Dario Fo fa sua e racconta la
storia di Johann Trollmann, pugile tedesco di origine sinti cui recentemente è stato
restituito il titolo di campione tedesco dei mediomassimi, conquistato sul ring
il 9 giugno 1933 contro l’“ariano” Adolf Witt, ma vergognosamente revocato
appena due settimane dopo dalla federazione pugilistica per intervento di Georg
Radamm, nazista, allora presidente dell’Associazione dei pugili tedeschi.
Fo segue la parabola di Johann
fin da quando, ancora bambino, ad Hannover comincia a frequentare la locale
palestra di pugilato insieme all’amico e compagno di scuola Franz Uhlman. Sono
gli anni della Grande guerra, e tutta la Germania si mobilita per supportare lo
sforzo bellico; anche gli “zingari”, che in altre circostanze lo Stato fatica a
riconoscere come veri sudditi del Kaiser di nazionalità tedesca, sono chiamati
a fare la loro parte, e tutti gli uomini giovani e abili vengono arruolati e
spediti al fronte.
Fra i richiamati vi sono diversi
cugini di Johann che, con la famiglia, è così costretto a mettersi a lavorare
nell’allevamento di cavalli dello zio, improvvisamente a corto di manodopera.
Del resto il ragazzo condivide
volentieri usi, costumi, abitudini della sua gente che conta, oltre a coloro
che si dedicano all’attività tradizionale dell’allevamento, anche numerosi
musicisti di strada, e gli artisti del circo che si esibiscono nella magica
atmosfera dello chapiteau, il
caratteristico tendone.
Sembra anzi che Johann, quando
sale sul ring, mostri l’intero portato culturale del popolo che gli ha dato i
natali: la sua boxe, fatta di finte, schivate e affondi improvvisi assomiglia a
una danza sinti.
Crescendo il giovane Trollmann si
rivela come il pugile di gran lunga più dotato della sua generazione; capita
spesso che, in allenamento, riesca a battere atleti assai più grossi di lui,
irridendoli con la sua velocità e l’imprevedibilità delle sue mosse.
Ben presto, a guerra finita, con
il procedere degli anni venti, Johann diventa l’idolo di tutte le ragazzine di
Hannover, che accorrono a bordo ring per assistere alle sue esibizioni e per
acclamare quello che – per la bellezza statuaria della figura, la pelle
ambrata, il fascino esotico del volto, l’armonia dei movimenti – appare ai loro
occhi come una sorta di semidio. I sinti, dal canto loro, vista la sua
prestanza, l’hanno ribattezzato Rukeli,
l’Albero.
Joahann Trollmann all'apice del successo
Molti − fra cui il suo vecchio
allenatore e maestro, e Margarete, una giovane psicologa che ha avuto occasione
di assistere a uno dei suoi incontri − cominciano a metterlo in guardia dal
pericolo che la precoce celebrità e le distrazioni che ne derivano possano fargli
perdere la concentrazione e la determinazione necessarie a diventare un
campione vero.
Ma Johann Trollmann è un ragazzo
con la testa sulle spalle; sebbene ami le spacconate e sia estroverso ed esibizionista
per natura, possiede il senso del limite. Mostra infatti in varie circostanze
un’intelligenza viva, e nel frattempo ha anche maturato precise opinioni
politiche: fin dal 1919 apprezza la figura di Rosa Luxemburg e, istintivamente,
si sente vicino agli spartachisti.
Purtroppo la Germania di Weimar,
con tutte le sue contraddizioni sociali e le sue difficoltà economiche, non è
un luogo dove un giovane sinti possa coltivare con serenità la propria
vocazione, le proprie opinioni, la propria indipendenza; ne è la dimostrazione
quello che accade nel 1928, quando Johann Trollmann viene estromesso dalla
selezione destinata a partecipare alle Olimpiadi di Stoccolma a favore di
pugili molto meno dotati di lui, perché i funzionari della federazione non lo
ritengono “abbastanza tedesco”.
E negli anni successivi la
situazione non può che peggiorare: nonostante Trollmann, divenuto ormai un uomo
fatto (si è anche unito in matrimonio a una bella ragazza di origine cosacca, e
ha conosciuto la gioia della paternità), si affermi come uno dei pugili più
quotati dell’intera Germania, con il mutato clima politico la sua situazione,
come quella di tutti i sinti, si fa sempre più precaria.
Poi, con la presa del potere da
parte di Hitler nel gennaio del 1933, ogni cosa precipita.
