È un libro, questo,
essenzialmente basato sulla figura dell’antitesi; e, forse, è inevitabile che
sia così, dato che Pierluigi Battista decide di coniugare la massima sincerità
nel raccontare tutti gli aspetti più sgradevoli del modo di essere e di pensare
del padre con il resoconto della riscoperta della pietà figliale, nell’ultima
fase della vita dell’ingombrante genitore e dopo la sua morte.
Vi è antitesi tra l’“esilio
spirituale” a cui si sente condannato Vittorio, reduce della Repubblica di Salò
ostinato nel rivendicare la bontà della propria scelta contro ogni senso della
storia, nostalgico del Duce e orgoglioso della propria fede fascista – tutte
cose inaccettabili nell’Italia democratica del dopoguerra, che lo confinano
idealmente tra i “reietti” –, e il suo profilo di borghese benestante
perfettamente integrato dal punto di vista sociale e professionale nel nuovo
contesto, che lo vede avvocato di successo nel foro romano e pater familias estremamente attento al
decoro e alle buone maniere fra le mura di casa.
Vi è antitesi tra la fedeltà del
padre dell’autore a tutti i valori coltivati durante il Ventennio, e in primo
luogo all’autoritarismo di matrice mussoliniana, e l’indole garantista palesata
nell’esercizio della sua professione in nome di un rispetto assoluto delle
norme giuridiche e della procedura prevista dal Codice penale, tanto da
spingersi ad assumere, con grave rischio personale, la difesa di alcuni
esponenti del terrorismo rosso durante gli Anni di piombo.
Vi è antitesi tra la militanza
missina di Vittorio, a fianco dell’amico di sempre Giorgio Almirante, e l’adesione
di Pierluigi, durante gli anni del liceo, agli ideali e alle parole d’ordine della
sinistra extraparlamentare; una distanza ideologica che porterà a uno scontro
violento tra i due, a una sorta di guerra aperta destinata ad andare ben oltre i classici
contrasti generazionali tra padre e figlio.
Soprattutto vi è antitesi tra la
figura del padre amorevole tout court
e quella del fascista a tutto tondo, che Vittorio ugualmente provò a incarnare
agli occhi del figlio.
È su questa paradossale dicotomia
che si basano tutti i ricordi di Pierluigi Battista, che racconta come, da
bambino, il padre lo portasse “in pellegrinaggio” per le strade di Roma e anche in altre
città italiane, attraverso i luoghi simbolici del fascismo, invitandolo a prendere
coscienza della grandezza passata grazie alla monumentalità delle architetture
(“guarda!” ripeteva continuamente Vittorio di fronte agli edifici dell’Eur, al
Foro Italico, alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, la cui pianta
dall’alto ricorda un fascio littorio); o addirittura tentasse di inculcargli la
propria “topografia dell’anima”, che si sovrapponeva, elidendola, a quella
imposta dai “vincitori” dopo il 1945 (per cui “via dei Fori Imperiali” non
poteva che essere sempre “via dell’Impero”).
Non sorprende che un padre del
genere, così a disagio entro le coordinate ideologiche del proprio tempo, fosse
determinato nell’insegnare al figlio una propria orrorifica controstoria, in
cui i partigiani diventavano dei sadici criminali assetati di sangue, e i
fascisti vittime innocenti della loro malvagità. Tanto che, nella mente di Pierluigi
bambino, un personaggio come il partigiano Gemisto,
responsabile dell'uccisione di alcuni fascisti nei giorni convulsi della Liberazione
– così da dover riparare a Praga e lì attendere la grazia del Presidente della
Repubblica Saragat, giunta solo nel 1965, per poter rientrare in Italia – si trasformò
in una specie di orco.
Una controstoria in cui ci si
soffermava sulle fucilazioni dei repubblichini avvenute in prossimità del 25
aprile o anche dopo quella data, o sulle umiliazioni inflitte dai liberatori
alle ausiliarie (che, sottolineava Vittorio, “non erano mai state armate!”),
rapate a zero e, in alcuni casi, secondo quanto riportava il saggista Giorgio
Pisanò – punto di riferimento della storiografia di destra − forse persino stuprate
per il solo fatto di essere state dalla parte degli sconfitti. Racconti che
proiettavano sulla nascita della nuova Italia la luce funerea di quel “cupo
tramonto” icasticamente rappresentato nei celebri versi concepiti, ad uso degli
antichi camerati, da Almirante in persona.
Del resto, di immagini terribili
era popolata la memoria intima di Vittorio, che dopo il 25 aprile 1945, quando
egli aveva soltanto 22 anni, era stato internato nel campo di concentramento di
Coltano.
La marcia per raggiungere quel
brullo appezzamento di terreno circondato dal filo spinato era avvenuta tra due
ali di una folla composta per lo più da ragazze e da madri di famiglia
inferocite che insultavano, spintonavano, coprivano di sputi gli ex militi.
Quella marcia era stata tanto traumatica da aver popolato gli incubi di
Vittorio per molti anni a venire.
A Coltano, più della fame e degli
stenti, era il disprezzo profondo che si riversava sui prigionieri la cosa
peggiore che toccava soffrire e che lasciava sgomento il giovane Vittorio
Battista. Lì era stato internato anche il poeta Ezra Pound, prelevato dagli
americani dalla sua casa di Rapallo e rinchiuso dai propri connazionali nella
cosiddetta “Gabbia del gorilla”: uno spazio di due metri per uno e mezzo,
circondato da sbarre, dove il prigioniero era esposto alla vista di chiunque e
a tutte le intemperie, fornito solo di un bugliolo per i propri bisogni e di
una coperta sotto la quale proteggersi dal freddo della notte. Pound,
trasferito in seguito negli Stati Uniti, pagherà il suo sostegno al fascismo
con un internamento in un manicomio criminale durato ben 15 anni.
