domenica 25 febbraio 2018

Paolo Maurensig, "Il diavolo nel cassetto", Einaudi


 Possiamo immaginare che questo romanzo breve - il cui momento di inerzia è costituito dal carattere ambiguo del desiderio che quasi ogni scrivente nutre di vedere pubblicati i propri lavori - nasca da due spinte contrastanti: da una parte, la constatazione che, oggi come oggi, la propensione alla scrittura eccede addirittura quella alla lettura. Ogni tanto si ha infatti l'impressione che quelli che scrivono siano paradossalmente più numerosi di quelli che leggono; una tendenza che va di pari passo con la dilagante abitudine di pretendere sempre di esprimere la propria opinione senza sentirsi in obbligo di ascoltare quella degli altri, e che, nell'ambito specifico della scrittura creativa, si può tradurre nella convinzione di avere patenti qualità letterarie senza avere un'idea precisa di cosa sia in effetti la letteratura.
 D'altra parte, la consapevolezza che non esiste una formula univoca da applicare per determinare preliminarmente la riuscita di un testo scritto, e che il sogno legittimo di qualsiasi aspirante scrittore di arrivare al successo editoriale raggiungendo il vasto pubblico può realizzarsi nella maniera più imprevedibile: il romanzo d'esordio di Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, è stato l'unico libro a uscire per i tipi di Adelphi negli ultimi quarant'anni approdando sul tavolo dell'editore senza essere stato presentato da un'agenzia letteraria.
 Tale problematico confronto di istanze antitetiche trova espressione nelle forme di quello che potremmo definire un fantasioso apologo incastonato nella cornice di una situazione del tutto realistica.
 Il narratore immagina infatti di trovarsi nella necessità di liberare una stanza del proprio appartamento in cui, negli anni, si sono accumulati gli innumerevoli manoscritti a lui inviati da aspiranti scrittori in cerca dei suoi consigli o della sua approvazione, magari nella mal dissimulata speranza di essere presentati a un editore. Mentre fa pulizia, gli capita fra le mani una busta ancora sigillata, che giace lì da molto tempo, e che contiene dei fogli dattiloscritti. 
 Aperta la busta e messosi a leggere, il narratore (o meglio, quello che in termini narratologici dovremmo definire "narratore di primo grado") viene catturato dal racconto che quei fogli riportano. Lo scrivente, un certo Friedrich (a tutti gli effetti il "narratore di secondo grado"), ricostruisce ciò che gli accadde nel mese di settembre del 1991 quando, in qualità di consulente di una piccola casa editrice, si era recato a Küsnacht - la cittadina in cui visse e morì Carl Gustav Jung, in Svizzera, sul lago di Zurigo - in occasione di un convegno di psicoanalisi, con l'intenzione di trovare autori per una nuova collana dedicata a questa materia. 
 Lì Friedrich aveva conosciuto un singolare personaggio, un sacerdote esperto di psicoanalisi e inserito fra i relatori del convegno, che alloggiava nella sua stessa pensione. Il sacerdote, padre Cornelius - che, incontrato una prima volta lungo un sentiero in un bosco nei pressi dell'abitato, lo aveva messo in guardia contro il morso delle volpi portatrici della terribile rabbia silvestre -, era stato avvicinato dal giovane editor una sera subito dopo la cena e, davanti a un boccale di birra, gli aveva raccontato una storia affascinate e inquietante insieme, che Friedrich sceglie di riportare integralmente come la ascoltò dalla viva voce del sacerdote (trasformando costui, di fatto, in un "narratore di terzo grado"). 
 Dieci anni prima del loro incontro, nel 1981, padre Cornelius era stato inviato in qualità di viceparroco in un villaggio di poco più di mille anime stretto in una cupa vallata fra le Alpi svizzere. Il villaggio, Dichtersruhe (in tedesco "Il riposo del poeta"), era noto per aver ospitato per un paio di notti Goethe di ritorno dal suo viaggio in Italia, anche se nessuno poteva stabilire con certezza dove Goethe avesse alloggiato.
 Nonostante l'apparente vocazione turistica, il villaggio era così poco accogliente nei confronti di chiunque venisse da fuori che padre Cornelius si era subito trovato in difficoltà nel tentativo di avvicinare i suoi parrocchiani. Sembrava che non ci fosse modo di indurli a considerarlo uno di loro.

