei temi della sessualità, lo stile semplice, la capacità di incrociare con le proprie parabole narrative l'attualità del proprio tempo.
 Poi però, se si guarda più a fondo, ci si accorge che di Moravia, in Piperno, non c'è né la capacità di portare critiche feroci alla società e agli individui, né l'abilità nel tratteggiare personaggi e situazioni assolutamente memorabili, né la perizia nel dissimulare la densità culturale dei contenuti proposti, né l'intuito pronto nell'individuare simboli in grado di rappresentare il clima emotivo di un passaggio storico o di un'epoca intera.
 L'ondivago narratore di Piperno si nutre invece di luoghi comuni, dell'ambiguo attaccamento a un mondo di cui solo superficialmente fa mostra di denunciare le storture, di un autocompiacimento letterario che prende sovente la forma dell'esibito citazionismo, la cattiva impressione del quale non viene obliterata né dalla brillantezza dello spin narrativo (che è giusto riconoscere all'autore), né dall'ironia qua e là disseminata fra le pagine di questo e degli altri romanzi.

Voto: 5  

martedì 18 ottobre 2016

Halldor Laxness, "Sette maghi", Iperborea


 Pochi giorni dopo la scomparsa di Dario Fo e la discussa assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, voglio proporre un libro di un altro autore a cui fu assegnato il riconoscimento molti anni fa.
 Halldor Laxness, islandese, premio Nobel nel 1955, fu scrittore capace di fondere i caratteri tipici delle antiche saghe della piccola isola dalla quale proveniva con i grandi temi sociopolitici e filosofici della modernità novecentesca. Le sue opere spesso coniugano la potenza evocativa senza tempo dei miti, la freschezza delle tradizioni orali e la ficcante ironia degli umoristi più brillanti.  
 Sette maghi è una raccolta di racconti particolarmente significativa, perché accosta pezzi narrativi prodotti in un arco di tempo piuttosto lungo, e perché offre spunti che consentono di farsi un'idea abbastanza precisa del modo di fare letteratura di Laxness e della sua impostazione ideologica di fondo.
 Il primo racconto, La scoperta dell'India, ci porta in una terra lontana e dal sapore fiabesco, l'impero di Cina. Esso funge un po' da premessa al libro intero, ed è come se suggerisse al lettore il giusto punto di vista in cui porsi per interpretarlo correttamente: in primo luogo, infatti, rovescia la prospettiva eurocentrica a cui siamo abituati, invitandoci ad abbandonare le nostre certezze; in secondo luogo suggerisce che, nella vita come in un racconto, ci si può perdere per poi ritrovarsi, o ci si può imbattere in ciò che si cerca dove non ci si aspettava di trovarlo.
 Vi si racconta infatti dell'imperatore che, avendo sognato un Paese di favolosa ricchezza posto nel Lontano Occidente, chiede ai suoi cortigiani di partire alla scoperta di quella terra solo sognata. L'incarico della missione viene assunto da Zhang Qian, che messosi in viaggio, giunge nel paese degli Unni; grazie a una serie di circostanze fortunate, diventa re di quel popolo, dimenticando la sua missione per i dieci anni successivi. Ma una mattina, svegliandosi di soprassalto, ricorda l'incarico che ha ricevuto, abbandona tutto quello che ha e riprende il cammino. Dopo molto peregrinare arriva in India; e capisce che quello è veramente il Paese più bello e ricco del mondo, la terra sognata dal suo imperatore. 
 Napoleone Bonaparte è invece la storia di Jon Gudmundsson, un giovane contadino islandese che, cresciuto in una capanna sotto i ritratti appesi al muro di Napoleone e della regina Vittoria - gli unici personaggi storici di cui conosca l'esistenza - concepisce un giorno il desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo e per fare grandi cose. Ritornerà povero e stracciato, convinto di essere il nuovo Napoleone Bonaparte e di aver riportato il cristianesimo in Danimarca scacciandovi i Turchi. Tutti lo tratteranno allora con delicatezza, curandosi di non spezzare la sua illusione.
 Pordur il vecchio zoppo è la storia di un pacifico operaio, lontano dalle ragioni del sindacato e impermeabile al marxismo - al contrario di tanti suoi colleghi - che, quando, nel novembre del 1932, la Giunta comunale di Reykjavik decide di ridurre i salari e di eliminare il sussidio di disoccupazione per "dare una lezione ai bolscevichi", si mette alla testa della sommossa dei lavoratori che chiedono di essere ammessi alla riunione dei consiglieri, e partecipa da protagonista ai tumulti noti come "Moti del Guttu", che costringeranno la Giunta a ritornare sui propri passi.