Johann, che già era stato messo
sull’avviso dal modo in cui viene trattato il 31 marzo del 1933 il pugile ebreo
Erich Seelig, cui viene tolta la licenza la sera stessa in cui avrebbe dovuto
combattere per il titolo nazionale dei pesi medi a Berlino, è costretto a
prenderne atto personalmente poco più di due mesi dopo, quando tocca a lui giocarsi
nella Capitale il titolo di campione tedesco dei mediomassimi.
Quella sera, la superiorità di
Trollmann è netta, e tuttavia l’arbitro, su imbeccata del gerarca nazista Georg
Radamm, seduto a bordo ring, ignorando i cartellini dei giudici, proclama il no contest e rifiuta di assegnare la
corona di campione allo zingaro. A quel punto, la reazione del pubblico è tanto
violenta che la commissione di controllo della federazione riunita in tutta
fretta negli spogliatoi si convince che è necessario obbligare l’arbitro a tornare
sui propri passi e proclamare Trollmann campione.
La gioia di Joahann, però, è di
breve durata: pochi giorni dopo la federazione pugilistica tedesca annulla il
verdetto con un comunicato stampa in cui la decisione presa viene giustificata
con le “prestazioni insufficienti dei due pugili”; la teoria, piuttosto
ridicola, è che i due contendenti abbiano messo in mostra troppo poco agonismo
perché si possa parlare di un incontro di boxe degno di questo nome.
Per di più, a Trollmann viene
ingiunto, se vuole mantenere la propria licenza di professionista, di
rispettare le “regole del pugilato tedesco”; vale a dire, smettere di danzare e
di schivare, piazzarsi al centro del ring, e prendere e dare botte fino a
quando uno dei due contendenti crolla al tappeto.
L’assurdità di un simile
ammonimento spinge Johann Trollmann a reagire con irridente sarcasmo: quando
risale sul ring contro Gustav Eder di Dortmund, il 17 luglio 1933, lo fa presentandosi
con i capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di borotalco; travestito,
insomma, da “vero tedesco”.
Ma non è più tempo di commedie:
le minacce ricevute costringono Trollmann a sottomettersi, perdendo quello che
sarà il suo ultimo incontro da professionista. L’anno dopo, infatti, la licenza
gli verrà ritirata per aver partecipato a un’esibizione in un luna park.
Una caratteristica immagine di Dario Fo
Seguiranno anni di mestizia, di miseria
e di persecuzioni: Johann Trollmann per proteggere sua moglie sarà costretto a
divorziare da lei, perché non le venga rovesciato addosso il disprezzo
destinato alle donne tedesche sposate con un ebreo o uno zingaro, “nemici del
popolo”; poi verrà addirittura obbligato a sottoporsi alle procedure di
sterilizzazione disposte dal regime nazista per tutti i maschi adulti della sua
“razza”.
Questo, peraltro, non impedirà
alla Germania di richiamarlo alle armi, come tutti i cittadini tedeschi abili –
come venticinque anni prima era capitato ai suoi cugini – allo scoppio della
guerra nel 1939. Tale “privilegio” non durerà molto; presto, come tutti gli
zingari, Johann Trollmann verrà destinato ai lavori forzati in un campo di
concentramento.
Approdato infine ad Auschwitz, vi
troverà la morte per aver osato battere un kapò, in un incontro di pugilato
davanti agli altri detenuti organizzato dal carceriere, convinto di poter avere
facilmente la meglio sull’ex campione debilitato dalla fame e dagli stenti. In
seguito a questo sgarro, Johann Trollmann, pugile sinti, verrà ucciso a bastonate
dal suo aguzzino in una sera di settembre del 1943.
La scelta del premio Nobel
italiano di riportare alla luce questa storia di sport, politica e vita è di
per sé molto bella ed eticamente importante. Il risultato finale, però, non si
può definire esaltante dal punto di vista letterario.
Il libro, infatti, palesa una
rappresentazione della realtà che, anche quando non è puramente didascalica, finisce
per apparire tanto stilizzata da tendere al semplicismo caricaturale.
La prosa su cui si basa il
racconto, a sua volta, rifugge da quelle articolazioni capaci di modellare la
materia narrata sulle forme dei sentimenti, degli ideali, del “clima morale”
dell’epoca che si intende restituire; talvolta sembra non assecondare in
maniera adeguata le pieghe della vicenda, altre volte è tanto scarna e poco
elaborata da poter essere quasi riferita a una bozza preliminare, a una
semplice ipotesi di lavoro.
Il problema è che, se una
impostazione del genere può non inficiare la bontà di un testo teatrale, che
trova il suo naturale completamento nella messa in scena con il contributo
recitativo degli attori, in un romanzo appare una scelta esteticamente
discutibile, che rischia di sconfinare nella pura e semplice sciatteria.
Da uno scrittore della statura di Dario Fo è forse lecito attendersi qualcosa di più.
Voto: 5,5
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