Paolo Maurensig

 Solo dopo qualche tempo padre Cornelius aveva notato un particolare che gli aveva fornito la chiave per conquistare il cuore dei cittadini di Dichtersruhe: moltissimi fra i valligiani, indipendentemente dall'età, dalla professione, e dal ceto sociale di appartenenza, scrivevano. Scrivevano, e si recavano all'ufficio postale con le voluminose buste contenenti i loro manoscritti per spedirli a qualcuno dei maggiori editori del Paese, nella speranza di vedere le loro opere trasformate in libri stampati, rilegati, distribuiti e venduti.
 Scriveva l'anziano parroco del villaggio, sempre chiuso nel suo studio profumato di legno di pino; scriveva il borgomastro; scrivevano i gestori delle principali locande del luogo, ciascuna delle quali pretendeva di conservare tracce del passaggio di Goethe; scrivevano gli artigiani, i giardinieri, i camerieri, le casalinghe; scrivevano gli adulti e scrivevano i ragazzi. Sembrava davvero che tutti scrivessero a Dichtersruhe.
 Padre Cornelius aveva allora cominciato a inserire nei suoi sermoni riferimenti letterari, e accenni a quanto fossero nobili e difficili i mestieri del poeta e del narratore; e la chiesa, prima semideserta, in occasione delle funzioni domenicali aveva magicamente cominciato a presentarsi traboccante di fedeli.
 Un giorno, però, preannunciato da una strana epidemia di rabbia silvestre - portata da frotte di volpi che nessuno riusciva a individuare e a catturare, ma che di notte facevano ben sentire i loro tetri guaiti -, era giunto a Dichtersruhe, su una macchina nera con i vetri oscurati condotta da un autista, un misterioso individuo che si faceva chiamare Bernhard Fuchs, e diceva di essere un importante editore di Lucerna. Fuchs si era presentato con un progetto capace di mandare in fibrillazione l'intera cittadinanza: installare nel villaggio alpino, nel nome di Goethe, una filiale della sua prestigiosa casa editrice. 
 Tutti gli aspiranti scrittori di Dichtersruhe, con il parroco e il borgomastro in testa, erano andati in estasi di fronte alla prospettiva di avere a portata di mano colui che avrebbe potuto realizzare i loro sogni segreti. Solo padre Cornelius aveva riconosciuto subito la terribile natura di quel personaggio:  agli occhi del sacerdote, Bernhard Fuchs (in italiano "Bernardo la Volpe"), chiaramente, altri non era che il diavolo in persona, venuto a traviare i suoi fedeli con la più subdola delle tentazioni, capace di titillare quant'altre mai il loro amor proprio e la loro vanità.
 Padre Cornelius, nonostante l'immediata agnizione, non aveva potuto impedire che il sedicente editore si insediasse in un appartamento messo a disposizione dal borgomastro, che destinasse agli uffici della sua filiale due locali concessi dal parroco, e che su sua iniziativa venisse istituito un premio letterario che sembrava fatto apposta per gratificare le più smodate ambizioni degli abitanti di Dichtersruhe.
 Ognuno dei cittadini aveva diligentemente consegnato alla giuria del premio, nella quale lo stesso padre Cornelius era stato incluso, il proprio manoscritto, e si era messo ad attendere il responso degli "esperti" chiamati a leggerlo.
 Sommerso da una massa irriducibile di composizioni per lo più sciatte e illeggibili, padre Cornelius era stato costretto a cominciare a respingere a uno a uno tutti i manoscritti passati in rassegna, scatenando l'odio inestinguibile dei loro autori, e una feroce gelosia collettiva  nei confronti di chi ancora non era stato bocciato dai giudici del concorso.
 Infine, quando la situazione era divenuta ingovernabile, e Bernhard Fuchs si era palesato per un impostore, padre Cornelius si era fatto carico del malcontento generale, si era recato nell'appartamento dell'editore e lo aveva freddato senza pietà con un revolver che qualcuno aveva recapitato al suo indirizzo: quasi che il diabolico piano del demonio contemplasse il proprio omicidio come compimento definitivo del malvagio capolavoro accuratamente architettato. 
 Friedrich, il consulente editoriale che aveva raccolto la testimonianza di padre Cornelius, riprendendo la parola racconta come al termine della serata fosse andato a dormire con l'angoscia nel cuore e, per tutta la notte, fosse stato tormentato dal lamento angoscioso delle volpi. Il giorno dopo, al suo risveglio, aveva scoperto che il sacerdote era scomparso; il corpo senza vita di padre Cornelius sarebbe poi stato ritrovato in fondo a un dirupo con il volto sfigurato, probabilmente proprio dalle volpi, e dopo il ritrovamento sarebbe venuto a galla il suo passato: il suo controverso rapporto con un allievo del seminario in cui aveva insegnato, l'omicidio commesso, e i dieci anni passati in un manicomio criminale dal quale era stato da poco dimesso, solo all'apparenza completamente ristabilito.
 Informazioni apprendendo le quali il lettore è portato a sospettare che il diavolo in persona fosse non Bernhard Fuchs, ma lo stesso padre Cornelius.
 Creando una gustosa, avvincente e articolata allegoria, Paolo Maurensig riflette sullo iato esistente tra i nostri sogni e la realtà e, nel contempo, sull'assurdo moralismo insito nella pretesa di stabilire regole censorie capaci di stigmatizzare quei sogni e di ricondurli entro l'alveo di norme precise e realisticamente fondate. 
 Il risultato ottenuto dallo scrittore goriziano è un racconto lungo che sembra quasi uscito dalla penna di Dino Buzzati.
 Da rimarcare la splendida copertina dell'edizione italiana del testo.