 Halldor Laxness

  La sconfitta dell'aviazione italiana a Reykjavik nel 1933 mette clamorosamente in ridicolo la tronfia prosopopea dei fascisti, che in Islanda nel 1933 approdarono davvero con 25 idrovolanti per fare scalo durante la traversata dell'Atlantico capitanata da Italo Balbo. Pavoneggiandosi con fare marziale nelle loro sgargianti divise, i fascisti italiani si trovano a scontrarsi casualmente con l'unico che nel Paese - notoriamente privo di un esercito - indossi un'uniforme elegante come le loro: un garzone d'albergo (che in Islanda viene chiamato familiarmente, con termine italiano, "piccolo"), Stefan Jonsson, capace di mettere ko l'arrogante capo-delegazione senza neppure sapere di chi si tratti.
 La Voluspa in ebraico parla di uno starno tipo, Karl Einfer, una sorta di bizzarro faccendiere capace di procurare ai suoi clienti qualsiasi cosa; da un massaggio a un dolce alla crema, dalla traduzione in aramaico di un antico poema a un corso di "spiritualità finanziaria", da un saggio grafologico a un premio internazionale (persino il premio Nobel per la letteratura!).
 Un'apparizione nell'abisso è ambientato in Sicilia, e mette in scena l'infatuazione di un giovane viaggiatore per una ragazza del luogo appena intravista attraverso le finestre di casa sua. Vi prevalgono atmosfere sospese e sognanti, e un lirismo attenuato dall'ironia che di tanto in tanto fa capolino fra le pagine.
 Il pifferaio consiste nel racconto - permeato di realismo magico - del rapimento di un giovane sguattero al servizio di una fattoria islandese da parte di un misterioso personaggio, dotato di un inverosimile cappellaccio, che porta sempre con sé un piffero racchiuso in un piccolo astuccio. Nel personaggio si può scorgere un riferimento allegorico neppure troppo mascherato ai tanti dittatori sanguinari che hanno funestato la storia del Novecento, capaci di incantare le masse e di tenere in ostaggio interi popoli
 Con Temucin torna a casa, il racconto che chiude la raccolta, si torna nell'estremo Oriente per narrare gli ultimi anni di vita del Gran Khan, sovrano di cui si parla rivolgendogli i più lusinghieri appellativi, ma che si rivela in realtà capace di compiere con serafica placidità i peggiori atti di sopraffazione nei confronti del prossimo, per il solo fatto di identificare la salute collettiva nella gloria della propria persona, come spesso fanno i potenti.
 Questo libro è un esempio perfetto di come, in Laxness, la linearità della narrazione contrasta fortemente con il suo contenuto, e la "facilità" dello stile si scontra con la problematicità delle questioni sollevate; si creano così effetti ora apertamente antifrastici ora raffinatamente patetici, che catturano l'immaginazione del lettore e rendono memorabile quasi ogni pagina.
 I racconti a mio parere più riusciti sono Pordur il vecchio zoppo e La sconfitta dell'aviazione italiana a Reykjavik nel 1933.

