giovedì 10 settembre 2015

Nicola Lagioia, "La ferocia", Einaudi


 È il libro che nel 2015 ha vinto il premio Strega.
 Il titolo è di quelli che possono sembrare di primo acchito suggestivi ed evocativi; in realtà è programmatico e didascalico.
 Questo è infatti, in pratica, un libro a tesi: l’autore intende affermare e dimostrare come la ferocia – al pari del cinismo, dell’opportunismo, della violenza, della volontà di sopraffazione – rappresenti una ineludibile legge di natura a cui uomini e animali conformano (potremmo dire deterministicamente) il proprio comportamento.
 La vicenda che viene raccontata sembra costruita appositamente per esemplificare questa tesi, escludendo o spingendo alla periferia dell’orizzonte del lettore qualunque cosa possa discostarsi dalla logica e dalla fenomenologia della ferocia.
La storia ha per protagonista una ricca famiglia di Bari, i Salvemini, il cui straordinario benessere è basato sulla spregiudicatezza del capofamiglia, il vecchio Vittorio, attivissimo imprenditore edile, tanto determinato nel concepire e perseguire la realizzazione di progetti grandiosi quanto abile nel garantirsi l’indispensabile appoggio di politici, magistrati, dirigenti pubblici, funzionari capaci di piegare la legge e le sue interpretazioni alle esigenze e alle ambizioni del loro cliente senza scrupoli.
 Vittorio ha una moglie, Annamaria – perfettamente assuefatta agli agi della ricchezza e pronta a compiere qualunque sacrificio in cambio del pubblico riconoscimento del suo ruolo di legittima consorte di un uomo di successo –, e quattro figli: il primogenito Ruggero, oncologo di fama internazionale ma talmente invischiato negli sporchi affari del padre, dopo avergli fatto per anni da prestanome, da non potersi costruire un’esistenza indipendente e lontana dai famigliari che detesta; Clara, bellissima e scandalosamente rassegnata a trasformarsi (non senza una cupa ironia, peraltro) in un oggetto al servizio delle pubbliche relazioni della famiglia; la giovane Gioia, all’apparenza soltanto sciocca e viziata, in realtà intimamente corrotta dall’abitudine dei suoi famigliari a usare per fini meramente utilitaristici le debolezze del prossimo; e infine Michele, la pecora nera, nato da una relazione adulterina di Vittorio (nell’unica occasione in vita sua in cui abbia messo in pericolo la sua famiglia-azienda per cedere al sentimento), allevato insieme ai fratellastri ma senza mai essere trattato realmente come loro − e forse per questo afflitto da gravi problemi psichici −, e tuttavia amatissimo da Clara, alla quale resta legato fin dall’adolescenza in maniera quasi morbosa.

Un'immagine di Nicola Lagioia

 Proprio l’affetto tra fratello e sorella, che sfugge alla legge fondamentale della ferocia (la quale prevede l’automatica emarginazione ed eliminazione del più debole o del “diverso”), in un contesto siffatto, rappresenta l’anomalia che metterà in crisi l’intero sistema, generando una sorta di inatteso buco nero capace alla fine di divorare tutta la ricchezza dei Salvemini.
 Quando infatti Clara morirà, per le conseguenze di quello che tutti credono un gesto suicida, ma che è invece qualcosa di peggio – cioè un incidente al termine di un festino erotico finito male, di cui la ragazza è stata protagonista insieme ad alcuni degli esponenti più in vista del mondo politico-culturale pugliese –, la sua famiglia sacrificherà il bisogno di renderle giustizia ai vantaggi che agli affari dei Salvemini possono venire dal ricatto operato ai danni di quegli importanti personaggi.
 Solo l’intervento di Michele consentirà alla verità di venire a galla; e tuttavia, il suo gesto smascheratore, volto a rompere la catena della ferocia di cui Clara è rimasta vittima, risulterà paradossalmente a sua volta di una ferocia inaudita, e travolgerà la sua stessa famiglia.
 Il libro di Nicola Lagioia è un’opera imponente e impegnativa, una macchina assai complessa in cui gli ingranaggi del romanzo famigliare, del romanzo sociale e del noir vengono regolati in maniera tale da muoversi simultaneamente.
 Particolarmente interessanti sono i personaggi, che vengono definiti come entità di per sé ambigue e sfuggenti, non sono privi di molteplici sfaccettature, e in alcuni casi presentano un profilo antropologico cesellato con quella che potremmo chiamare acribia psicanalitica; i loro chiaroscuri, però, vengono resi quasi illeggibili dall’assoggettamento di tutte le loro disposizioni alla norma dominante della ferocia, quasi che proprio la ferocia debba essere l'unico autentico personaggio.

Nicola Lagioia festeggia la conquista del Premio Strega

 Ma è soprattutto sull’aspetto linguistico che si gioca la vera personalità del romanzo. La lingua (che è in fondo l’elemento che mette in moto l’intero meccanismo) è a sua volta estremamente elaborata: in alcuni casi viene congeniata in maniera tale da avviluppare il lettore in una nebbia di parole, quasi si volesse mettere il soggetto o la realtà che si intende descrivere un po’ fuori fuoco, per ottenere un frastornante “effetto flou” in cui l’imprecisione genera dubbi che ingigantiscono il senso di inquietudine che permea intere sezioni del testo.
 Altre volte lo spin della frase si carica di pretese lirico-filosofiche cercando di tradurre concetti complessi in formule verbali che vorrebbero essere memorabili e nel contempo esatte nella loro complicata astrattezza.
 In generale si tratta di una lingua ad elevato tasso di sperimentalità, che cerca palesemente di forzare l’ottusità del linguaggio ordinario per guadagnare un terreno in cui il suo carattere risulti nel contempo nettamente scientifico e intensamente metaforico.
 Purtroppo l'esperimento riesce solo a metà, e il testo, nonostante alcuni passaggi indubbiamente felici, non arriva mai a trovare davvero un suo equilibrio stilistico, finendo per apparire molto verboso e piuttosto artificiale, tanto da smorzare alla lunga la tensione con cui si vorrebbe tenere il lettore sulla corda fino alla fine, e da rendere la lettura stessa assai faticosa.

Voto: 6-

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