Voto: 6+

domenica 18 febbraio 2018

Andrew Sean Greer, "Less", La nave di Teseo


 Se, fra gli scrittori contemporanei, si volesse stilare una classifica dei virtuosi dell'arte della narrazione, Andrew Sean Greer occuperebbe senza dubbio uno dei primi posti; la sua capacità di agganciare il lettore e di condurlo docilmente attraverso le trame più originali, raffinate, sinuosamente bizzarre, costellate di stupefacenti sorprese ha davvero pochi eguali.
 Facendo un parallelo con i generi tradizionali della cinematografia, il suo ultimo romanzo, Less, si potrebbe collocare nel punto di intersezione tra la commedia sofisticata propriamente detta, la screwball comedy e il dramma sentimentale. Il protagonista che dà nome al libro è Arthur Less, uno scrittore omosessuale che vive con spaesato terrore l'imminenza dei suoi cinquant'anni. Alto, biondo, elegante, di complessione tendenzialmente ectomorfica, Less potrebbe sembrare da lontano un ragazzo soltanto un po' invecchiato, ma l'inesorabile appuntamento con il calendario lo costringe a fare i conti con le delusioni, i rimpianti, i dubbi e le insicurezze della mezza età.
 Nella sua professione, infatti, si è arenato nelle secche di una fastidiosa crisi espressiva: dopo il successo di  Kalipso (una sorta di problematica rivisitazione in chiave gay dell'Odissea, in cui un Ulisse omosessuale - pressato dall'ossessione per i luoghi comuni e da una malintesa coscienza degli obblighi sociali e morali - rinuncia alla felicità finalmente trovata con un uomo su un'isola deserta per intraprendere il viaggio di ritorno verso la normalità della sua vita con Penelope), non riesce a recuperare l'originaria freschezza della sua scrittura, e - ormai relegato nel limbo della semi-celebrità degli autori di seconda schiera - ha visto rifiutato il suo ultimo romanzo dal proprio editore di sempre.
 La sua vita personale, d'altro canto, gli sembra un disastro: dopo una lunga convivenza, iniziata quando aveva poco più di vent'anni, con il grande poeta Robert Brownburn, vate della celebre Russian River School, di vent'anni più vecchio di lui, e dopo un "fidanzamento" di nove anni con Freddy, figlio adottivo del suo rivale di sempre, il muscoloso Carlos Pelu, Arthur è rimasto solo, e si sente sempre più a disagio nel ruolo del single. Per di più ha saputo da poco che Freddy - di cui è ancora segretamente innamorato - sta per sposare un altro uomo.
 E oltre a tutto ciò, non può trovare consolazione neppure nel denaro, o nello status di cui gode. Al di fuori della casa che Robert gli ha lasciato al momento della loro separazione, infatti, si può dire che Arthur Less non abbia un soldo; nonostante la sua bravura come scrittore, fatica a entrare nel canone degli scrittori gay, perché descrive la realtà senza rinchiudersi negli stereotipi delle proprie preferenze sessuali; e l'ambiguo prestigio di cui gode deriva in gran parte dall'essere stato al fianco di una stella di prima grandezza come Robert Brownburn, e dall'aver avuto così l'opportunità di fare esperienza da testimone privilegiato dell'epoca d'oro della Russian River School.

