domenica 7 febbraio 2016

Dario Fo, "Razza di zingaro", Chiarelettere


 Dario Fo fa sua e racconta la storia di Johann Trollmann, pugile tedesco di origine sinti cui recentemente è stato restituito il titolo di campione tedesco dei mediomassimi, conquistato sul ring il 9 giugno 1933 contro l’“ariano” Adolf Witt, ma vergognosamente revocato appena due settimane dopo dalla federazione pugilistica per intervento di Georg Radamm, nazista, allora presidente dell’Associazione dei pugili tedeschi.
 Fo segue la parabola di Johann fin da quando, ancora bambino, ad Hannover comincia a frequentare la locale palestra di pugilato insieme all’amico e compagno di scuola Franz Uhlman. Sono gli anni della Grande guerra, e tutta la Germania si mobilita per supportare lo sforzo bellico; anche gli “zingari”, che in altre circostanze lo Stato fatica a riconoscere come veri sudditi del Kaiser di nazionalità tedesca, sono chiamati a fare la loro parte, e tutti gli uomini giovani e abili vengono arruolati e spediti al fronte.
 Fra i richiamati vi sono diversi cugini di Johann che, con la famiglia, è così costretto a mettersi a lavorare nell’allevamento di cavalli dello zio, improvvisamente a corto di manodopera.
 Del resto il ragazzo condivide volentieri usi, costumi, abitudini della sua gente che conta, oltre a coloro che si dedicano all’attività tradizionale dell’allevamento, anche numerosi musicisti di strada, e gli artisti del circo che si esibiscono nella magica atmosfera dello chapiteau, il caratteristico tendone.
 Sembra anzi che Johann, quando sale sul ring, mostri l’intero portato culturale del popolo che gli ha dato i natali: la sua boxe, fatta di finte, schivate e affondi improvvisi assomiglia a una danza sinti.
 Crescendo il giovane Trollmann si rivela come il pugile di gran lunga più dotato della sua generazione; capita spesso che, in allenamento, riesca a battere atleti assai più grossi di lui, irridendoli con la sua velocità e l’imprevedibilità delle sue mosse.
 Ben presto, a guerra finita, con il procedere degli anni venti, Johann diventa l’idolo di tutte le ragazzine di Hannover, che accorrono a bordo ring per assistere alle sue esibizioni e per acclamare quello che – per la bellezza statuaria della figura, la pelle ambrata, il fascino esotico del volto, l’armonia dei movimenti – appare ai loro occhi come una sorta di semidio. I sinti, dal canto loro, vista la sua prestanza, l’hanno ribattezzato Rukeli, l’Albero.

