sabato 3 febbraio 2018

Hisham Matar, "Il ritorno", Einaudi


 Libro Premio Pulitzer per l'autobiografia nel 2017, Il ritorno (The Return. Fathers, sons and the land in between), in realtà, è qualcosa di più e qualcosa di meno di un'autobiografia come siamo abituati a intenderla. Assolutamente autobiografica è la sostanza dei fatti raccontati e la pervasività del punto di vista dell'autore, della sensibilità derivante dal suo particolarissimo, terribile vissuto; ma il racconto si risolve, più che nell'esplorazione di tutti i lati di una personalità umana - plasmata dalla sua complessa e irripetibile esperienza della vita -, nella proiezione di quel vissuto sulla storia recente e meno recente della terra e della nazione a cui l'autore sente di appartenere, così da diventare, nella sua tragicità, rappresentazione di qualcos'altro: l'aporia sentimentale di un uomo che sente la necessità imprescindibile di recuperare le proprie radici, e insieme l'impossibilità di ricostruire fino in fondo un legame con esse.
 La vicenda narrata da Hisham Matar, scrittore britannico di origine libica, è quella del rapimento del padre ad opera dei Servizi segreti egiziani, nel 1990, del suo trasferimento a Tripoli nelle carceri in cui venivano rinchiusi gli oppositori del regime di Gheddafi, della sua successiva scomparsa, e della lunga storia della ricerca della verità sulla sua sorte da parte del figlio, fino alla caduta del tiranno nel 2011, e anche oltre.
 Quando Gheddafi prese il potere con un colpo di Stato nel 1969, Jaballa Matar - figlio di un eroe della lotta di liberazione contro l'occupazione italiana del Paese - era un giovane ufficiale dell'esercito libico di stanza presso la rappresentanza diplomatica del Governo di re Idris a Londra. Come tutti gli appartenenti agli alti gradi militari espressione del passato regime, al suo rientro in patria fu immediatamente incarcerato; di lì a pochi mesi, tuttavia, ne fu disposto il rilascio e il reintegro nella nuova nomenklatura insieme alla maggior parte degli ufficiali che erano stati fedeli al Governo di Idris, tendenzialmente filo-occidentale. L'operazione aveva lo scopo di tentare di spegnere in maniera incruenta l'ostilità ai golpisti di larghi strati della borghesia autoctona e di interi settori dell'esercito, e di riconquistare la fiducia della comunità internazionale.
 Jaballa fu inviato a New York in qualità di primo segretario della nuova delegazione libica presso le Nazioni Uniti, e proprio negli Stati Uniti nacque il suo secondogenito Hisham. In questa fase, il padre dell'autore coltivò la speranza che dalla politica panaraba perseguita da Gheddafi potesse venire qualcosa di buono per il proprio Paese; tale illusione, però, fu presto spenta dalla ferocia con cui il tiranno e i suoi sostenitori, una volta consolidato il proprio potere, presero a reprimere ogni forma di dissenso, a tacitare ogni voce critica nei confronti della dittatura. 
 A partire dalla metà degli anni settanta, gli oppositori cominciarono a essere impiccati nelle piazze e negli stadi: nell'aprile del 1976, a Bengasi, due studenti colpevoli di aver voluto fondare un sindacato alternativo a quello "ufficiale" furono messi a morte senza processo di fronte all'ingresso dell'Università, e il traffico cittadino fu deviato affinché tutti potessero vedere quale sorte attendeva chi osasse contestare pubblicamente il regime; da quella data - e per tutti gli anni ottanta - la persecuzione degli avversari di Muammar Gheddafi divenne sempre più violenta e spietata.
 Dal momento in cui Gheddafi gettò la maschera, la presa di distanza di Jaballa Matar dalle posizioni del potere costituito si fece via via più netta: dapprima Jaballa rinunciò a ogni incarico ufficiale, trasformandosi - grazie anche alle relazioni internazionali intrecciate mentre svolgeva le proprie funzioni di diplomatico - in un brillante imprenditore (accumulò una vera fortuna importando in tutto il Nord Africa una grande varietà di prodotti, dai veicoli a motore alle scarpe); poi, quando la situazione in Libia si fece insostenibile, si trasferì con la famiglia in Egitto.