 
 Andrew Sean Greer

 E' per cercare di sfuggire al disagio che questo complesso di problemi gli provoca (e soprattutto per rimuovere il pensiero dell'avvicinarsi del suo cinquantesimo compleanno e del matrimonio di Freddy) che Less - sfruttando la fortunata circostanza di una serie di inviti in successione da parte di editori, istituzioni culturali e scolastiche, e organizzatori di premi letterari - riesce a imbastire un viaggio che lo terrà per mesi lontano dagli Stati Uniti e dalla sua casa di San Francisco: un vero e proprio giro del mondo che, partendo da New York (dove, vestito da cosmonauta, è chiamato a intervistare un eccentrico autore di best sellers), lo porterà in Messico (per un festival sull'epopea avanguardistica della Russian River School), in Italia (per ritirare un premio vinto dalla versione italiana di un suo vecchio romanzo), in Germania (per una serie di lezioni universitarie), in Francia (per un disguido nella prenotazione del suo volo aereo), in Marocco (per un’escursione attraverso l'Atlante e il deserto del Sahara, nella speranza che il suo cinquantesimo anno non riesca a raggiungerlo), in India (per la revisione del suo ultimo libro, in un'atmosfera "spiritualista" che dovrebbe favorire la concentrazione, ma che in realtà riesce solo esasperante) e in Giappone (per una serie di articoli sulla tradizionale cucina kaiseki commissionati da una rivista specializzata).
 Durante il viaggio Arthur Less avrà modo di vivere le avventure più strane e di mostrarsi via via goffo, smarrito, inadeguato, spregiudicato, malinconico, innamorato, ingenuo, indulgente, altruista; tutti aspetti di quella che è la caratteristica principale della sua personalità, ovvero il candore.
 Ed è proprio intorno al candore del suo personaggio, alla finezza fuori dal comune con cui viene tracciata la sua figura, che si sviluppa in tutta la sua originalità lo spin narrativo di questo libro.
 Con candore, in Messico, Arthur si espone alle bizzarrie degli organizzatori del festival letterario e al rischio di incontrare dopo trent'anni Marion, l'ex moglie di Robert Brownburn.
 Con candore, in Italia, Arthur riconosce che il merito della vittoria del premio che viene chiamato a ritirare è, più che sua, della geniale traduttrice del suo libro.
 Con candore, in Germania, finisce nelle braccia di un giovane amante che gli rivela di vedere in lui una sorta di eterno Peter Pan.
 Con candore, in Marocco, si illude di sfuggire all'ombra dei suoi cinquant'anni perdendosi nel deserto.
 Con candore, in India, arriva a pensare di poter dimenticare il matrimonio di Freddy dedicandosi alla revisione del suo romanzo chiuso in una sorta di eremo, dove però concentrarsi è molto più difficile di quanto avesse creduto.
 Con candore, in Giappone, prova a ritrovare nelle forme perfette di un antico giardino la purezza delle sensazioni provate da bambino di fronte a una miniatura, in occasione di una mostra dedicata negli Stati Uniti al Paese del Sol levante.
 Con candore, forte della consapevolezza dell'onestà dei propri sentimenti, Less trova infine il coraggio di mettersi sulla via di casa dopo il lungo viaggio che doveva tenere lontane le sue paure ed è servito piuttosto a dargli il tempo di catalogarle e di attraversarle una a una.
 La sorpresa finale, che non manca mai nei romanzi di Andrew Sean Greer, è in questo caso meta-diegetica: il narratore di questo strambo viaggio - e improvvisato agiografo della singolare figura di Arthur Less - si rivela essere proprio quel Freddy Pelu dal cui matrimonio Arthur tentava di tenersi lontano nel timore di rimanerne sconvolto. Freddy, che resosi conto di essere anch'egli ancora innamorato di Less abbandona il suo neosposo Tom subito dopo le nozze, e si prepara ad attendere Arthur sulla porta di casa sua, di ritorno dal suo giro del mondo con tutto il suo candore e la goffaggine di sempre.
 Greer mostra con questo libro come si può costruire un romanzo di assoluta levità e dalla squisita capacità di fascinazione senza diventare leziosi. Personalmente trovo forse Less meno geniale di Le confessioni di Max Tivoli e di La storia di un matrimonio, ma bisogna riconoscere che si tratta di un lavoro assolutamente brillante.

