Romanzo a cui è difficile affezionarsi per la frivolezza di
uno stile molto manierato − impostato su una lingua falsamente mimetica della
colloquialità corrente (una sorta di corrispettivo letterario della pittura dei
bamboccianti) −, per il carattere più svagato che divagante della narrazione e
per un certo diffuso solipsismo.
Detto questo, non mancano gli spunti interessanti. Maggiani
parte dall’esplorazione delle proprie fondamenta famigliari – le figure di suo
padre e di sua madre –, divenuta urgente al momento della morte dei genitori, per
trovare il giusto abbrivio onde realizzare il progetto che proprio quei lutti
irreparabili hanno messo in forse: raccontare il “romanzo della nazione”.
Raccontare il romanzo della nazione, per uno scrittore di
ispirazione squisitamente anarchica come Maggiani, significa cogliere la
scintilla emotiva e i riferimenti simbolici attraverso i quali le generazioni
che ci hanno preceduto hanno sviluppato con naturalezza il proprio senso di
appartenenza a un gruppo umano accomunato da uno stesso destino, e hanno
lasciato questo bagaglio sentimentale in eredità ai loro discendenti.
È chiaro che un compito tanto arduo non può che richiedere un
approccio fondamentalmente asistematico e campionario. Così, il disordinato
resoconto della malattia e della morte del padre e della madre si trasforma per
Maggiani nell’occasione per riportare alla luce ricordi a cui si legano, in
inattesa concatenazione, personaggi e concetti che affondano le loro radici
proprio nell’epoca in cui l’Italia si fece nazione.
Entrando in cortocircuito con quei ricordi e quelle
concatenazioni, la chiave per accedere al cuore del “problema della nazione”
finisce per essere un lacerto narrativo di carattere onirico e metaforico − una
sorta di capriccio della fantasia − che galleggia da tempo nella mente
dell’autore: un’archeologa (che ha le sembianze della figlia di un amico di Maggiani),
impegnata negli scavi del porto sepolto di Magdala, veglia in un ospedale israeliano
il suo uomo ferito e piantonato da due soldati in divisa.
Il porto di Magdala, infatti, riporta automaticamente alla memoria il
Regio Arsenale Militare di La Spezia (la città natale di Maggiani), voluto in
prima persona da Camillo Benso conte di Cavour ancora prima che l’Italia fosse
tale; e il lavoro dell’archeologa ispira quello dello scrittore, che si fa
archeologo di sentimenti.
I sentimenti sono quelli delle genti di varia provenienza che
si riunirono richiamate dal lavoro o dal caso presso l’Arsenale, e nella
costruzione della corazzata Dandolo (la più potente nave da guerra di allora)
scoprirono l’orgoglio dell’ideale appartenenza a una medesima collettività: si
fecero, per l’appunto, nazione.
Una curiosa immagine di Maurizio Maggiani
In quello straordinario crogiolo che raccoglieva semplici
operai e professionisti di altissimo profilo, dissidenti politici e soldati,
banditi in contumacia ed ergastolani in cerca di riscatto (con dieci anni di
lavori forzati si poteva ottenere l’estinzione della pena), funzionari dei
Savoia e ingegneri napoletani già al servizio dei Borboni nacque realmente un
amalgama nuovo, una sorta di ipostasi ideale di un concetto originale di nazione, estraneo alla retorica ottocentesca della Lingua, del Sangue e del Suolo, e
configuratosi invece come realizzazione di un’utopia culturale.
Un’utopia alla cui ombra potevano vivere le personalità più
diverse, figure note e meno note di quell’epoca straordinaria della storia
d’Italia e d’Europa: uomini come Francesco Zannoni, mazziniano irriducibile e
inventore dei moderni stabilimenti balneari; Felice Orsini, l’attentatore di
Napoleone III; o Cristoforo Bezzi da Como, il ralmigatore (vale a dire colui
che cuce gli orli alle vele) più capace del Regno, approdato nel Golfo dopo una
vita oltremodo avventurosa che lo aveva visto prima giovane tamburino a fianco
di Napoleone Bonaparte all’Elba, poi stimato artigiano ricercato in tutti i porti
del Mediterraneo, da Malta, a Tunisi, ad Alessandria d’Egitto, e successivamente
fiero garibaldino, che scelse di restare col Generale dopo il fallimento delle
Rivoluzioni del ’48-’49, tanto da seguirlo fino in America, a New York, dove
l’eroe dei due mondi lavorò nella fabbrica di candele di Meucci, e Bezzi
esercitò la sua marinaresca professione a Coney Island.
O ancora, donne come Carmela Chiribiri di Venezia, giunta
giovanissima a La Spezia in qualità di ricamatrice e diventata, chissà come,
“conduttrice di macchine”, poi eroicamente messasi a disposizione dei suoi nuovi
concittadini durante l’infuriare del colera.
A volte i protagonisti della vita dell’Arsenale incarnarono
alla lettera l’idea della metamorfosi profonda da cui la nuova Italia nacque:
si prenda Francesco Giuseppe Avignone, ex allievo ufficiale alla Nunziatella,
degradato a sottufficiale del Regio Esercito in cui fu integrato dopo la
conquista piemontese, diventato inventore di un'arma rivoluzionaria, il siluro, eppure mai gratificato
col ritorno al grado originario; oppure Onelio Farnocchia di Livorno,
ergastolano dapprima trasportato all’Arsenale in catene, riscattatosi e
divenuto poi uno degli operai più stimati e ricercati di La Spezia.
E in definitiva, nella storia di tutti costoro prende forma quello che è senz'altro l'elemento più affascinante di questo libro: l'idea che la nazione sia sempre e comunque una categoria dello spirito e mai una condizione oggettiva che sovrasta e predetermina gli individui. Se tutti la intendessero così, quanti guai ci risparmieremmo?
Voto: 5,5
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