Voto: 7   

sabato 8 ottobre 2016

Annie Ernaux, "L'altra figlia", L'Orma


 Una domenica pomeriggio dell'agosto 1950 - forse la stessa domenica in cui si suicidò Cesare Pavese - la piccola Annie sta giocando con la figlia di una vicina nella strada dietro la drogheria dei genitori, a Yvetot, mentre le due madri parlano poco lontano.
 Improvvisamente, una lieve alterazione nel tono di voce della mamma induce la bambina a prestare ascolto alla sue parole, pur senza darlo a vedere; e quello che sente (quello di cui acquista allora per la prima volta coscienza) la sconvolge.
 La madre racconta di avere avuto un'altra figlia, morta di difterite a sei anni, prima della guerra, cioè prima che Annie nascesse. Racconta del dolore folle del marito al momento della morte della piccola per soffocamento. Racconta di non aver mai detto niente ad Annie per non rattristarla. Racconta che la prima figlia era più buona di Annie.
 Da quel momento Annie sarà costretta a convivere col fantasma della sorella "più buona di lei" che non ha mai conosciuto, e di cui i genitori mai le parleranno, come se avesse vissuto in una dimensione diversa, in un'epoca più felice, a lei non solo inaccessibile ma anche incomprensibile: un eden di cui sua madre e suo padre pare vogliano gelosamente trattenere il ricordo solo per sé - fors'anche perché sarebbe troppo difficile trovare le parole per raccontarlo.
 E' dal tentativo di dare corpo a quel fantasma - e di trovare un terreno comune su cui potersi confrontare con esso - che nasce questo piccolo, toccante libro, composto sotto forma di una lettera rivolta dall'autrice proprio a quella sorella sconosciuta, a lungo quasi rimossa, spesso odiata senza neppure sapere bene perché. Una lettera scritta per fare finalmente i conti con un'assenza capace di riempire paradossalmente di sé tutta la vita di Annie Ernaux, scatenando sentimenti estremamente complessi e contrastanti.

Annie Ernaux

 Da una parte, infatti, c'è l'invidia nei confronti di Ginette (questo il desueto nome della bambina morta), che ha avuto la possibilità di vivere con i genitori quando erano più giovani e spensierati, pieni di energia e di ottimismo, e non ancora fiaccati da tutte le sofferenze e le preoccupazioni che la guerra e il dopoguerra portarono con sé.
 Dall'altra parte c'è un profondo, inestirpabile senso di colpa, dovuto alla sensazione costante di "aver preso il posto dell'altra": i genitori di Annie avevano deciso di avere un solo figlio, e a lungo ha accompagnato l'autrice la convinzione di essere nata solo in virtù della morte della sorella, e anzi il sospetto quasi superstizioso che Ginette fosse predestinata a morire per permettere la sua venuta al mondo (scrive la Ernaux, rivolgendosi alla sorella: La vastità della mia vita, ottenuta in eterno a discapito della tua, mi sommerge. Alle mie spalle tutto è innumerevole, le cose viste, sentite, imparate e dimenticate, le donne e gli uomini frequentati, le strade, le sere e le mattine. Mi sento sopraffatta dalla profusione delle immagini).
 Lo scopo stesso del racconto del rapporto con quella sorella mai sentita viva ondeggia così tra estremi opposti. Si chiede l'autrice: Che ti stia scrivendo per resuscitarti e ucciderti un'altra volta?
 Nello stesso tempo non può non riconoscere che parlare della sorella è parlare di sé: La tua esistenza passa solo attraverso l'impronta che hai lasciato sulla mia. Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza. Descrivere l'eredità dell'assenza. Sei una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura.
 La narrazione e il messaggio stesso che porta con sé diventano in definitiva, emblematicamente, il regno dell'ambiguità assoluta. Ambiguo è il destinatario, perché la sorella morta, a cui la lettera è rivolta, non potrà mai leggerla, mentre la riceveranno e la giudicheranno degli sconosciuti lettori; ambigue sono le intenzioni, perché il tentativo di riportare in vita la sorella si confonde con il desiderio di farsi perdonare per aver preso il suo posto, in maniera tale da potersi liberare per sempre dall'ossessione di lei; ambiguo è il risultato, perché parlare della sorella diventa inevitabilmente un pretesto per parlare ancora una volta di sé, e per vivere ancora una volta attraverso di lei al suo posto.
 E proprio il tasso inverosimile di ambiguità che questo libro è in grado di sopportare (in fondo la rappresentazione plastica della sospensione del destino dell'uomo tra la vita e la morte) lo rende a mio parere un piccolo capolavoro.