Voto: 7  

sabato 10 febbraio 2018

André Chamson, "Il delitto dei giusti", Marcos y Marcos


 In prossimità delle elezioni, in piena campagna elettorale, con tutte le innaturali e francamente ridicole forzature a cui porta la necessità dei politici di autopromuoversi affermando, ciascuno a suo modo, una pretesa superiorità morale rispetto agli avversari, mi è tornato in mente questo vecchio libro di André Chamson riproposto pochi anni fa da Marcos y Marcos.
 Gli Arnal della fattoria del Maubert sono stimatissimi da generazioni nella vallata fra le montagne dove vivono. Considerati un esempio di rettitudine ed equilibrio, incarnano per tutta la comunità locale il senso stesso della giustizia; il loro capofamiglia è tradizionalmente un punto di riferimento per i contadini e i pastori, e prima di affrontare una questione delicata - pubblica o privata - si chiede sempre il suo parere. Rieletto da decenni in Consiglio comunale, conta più del Sindaco stesso, e per tutti è ormai diventato “il Consigliere” per antonomasia.
 Quando però al Maubert capita che le ragioni dell’istinto prevalgano sul senso del dovere e della dignità familiare, e il giovane Maurice si macchia di una colpa che potrebbe gettare il disonore su tutti gli Arnal e offuscare la loro fama di irreprensibilità per gli anni a venire, anche la comprovata incorruttibilità del Consigliere viene meno.
 L’orrendo delitto che ne deriva costituirà l’inizio della fine per la grandezza degli Arnal.

André Chamson

 Chamson scrive un romanzo scabro ed essenziale, nel quale però riesce a delineare con assoluta potenza questioni fondamentali: qual è il momento a partire dal quale una morale troppo rigida diventa puro dogmatismo, e dunque mero paravento per un ottuso perbenismo? Siamo sicuri che un sano relativismo etico non costituisca l’approccio migliore per affrontare i delicati problemi riguardanti il rapporto tra l’emotività individuale, il senso comune e la morale collettiva? Come deve intendersi al cospetto della società la nozione di “dignità morale” per non diventare un'istanza ipocrita che impedisce di mettere in relazione in maniera diretta e trasparente etica e libertà?
 A dare forza a questo impianto tematico di profondo interesse c'è la notevole sapienza letteraria con cui è scritta quest’opera, pubblicata per la prima volta nel 1928 (con il titolo Le Crime des Justes), la cui più grande virtù - ciò che la rende rara - è la capacità di conciliare una concisione stilistica tipicamente novecentesca con un respiro narrativo ancora ottocentesco. L'effetto è semplicemente elettrizzante.

