giovedì 17 settembre 2015

Maurizio Maggiani, "Il Romanzo della Nazione", Feltrinelli


 Romanzo a cui è difficile affezionarsi per la frivolezza di uno stile molto manierato − impostato su una lingua falsamente mimetica della colloquialità corrente (una sorta di corrispettivo letterario della pittura dei bamboccianti) −, per il carattere più svagato che divagante della narrazione e per un certo diffuso solipsismo.
 Detto questo, non mancano gli spunti interessanti. Maggiani parte dall’esplorazione delle proprie fondamenta famigliari – le figure di suo padre e di sua madre –, divenuta urgente al momento della morte dei genitori, per trovare il giusto abbrivio onde realizzare il progetto che proprio quei lutti irreparabili hanno messo in forse: raccontare il “romanzo della nazione”.
 Raccontare il romanzo della nazione, per uno scrittore di ispirazione squisitamente anarchica come Maggiani, significa cogliere la scintilla emotiva e i riferimenti simbolici attraverso i quali le generazioni che ci hanno preceduto hanno sviluppato con naturalezza il proprio senso di appartenenza a un gruppo umano accomunato da uno stesso destino, e hanno lasciato questo bagaglio sentimentale in eredità ai loro discendenti.
 È chiaro che un compito tanto arduo non può che richiedere un approccio fondamentalmente asistematico e campionario. Così, il disordinato resoconto della malattia e della morte del padre e della madre si trasforma per Maggiani nell’occasione per riportare alla luce ricordi a cui si legano, in inattesa concatenazione, personaggi e concetti che affondano le loro radici proprio nell’epoca in cui l’Italia si fece nazione.
 Entrando in cortocircuito con quei ricordi e quelle concatenazioni, la chiave per accedere al cuore del “problema della nazione” finisce per essere un lacerto narrativo di carattere onirico e metaforico − una sorta di capriccio della fantasia − che galleggia da tempo nella mente dell’autore: un’archeologa (che ha le sembianze della figlia di un amico di Maggiani), impegnata negli scavi del porto sepolto di Magdala, veglia in un ospedale israeliano il suo uomo ferito e piantonato da due soldati in divisa.
 Il porto di Magdala, infatti, riporta automaticamente alla memoria il Regio Arsenale Militare di La Spezia (la città natale di Maggiani), voluto in prima persona da Camillo Benso conte di Cavour ancora prima che l’Italia fosse tale; e il lavoro dell’archeologa ispira quello dello scrittore, che si fa archeologo di sentimenti.  
 I sentimenti sono quelli delle genti di varia provenienza che si riunirono richiamate dal lavoro o dal caso presso l’Arsenale, e nella costruzione della corazzata Dandolo (la più potente nave da guerra di allora) scoprirono l’orgoglio dell’ideale appartenenza a una medesima collettività: si fecero, per l’appunto, nazione.

Una curiosa immagine di Maurizio Maggiani

 In quello straordinario crogiolo che raccoglieva semplici operai e professionisti di altissimo profilo, dissidenti politici e soldati, banditi in contumacia ed ergastolani in cerca di riscatto (con dieci anni di lavori forzati si poteva ottenere l’estinzione della pena), funzionari dei Savoia e ingegneri napoletani già al servizio dei Borboni nacque realmente un amalgama nuovo, una sorta di ipostasi ideale di un concetto originale di nazione, estraneo alla retorica ottocentesca della Lingua, del Sangue e del Suolo, e configuratosi invece come realizzazione di un’utopia culturale.
 Un’utopia alla cui ombra potevano vivere le personalità più diverse, figure note e meno note di quell’epoca straordinaria della storia d’Italia e d’Europa: uomini come Francesco Zannoni, mazziniano irriducibile e inventore dei moderni stabilimenti balneari; Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III; o Cristoforo Bezzi da Como, il ralmigatore (vale a dire colui che cuce gli orli alle vele) più capace del Regno, approdato nel Golfo dopo una vita oltremodo avventurosa che lo aveva visto prima giovane tamburino a fianco di Napoleone Bonaparte all’Elba, poi stimato artigiano ricercato in tutti i porti del Mediterraneo, da Malta, a Tunisi, ad Alessandria d’Egitto, e successivamente fiero garibaldino, che scelse di restare col Generale dopo il fallimento delle Rivoluzioni del ’48-’49, tanto da seguirlo fino in America, a New York, dove l’eroe dei due mondi lavorò nella fabbrica di candele di Meucci, e Bezzi esercitò la sua marinaresca professione a Coney Island.
 O ancora, donne come Carmela Chiribiri di Venezia, giunta giovanissima a La Spezia in qualità di ricamatrice e diventata, chissà come, “conduttrice di macchine”, poi eroicamente messasi a disposizione dei suoi nuovi concittadini durante l’infuriare del colera.
 A volte i protagonisti della vita dell’Arsenale incarnarono alla lettera l’idea della metamorfosi profonda da cui la nuova Italia nacque: si prenda Francesco Giuseppe Avignone, ex allievo ufficiale alla Nunziatella, degradato a sottufficiale del Regio Esercito in cui fu integrato dopo la conquista piemontese, diventato inventore di un'arma rivoluzionaria, il siluro, eppure mai gratificato col ritorno al grado originario; oppure Onelio Farnocchia di Livorno, ergastolano dapprima trasportato all’Arsenale in catene, riscattatosi e divenuto poi uno degli operai più stimati e ricercati di La Spezia.
 E in definitiva, nella storia di tutti costoro prende forma quello che è senz'altro l'elemento più affascinante di questo libro: l'idea che la nazione sia sempre e comunque una categoria dello spirito e mai una condizione oggettiva che sovrasta e predetermina gli individui. Se tutti la intendessero così, quanti guai ci risparmieremmo?

Voto: 5,5

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