Voto: 8

sabato 1 ottobre 2016

Eraldo Affinati, "L'uomo del futuro", Mondadori


L'uomo del futuro (titolo meraviglioso) non è tanto una biografia di don Milani; è piuttosto una sorta di seduta spiritica con cui si cerca di far rivivere don Milani e di farlo "parlare".
La rievocazione del Priore passa, da una parte, attraverso la visita dei luoghi che furono teatro degli snodi fondamentali della sua esistenza, e dei superstiti fra le persone che gli furono accanto; dall'altra attraverso la ricerca delle "reincarnazioni" - nei contesti e nelle situazioni più disparate e impensabili - del modo di vivere, di insegnare, di imparare che si realizzò negli anni sessanta a Barbiana.
Pur consapevole dell'irripetibilità umana di don Lorenzo, Eraldo Affinati tenta così di intercettare quelle che potremmo chiamare le "onde gravitazionali" scatenatesi al passaggio nel mondo di una delle figure più discusse e ammirate dell'Italia che, trascorsi gli anni dell'immediato dopoguerra, si affacciava alla modernità.
Nel suo peregrinare - reale e ideale - l'autore visita i luoghi che videro Lorenzo Milani giovane, dalle vie di Firenze, a Montespertoli, a Castiglioncello: appartenente a una prestigiosa famiglia dell'alta borghesia, mezzo ebraica (da parte di madre), mezzo cattolica, il ragazzo aveva la possibilità di vedersi schiudere dinanzi qualsiasi tipo di carriera. Visse un'infanzia privilegiata e poi un'adolescenza veramente degna di un giovin signore, al termine della quale, una volta compiuti gli studi liceali, Lorenzo sembrava destinato a diventare un pittore.
Solo a questo punto maturò rapidamente in lui la vocazione religiosa.
Fin dagli anni del seminario (frequentato nel corso della Seconda guerra mondiale, mentre la Penisola era in fiamme) emersero la sua indole indipendente e la sua intelligenza, capace di critiche puntute all'autorità a cui il mondo ecclesiastico preconciliare non era sicuramente abituato. Con ciò, don Milani non uscì mai dal solco dell'ortodossia; il fatto che entrasse spesso in urto con i suoi superiori (che lo punirono a più riprese), e che mettesse in discussione su tutti i fronti l'obbedienza come valore non lo indusse mai a credere di poter fare a meno dall'abito talare.

Eraldo Affinati

Fu profondamente devoto, il che non gli impedì di sviluppare un approccio intrinsecamente giacobino al problema dell'ingiustizia: credeva nella lotta di classe, pensava che ci si dovesse necessariamente schierare e si schierò senza esitazioni dalla parte dei poveri contro l'etica, la mentalità, lo stesso modo di essere dei borghesi, quasi volesse non solo rinnegare, ma addirittura fare a brandelli tutto ciò che era stato da ragazzo.
Il suo radicalismo si espresse concretamente nel sistema pedagogico da lui teorizzato e praticato: concepì la classe come collettivo, con lo scopo di creare un contesto in cui nessuno fosse lasciato indietro; la forza del gruppo permetteva anzi di rivolgere il processo educativo in primo luogo a beneficio dei più deboli. Il tempo pieno costituiva la dimensione naturale di una scuola che, prima di essere un'istituzione, voleva essere una totalizzante esperienza formativa.
Di certo con questa visione - di cui sono stati sottolineati nel tempo pregi e limiti -, ancora oggi, chiunque abbia a che fare con l'insegnamento deve confrontarsi.
Eraldo Affinati, da parte sua, dichiarandosi seguace di don Milani, la fa propria in toto; in questo modo si dispone a raccogliere, nella realtà intorno a sé, le prove che don Milani aveva ragione.
Innanzitutto riconosce qui in Italia i poveri di oggi - quelli per cui don Lorenzo si sarebbe battuto - negli immigrati.
Contemporaneamente, durante i suoi viaggi in molti Paesi del mondo, trova ragazzi a cui solo un approccio come quello di don Milani saprebbe dare dignità e consapevolezza, fornendo loro gli strumenti per strapparsi dalla propria miserevole condizione.
Su un altro piano, individua in diversi contesti geografici e culturali insegnanti che di don Milani sono emuli spesso inconsapevoli, e rappresentano per i loro allievi la sola speranza di poter avere una vita migliore. Succede in Sierra Leone, in Marocco, a Benares, a Pechino, ma anche nelle periferie degradate delle capitali europee, a Berlino per esempio.
Il modo di procedere dell'autore è squisitamente rapsodico, sia nelle concatenazioni narrative che nello stile, graffiante e raffinato, e questo a volte può disorientare il lettore.
L'abbondanza di riferimenti culturali colti non ostacola la preponderante estrinsecazione degli aspetti emotivi del racconto.
Infine, l'impressione vivida che rimane a seguito della lettura è quella di una passione bruciante e contagiosa, che ci si sente in qualche modo chiamati a fare propria.

Chiudo questa recensione con una piccola nota personale: difficilmente dimenticherò questo libro, visto che lo stavo leggendo nei giorni in cui moriva mia madre.

Voto: 7