Voto: 7 

sabato 3 febbraio 2018

Hisham Matar, "Il ritorno", Einaudi


 Libro Premio Pulitzer per l'autobiografia nel 2017, Il ritorno (The Return. Fathers, sons and the land in between), in realtà, è qualcosa di più e qualcosa di meno di un'autobiografia come siamo abituati a intenderla. Assolutamente autobiografica è la sostanza dei fatti raccontati e la pervasività del punto di vista dell'autore, della sensibilità derivante dal suo particolarissimo, terribile vissuto; ma il racconto si risolve, più che nell'esplorazione di tutti i lati di una personalità umana - plasmata dalla sua complessa e irripetibile esperienza della vita -, nella proiezione di quel vissuto sulla storia recente e meno recente della terra e della nazione a cui l'autore sente di appartenere, così da diventare, nella sua tragicità, rappresentazione di qualcos'altro: l'aporia sentimentale di un uomo che sente la necessità imprescindibile di recuperare le proprie radici, e insieme l'impossibilità di ricostruire fino in fondo un legame con esse.
 La vicenda narrata da Hisham Matar, scrittore britannico di origine libica, è quella del rapimento del padre ad opera dei Servizi segreti egiziani, nel 1990, del suo trasferimento a Tripoli nelle carceri in cui venivano rinchiusi gli oppositori del regime di Gheddafi, della sua successiva scomparsa, e della lunga storia della ricerca della verità sulla sua sorte da parte del figlio, fino alla caduta del tiranno nel 2011, e anche oltre.
 Quando Gheddafi prese il potere con un colpo di Stato nel 1969, Jaballa Matar - figlio di un eroe della lotta di liberazione contro l'occupazione italiana del Paese - era un giovane ufficiale dell'esercito libico di stanza presso la rappresentanza diplomatica del Governo di re Idris a Londra. Come tutti gli appartenenti agli alti gradi militari espressione del passato regime, al suo rientro in patria fu immediatamente incarcerato; di lì a pochi mesi, tuttavia, ne fu disposto il rilascio e il reintegro nella nuova nomenklatura insieme alla maggior parte degli ufficiali che erano stati fedeli al Governo di Idris, tendenzialmente filo-occidentale. L'operazione aveva lo scopo di tentare di spegnere in maniera incruenta l'ostilità ai golpisti di larghi strati della borghesia autoctona e di interi settori dell'esercito, e di riconquistare la fiducia della comunità internazionale.
 Jaballa fu inviato a New York in qualità di primo segretario della nuova delegazione libica presso le Nazioni Uniti, e proprio negli Stati Uniti nacque il suo secondogenito Hisham. In questa fase, il padre dell'autore coltivò la speranza che dalla politica panaraba perseguita da Gheddafi potesse venire qualcosa di buono per il proprio Paese; tale illusione, però, fu presto spenta dalla ferocia con cui il tiranno e i suoi sostenitori, una volta consolidato il proprio potere, presero a reprimere ogni forma di dissenso, a tacitare ogni voce critica nei confronti della dittatura. 
 A partire dalla metà degli anni settanta, gli oppositori cominciarono a essere impiccati nelle piazze e negli stadi: nell'aprile del 1976, a Bengasi, due studenti colpevoli di aver voluto fondare un sindacato alternativo a quello "ufficiale" furono messi a morte senza processo di fronte all'ingresso dell'Università, e il traffico cittadino fu deviato affinché tutti potessero vedere quale sorte attendeva chi osasse contestare pubblicamente il regime; da quella data - e per tutti gli anni ottanta - la persecuzione degli avversari di Muammar Gheddafi divenne sempre più violenta e spietata.
 Dal momento in cui Gheddafi gettò la maschera, la presa di distanza di Jaballa Matar dalle posizioni del potere costituito si fece via via più netta: dapprima Jaballa rinunciò a ogni incarico ufficiale, trasformandosi - grazie anche alle relazioni internazionali intrecciate mentre svolgeva le proprie funzioni di diplomatico - in un brillante imprenditore (accumulò una vera fortuna importando in tutto il Nord Africa una grande varietà di prodotti, dai veicoli a motore alle scarpe); poi, quando la situazione in Libia si fece insostenibile, si trasferì con la famiglia in Egitto.