Joahann Trollmann all'apice del successo

 Molti − fra cui il suo vecchio allenatore e maestro, e Margarete, una giovane psicologa che ha avuto occasione di assistere a uno dei suoi incontri − cominciano a metterlo in guardia dal pericolo che la precoce celebrità e le distrazioni che ne derivano possano fargli perdere la concentrazione e la determinazione necessarie a diventare un campione vero.
 Ma Johann Trollmann è un ragazzo con la testa sulle spalle; sebbene ami le spacconate e sia estroverso ed esibizionista per natura, possiede il senso del limite. Mostra infatti in varie circostanze un’intelligenza viva, e nel frattempo ha anche maturato precise opinioni politiche: fin dal 1919 apprezza la figura di Rosa Luxemburg e, istintivamente, si sente vicino agli spartachisti.
 Purtroppo la Germania di Weimar, con tutte le sue contraddizioni sociali e le sue difficoltà economiche, non è un luogo dove un giovane sinti possa coltivare con serenità la propria vocazione, le proprie opinioni, la propria indipendenza; ne è la dimostrazione quello che accade nel 1928, quando Johann Trollmann viene estromesso dalla selezione destinata a partecipare alle Olimpiadi di Stoccolma a favore di pugili molto meno dotati di lui, perché i funzionari della federazione non lo ritengono “abbastanza tedesco”.
 E negli anni successivi la situazione non può che peggiorare: nonostante Trollmann, divenuto ormai un uomo fatto (si è anche unito in matrimonio a una bella ragazza di origine cosacca, e ha conosciuto la gioia della paternità), si affermi come uno dei pugili più quotati dell’intera Germania, con il mutato clima politico la sua situazione, come quella di tutti i sinti, si fa sempre più precaria.
 Poi, con la presa del potere da parte di Hitler nel gennaio del 1933, ogni cosa precipita.
 Johann, che già era stato messo sull’avviso dal modo in cui viene trattato il 31 marzo del 1933 il pugile ebreo Erich Seelig, cui viene tolta la licenza la sera stessa in cui avrebbe dovuto combattere per il titolo nazionale dei pesi medi a Berlino, è costretto a prenderne atto personalmente poco più di due mesi dopo, quando tocca a lui giocarsi nella Capitale il titolo di campione tedesco dei mediomassimi.
 Quella sera, la superiorità di Trollmann è netta, e tuttavia l’arbitro, su imbeccata del gerarca nazista Georg Radamm, seduto a bordo ring, ignorando i cartellini dei giudici, proclama il no contest e rifiuta di assegnare la corona di campione allo zingaro. A quel punto, la reazione del pubblico è tanto violenta che la commissione di controllo della federazione riunita in tutta fretta negli spogliatoi si convince che è necessario obbligare l’arbitro a tornare sui propri passi e proclamare Trollmann campione.
 La gioia di Joahann, però, è di breve durata: pochi giorni dopo la federazione pugilistica tedesca annulla il verdetto con un comunicato stampa in cui la decisione presa viene giustificata con le “prestazioni insufficienti dei due pugili”; la teoria, piuttosto ridicola, è che i due contendenti abbiano messo in mostra troppo poco agonismo perché si possa parlare di un incontro di boxe degno di questo nome.
 Per di più, a Trollmann viene ingiunto, se vuole mantenere la propria licenza di professionista, di rispettare le “regole del pugilato tedesco”; vale a dire, smettere di danzare e di schivare, piazzarsi al centro del ring, e prendere e dare botte fino a quando uno dei due contendenti crolla al tappeto.
 L’assurdità di un simile ammonimento spinge Johann Trollmann a reagire con irridente sarcasmo: quando risale sul ring contro Gustav Eder di Dortmund, il 17 luglio 1933, lo fa presentandosi con i capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di borotalco; travestito, insomma, da “vero tedesco”.
 Ma non è più tempo di commedie: le minacce ricevute costringono Trollmann a sottomettersi, perdendo quello che sarà il suo ultimo incontro da professionista. L’anno dopo, infatti, la licenza gli verrà ritirata per aver partecipato a un’esibizione in un luna park.

Una caratteristica immagine di Dario Fo

 Seguiranno anni di mestizia, di miseria e di persecuzioni: Johann Trollmann per proteggere sua moglie sarà costretto a divorziare da lei, perché non le venga rovesciato addosso il disprezzo destinato alle donne tedesche sposate con un ebreo o uno zingaro, “nemici del popolo”; poi verrà addirittura obbligato a sottoporsi alle procedure di sterilizzazione disposte dal regime nazista per tutti i maschi adulti della sua “razza”.
 Questo, peraltro, non impedirà alla Germania di richiamarlo alle armi, come tutti i cittadini tedeschi abili – come venticinque anni prima era capitato ai suoi cugini – allo scoppio della guerra nel 1939. Tale “privilegio” non durerà molto; presto, come tutti gli zingari, Johann Trollmann verrà destinato ai lavori forzati in un campo di concentramento. 
 Approdato infine ad Auschwitz, vi troverà la morte per aver osato battere un kapò, in un incontro di pugilato davanti agli altri detenuti organizzato dal carceriere, convinto di poter avere facilmente la meglio sull’ex campione debilitato dalla fame e dagli stenti. In seguito a questo sgarro, Johann Trollmann, pugile sinti, verrà ucciso a bastonate dal suo aguzzino in una sera di settembre del 1943.
La scelta del premio Nobel italiano di riportare alla luce questa storia di sport, politica e vita è di per sé molto bella ed eticamente importante. Il risultato finale, però, non si può definire esaltante dal punto di vista letterario.
 Il libro, infatti, palesa una rappresentazione della realtà che, anche quando non è puramente didascalica, finisce per apparire tanto stilizzata da tendere al semplicismo caricaturale.
 La prosa su cui si basa il racconto, a sua volta, rifugge da quelle articolazioni capaci di modellare la materia narrata sulle forme dei sentimenti, degli ideali, del “clima morale” dell’epoca che si intende restituire; talvolta sembra non assecondare in maniera adeguata le pieghe della vicenda, altre volte è tanto scarna e poco elaborata da poter essere quasi riferita a una bozza preliminare, a una semplice ipotesi di lavoro.
 Il problema è che, se una impostazione del genere può non inficiare la bontà di un testo teatrale, che trova il suo naturale completamento nella messa in scena con il contributo recitativo degli attori, in un romanzo appare una scelta esteticamente discutibile, che rischia di sconfinare nella pura e semplice sciatteria.
 Da uno scrittore della statura di Dario Fo è forse lecito attendersi qualcosa di più.

Voto: 5,5

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