 Hisham Matar

 Dal 1979 la famiglia Matar visse al Cairo, Hisham e suo fratello maggiore Ziad studiarono in Gran Bretagna, e Jaballa si mise a raccogliere fondi per organizzare un'opposizione armata capace, in prospettiva, di rovesciare Gheddafi istituendo in Libia un regime democratico. Negli anni ottanta, in Ciad, oltre il confine libico, per iniziativa del padre dell'autore sorsero addirittura dei campi di addestramento per i guerriglieri che avrebbero dovuto marciare su Tripoli.
 Naturalmente tutto questo espose Jaballa stesso e tutti i suoi famigliari a rischi notevoli; Ziad, in un'occasione, sfuggì per un soffio a un tentativo di sequestro in terra britannica. 
 E quando l'appoggio egiziano venne a mancare, Jaballa fu perduto: rapito dai Servizi segreti del Paese che lo ospitava, nel 1990 fu trasferito con un volo speciale a Tripoli, mentre in patria venivano fermati e condotti in carcere tutti i suoi collaboratori e i suoi parenti più stretti. Interrogato sotto tortura, Jaballa venne poi rinchiuso nella terribile prigione di Abu Salim, concepita per custodire i detenuti politici. Sue notizie arrivarono clandestinamente alla famiglia (con grave rischio di chiunque se ne facesse latore) fino al 1996; poi più nulla, solo il silenzio.
 Hisham divenne adulto prima con la consapevolezza che suo padre era imprigionato in condizioni orrende in un luogo che veniva descritto come un inferno; e poi con l'angoscia derivante dalla mancanza assoluta di certezze sulla sorte del genitore. Per quindici anni, tenendo vivo l'ingannevole fuoco della speranza, andò in cerca di informazioni ovunque potesse trovarne; e quando riuscì a diventare uno scrittore di successo, sfruttò la propria notorietà per organizzare una pressante campagna d'opinione capace di costringere il Governo laburista inglese - che faceva tranquillamente ottimi affari col regime di Tripoli - a interessarsi alla sorte di Jaballa. Il caso arrivò in Parlamento, Hisham venne ricevuto da David Milliband, e poi addirittura contattato da Saif al Islam, il figlio prediletto e l'erede designato di Muammar Gheddafi. Ma nulla di tutto questo servì a svelare che fine avesse fatto Jaballa.
 Né si ebbero maggiori certezze dopo l'inizio delle Primavere arabe, lo scoppio della rivoluzione in Libia, il rovesciamento e il linciaggio di Gheddafi, l'apertura delle carceri, la liberazione dei prigionieri politici: la sorte del padre di Hisham è rimasta misteriosa anche dopo il ritorno di quest'ultimo in patria, nel 2012, durante il breve, felice periodo intercorso tra la caduta del regime e lo scoppio della guerra civile. 
 Sulla base delle informazioni raccolte, tuttavia, appare del tutto verosimile che Jaballa Matar sia stato ucciso insieme ad altri 1300 prigionieri durante l'inimmaginabile bagno di sangue seguito a una rivolta scoppiata nel carcere di Abu Salim nel 1996.
 Il pregio maggiore di questo libro è l'impressione di freschezza e sincerità dovuta all'attitudine introspettiva e alla chiave personale con la quale si descrivono fatti di rilevanza storica: passando attraverso il filtro della coscienza, ciò che è privato assume valenza pubblica, e ciò che è pubblico acquista valore e importanza rispetto alla vita privata del narratore. 
 Si può guardare con perplessità alla parabola politica di Jaballa, e possono apparire non entusiasmanti lo stile di Hisham Matar, il suo modo di organizzare il racconto, la sua ricerca del glamour diegetico, alcuni dei concetti stessi che egli esprime; ma è impossibile non riconoscergli l'onestà con cui viene resa sulla pagina l'angosciosa tempesta di sentimenti che prova un figlio sovrastato dall'ombra di un genitore ingombrante scomparso nel nulla, che egli si è costretto a lungo a credere vivo contro ogni pronostico, e del quale al contrario si è infine rassegnato ad accettare la morte più che probabile; una morte violenta, consumata forse fra atroci sofferenze, e subita - e quasi cercata - in nome del proprio affetto per una patria tormentata e derelitta. Una patria che ancora oggi non è riuscita a trovare pace; una patria amata e rimpianta anche da Hisham medesimo, ma, in fondo, difficile per lui da riconoscere in tutto e per tutto come la propria casa.
 Il nodo emotivo la cui resa letteraria dà particolare consistenza alla narrazione viene dunque dalla sovrapposizione e dall'intreccio tra il tentativo alla fine parzialmente frustrato di conoscere con incontrovertibile certezza la verità sulla sorte di un padre, e la ricerca solo parzialmente compiuta delle proprie radici nella terra d'origine. Un nodo che né le visite a parenti e amici non più rivisti da anni, né l'ascolto delle testimonianze di chi condivise con il padre la prigionia, né il ritorno nei luoghi dell'infanzia e nella culla dei propri antenati riescono del tutto a sciogliere.
 Il ritorno non è forse un libro folgorante, o capace di conquistare completamente il lettore fino a "salargli il sangue"; però è di certo un libro autentico, intenso e particolare, e per questo merita che se ne consigli la lettura.

Voto: 6,5

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