 Hisham Matar

 Dal 1979 la famiglia Matar visse al Cairo, Hisham e suo fratello maggiore Ziad studiarono in Gran Bretagna, e Jaballa si mise a raccogliere fondi per organizzare un'opposizione armata capace, in prospettiva, di rovesciare Gheddafi istituendo in Libia un regime democratico. Negli anni ottanta, in Ciad, oltre il confine libico, per iniziativa del padre dell'autore sorsero addirittura dei campi di addestramento per i guerriglieri che avrebbero dovuto marciare su Tripoli.
 Naturalmente tutto questo espose Jaballa stesso e tutti i suoi famigliari a rischi notevoli; Ziad, in un'occasione, sfuggì per un soffio a un tentativo di sequestro in terra britannica. 
 E quando l'appoggio egiziano venne a mancare, Jaballa fu perduto: rapito dai Servizi segreti del Paese che lo ospitava, nel 1990 fu trasferito con un volo speciale a Tripoli, mentre in patria venivano fermati e condotti in carcere tutti i suoi collaboratori e i suoi parenti più stretti. Interrogato sotto tortura, Jaballa venne poi rinchiuso nella terribile prigione di Abu Salim, concepita per custodire i detenuti politici. Sue notizie arrivarono clandestinamente alla famiglia (con grave rischio di chiunque se ne facesse latore) fino al 1996; poi più nulla, solo il silenzio.
 Hisham divenne adulto prima con la consapevolezza che suo padre era imprigionato in condizioni orrende in un luogo che veniva descritto come un inferno; e poi con l'angoscia derivante dalla mancanza assoluta di certezze sulla sorte del genitore. Per quindici anni, tenendo vivo l'ingannevole fuoco della speranza, andò in cerca di informazioni ovunque potesse trovarne; e quando riuscì a diventare uno scrittore di successo, sfruttò la propria notorietà per organizzare una pressante campagna d'opinione capace di costringere il Governo laburista inglese - che faceva tranquillamente ottimi affari col regime di Tripoli - a interessarsi alla sorte di Jaballa. Il caso arrivò in Parlamento, Hisham venne ricevuto da David Milliband, e poi addirittura contattato da Saif al Islam, il figlio prediletto e l'erede designato di Muammar Gheddafi. Ma nulla di tutto questo servì a svelare che fine avesse fatto Jaballa.
 Né si ebbero maggiori certezze dopo l'inizio delle Primavere arabe, lo scoppio della rivoluzione in Libia, il rovesciamento e il linciaggio di Gheddafi, l'apertura delle carceri, la liberazione dei prigionieri politici: la sorte del padre di Hisham è rimasta misteriosa anche dopo il ritorno di quest'ultimo in patria, nel 2012, durante il breve, felice periodo intercorso tra la caduta del regime e lo scoppio della guerra civile. 
 Sulla base delle informazioni raccolte, tuttavia, appare del tutto verosimile che Jaballa Matar sia stato ucciso insieme ad altri 1300 prigionieri durante l'inimmaginabile bagno di sangue seguito a una rivolta scoppiata nel carcere di Abu Salim nel 1996.
 Il pregio maggiore di questo libro è l'impressione di freschezza e sincerità dovuta all'attitudine introspettiva e alla chiave personale con la quale si descrivono fatti di rilevanza storica: passando attraverso il filtro della coscienza, ciò che è privato assume valenza pubblica, e ciò che è pubblico acquista valore e importanza rispetto alla vita privata del narratore. 
 Si può guardare con perplessità alla parabola politica di Jaballa, e possono apparire non entusiasmanti lo stile di Hisham Matar, il suo modo di organizzare il racconto, la sua ricerca del glamour diegetico, alcuni dei concetti stessi che egli esprime; ma è impossibile non riconoscergli l'onestà con cui viene resa sulla pagina l'angosciosa tempesta di sentimenti che prova un figlio sovrastato dall'ombra di un genitore ingombrante scomparso nel nulla, che egli si è costretto a lungo a credere vivo contro ogni pronostico, e del quale al contrario si è infine rassegnato ad accettare la morte più che probabile; una morte violenta, consumata forse fra atroci sofferenze, e subita - e quasi cercata - in nome del proprio affetto per una patria tormentata e derelitta. Una patria che ancora oggi non è riuscita a trovare pace; una patria amata e rimpianta anche da Hisham medesimo, ma, in fondo, difficile per lui da riconoscere in tutto e per tutto come la propria casa.
 Il nodo emotivo la cui resa letteraria dà particolare consistenza alla narrazione viene dunque dalla sovrapposizione e dall'intreccio tra il tentativo alla fine parzialmente frustrato di conoscere con incontrovertibile certezza la verità sulla sorte di un padre, e la ricerca solo parzialmente compiuta delle proprie radici nella terra d'origine. Un nodo che né le visite a parenti e amici non più rivisti da anni, né l'ascolto delle testimonianze di chi condivise con il padre la prigionia, né il ritorno nei luoghi dell'infanzia e nella culla dei propri antenati riescono del tutto a sciogliere.
 Il ritorno non è forse un libro folgorante, o capace di conquistare completamente il lettore fino a "salargli il sangue"; però è di certo un libro autentico, intenso e particolare, e per questo merita che se ne consigli la lettura.

Voto: 6,5