Purtroppo, nel dopoguerra, il
fascismo del padre di Pierluigi Battista non si limitò al formale rispetto del
proprio passato e alla pretesa di un riconoscimento della dignità e della
logica delle proprie scelte giovanili; esso si spinse fino ad abbracciare tutti
gli aspetti più controversi o addirittura più turpi della filosofia e della
fenomenologia neofascista: dal sessismo misogino all’omofobia (il disprezzo per
i “pederasti” o “invertiti” veniva dichiarato a chiare lettere da Vittorio in
ogni occasione, soprattutto quando si trovava in compagnia dei suoi “camerati”),
dallo sciovinismo all’indulgenza verso la violenza politica (manifestata, negli
anni settanta, con la prossimità nei confronti di quei gruppi di rozzi giovinastri
di destra opposti a quelli in cui militava Pierluigi medesimo, fra i quali si
trovavano diversi famigerati “picchiatori”), dalla condivisione di certe
ridicole fantasie golpiste − coltivate da parecchi reduci di Salò insieme a
truci personaggi dell’eversione nera − alla reticenza nel riconoscere la
corresponsabilità di fascisti e nazisti nella teorizzazione del razzismo e nell’attuazione
della “soluzione finale” per lo sterminio del popolo ebraico (peraltro tutto
questo avveniva senza che Vittorio provasse particolare simpatia per i nazisti,
il cui neopaganesimo era da lui rigettato, come quello di tutti i pensatori
della “nuova destra” che ad esso cercavano di rifarsi).
Come pensare all’eventualità di
una composizione della guerra aperta scatenata da Pierluigi fin dagli anni dell’adolescenza
contro un padre portatore di un pensiero siffatto?
Pierluigi Battista
Eppure, anche se la rottura non
venne mai realmente sanata, Battista racconta come un riavvicinamento, seppur
lento e incompleto, tra padre e figlio ci fu, e fu innescato da un evento ben
preciso: quel triste fatto di cronaca risalente al 16 aprile 1973, passato alla
storia come il “rogo di Primavalle”. Quel giorno tre giovani “di sinistra”
appartenenti alla buona borghesia romana appiccarono il fuoco nottetempo all’appartamento
di un netturbino militante nelle file dell’Msi, Mario Mattei; 40 metri quadri
in cui dormivano otto persone. Nell’incendio morirono carbonizzati due figli di
Mattei: Virgilio, di 22 anni, e il piccolo Stefano, di soli 10 anni.
Pochi giorni dopo il rogo, Pierluigi
partecipò a una manifestazione a sostegno di Achille Lollo, uno degli
assassini, reclamandone il rilascio dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine
senza conoscere nulla della reale dinamica dei fatti; il padre Vittorio,
nominato legale della famiglia Mattei, contravvenendo alla propria deontologia
professionale, gli mise allora polemicamente sotto il naso le carte del processo,
per permettergli di rendersi conto di quale crimine efferato si fossero
macchiati i militanti di Potere Operaio per i quali egli era appena sceso in
piazza.
Da quel momento Pierluigi
Battista afferma di essersi reso conto che non è vero, come si sosteneva all’epoca,
che “anche il personale è politico”, e che, al contrario, gli ideali politici
sono solo un pezzo, forse neppure il più importante, dell’identità di una
persona.
Sulla base di queste
considerazioni, negli anni successivi, il fervore di Pierluigi nei confronti
delle posizioni della sinistra estrema si andrà affievolendo non poco, e il suo
giudizio nei confronti del padre si ammorbidirà gradualmente.
Peraltro Vittorio morirà nel
1990, senza essere mai riuscito davvero a spiegarsi con Pierluigi e con i suoi
fratelli, senza aver smesso di sentirsi “esule in patria”, e tuttavia
avvertendo la chiara sensazione che tutto il suo mondo si andava sgretolando;
tanto che, nell’ultimo anno di vita, dopo la scomparsa di Giorgio Almirante,
non rinnoverà più l’iscrizione al Msi.
Pierluigi, dal canto suo, supererà i problemi
lasciati aperti dalla morte del padre, paradossalmente, soltanto in occasione
dell’evento politico-mondano del Congresso di Fiuggi del 1994, quando l’Msi si
scioglierà per dare luogo ad Alleanza Nazionale: di fatto, il funerale di tutto
l’universo politico nel quale Vittorio aveva vissuto.
Il libro è decisamente bello, per
la franchezza e la chiarezza con la quale racconta una vicenda umana complessa
ed estremamente interessante, che coinvolge contemporaneamente le dinamiche dei
pensieri e quelle degli affetti.
Il suo pregio maggiore è
probabilmente quello di non pretendere di ridursi a formule con le quali
esprimere giudizi che si ritengano universalmente validi.
A margine di questa lettura,
possiamo anche osservare come il testo pone, forse senza avvedersene, un
problema delicato, che molti ritengono sia la vera questione irrisolta dell’Italia
moderna e contemporanea: quella per cui le contrapposizioni politiche si
configurano tutte come divisioni magari anche feroci ma filosoficamente
superficiali all’interno della medesima classe dirigente che, trasformando il
proprio profilo ideologico generazione dopo generazione, si perpetua nella
gestione del potere.
Un fenomeno che, a mio modo di vedere, si può combattere solo accostandosi alla politica con maggiore serietà, incentivando la partecipazione, e magari sfoggiando, ove necessario, un po' di sano giacobinismo. Ma queste considerazioni meriterebbero un discorso troppo lungo e articolato perché lo si possa affrontare in questa sede.
Voto: 7
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