Calibrando il proprio passo sulla
misura della quartina, con vario metro (ma con netta prevalenza dell’endecasillabo)
e varia rima, Gianni D’Elia dà corpo al proprio “canzoniere adriatico”, ricco
di risonanze culturali e di riferimenti autobiografici, esplorati sia in chiave
esistenziale, sia – com’è abitudine del “pasoliniano” D’Elia – ideologica.
I componimenti di questa raccolta
sono in tutto 106, suddivisi in tredici “Sale”: un solo componimento
dedicatorio (al francesista Mario Richter) per la Sala del Preludio, trentotto
brevi componimenti per la Sala dei primi fiori, nove poesie per la Sala degli
esercizi dal vero, appena due per la Sala della rêverie, sette vivaci
componimenti per la Sala dei ritratti, tre per la Sala dei fiori proibiti,
quindici per il Salone del cuore della città (dove la città è naturalmente la
natia Pesaro), ancora due per la Sala dell’elegia e del madrigale, nove per la
Sala dei viaggi (una delle sezioni meglio riuscite del libro), sette poesie “politiche”
per la Sala del lungo tema, tre per la Sala della nostalgia (nostalgia che
peraltro trova ampio spazio anche altrove), nove per la Sala del paesaggio della
stanza, e infine un forzatamente antimalinconico componimento (Salut) nella Sala dei congedi.
Il linguaggio utilizzato è quello
aulico della tradizione letteraria italiana, piegato a volte a descrivere
realtà semplici della quotidianità (come nelle poesie Barman, La casalinga, o
ancora ne L’antennista) laddove il
tono assume una forbitezza colloquiale degna di Umberto Saba, poeta che è
stato giustamente richiamato dai commentatori di D’Elia insieme a molti altri:
da Leopardi (com’è del resto quasi ovvio per qualsiasi lirico italiano, tanto
più se di origine marchigiana) ad Attilio Bertolucci, a Baudelaire, presente
fin nel titolo.
Baudelaire, consapevolmente
citato, ovviamente c’è, ma è come addomesticato, riportato a una dimensione che
scambia la scontatezza glamour della
classica “illuminazione” con la concretezza di un sentimento sospeso proiettato
sulle asperità dell’oggi; come quando, in Presenza,
lo sguardo della celebre passante baudelairiana viene sostituito da quello di
una bambina per la quale “tu non sei che uno / dei tanti avventori del pianeta”
e che porta l’io lirico a chiedersi: “dei tuoi giorni sorpresi ormai / soltanto
sorpresi, senza un’intuizione, / colpiti così da un poco d’avara emozione, /
vuoi dirmi in una carta, − in lei, // in te, resterà?...”.
A mio parere, in alcuni versi, si
può avvertire anche un tono quasi oraziano, quando all’emozionante descrizione del
paesaggio adriatico si sposa il senso pervasivo della precarietà del tutto, e
quello del carattere fuggevole della bellezza che dura un attimo; come ne I pescatori, che se ne stanno in attesa
sul molo per ore e ore in attesa dello strappo del pesce, del luccichìo nell’aria
dell’animale, bello come “la lama d’oro liquido del sole, / quel lampo riarso
tra l’amore e il niente…”.
Il poeta Gianni D'Elia
In questa prospettiva che, in
senso lato, potremmo definire esistenzialistica, trova posto anche la passione
civile, che costituisce da sempre il tratto caratterizzante del modo di fare
poesia di Gianni D’Elia. Prendiamo, ad esempio, Notte della memoria, dedicata ad un amico che nel 1974 ha perso la
compagna nella strage di Piazza della Loggia a Brescia: “Milano, Brescia,
Italicus, Bologna, / negli occhi di Manlio, compagno e amico, / ogni giorno d’Italia
è una vergogna”. O ancora, prendiamo quella sorta di appello a tener vivo l’antifascismo
attraverso l’impegno e la partecipazione, con cui si chiude il componimento Fasci della Costa: “E come ride il
giovane nazista, / si risvegliano in noi tutti i terrori: / ma più tu fuggi e
ne ignori la vista, / più spuntano ovunque gli orridi fiori… // Oh, una gran
falce sui crani-tumori…”.
Tra la riflessione filosofica
sull’esistenza umana e la passione politica si insinua poi spesso una vena
nostalgica che rende più vero il discorso poetico; come nella lirica Gioventù: “Come l’anima nel corpo, sei
scoperta, / come il diavolo in corpo, resti eterna, / rosa tardiva, che a un
capanno s’afferra, / parola schiva, ora ch’è persa la guerra?... // Ecco la
nostra storia, che s’inverna, / l’aria del Novecento nei polmoni, / la neve del
Duemila, che conferma / Siberia l’Adriatico qui fuori”.
L’equilibrio migliore si
raggiunge probabilmente quando le varie componenti dell’approccio di Gianni D’Elia
alla realtà, vale a dire l’attenzione rivolta a tutte le pieghe dell’esistenza
individuale e collettiva, la passione civile e il ripiegamento nostalgico
riescono a convivere nella naturalezza del susseguirsi dei versi; come in
alcuni passaggi di Canto dell’Autunno
inoltrato: “L’economia, la politica, la noia, / ci sfiniscono e ci uccidono
il cuore, / e noi aspettiamo, sotto questa ploia, / cogliendo l’ansia, al tonfo
di stagione… // Ora ci tocca l’Autunno inoltrato, / l’umido atroce, il reuma
del Mercato, / e di quel grande Vivente Teatro / il dolceamaro di un sogno
sfumato…”.
Devo però confessare che, nonostante l’indubbia
perizia tecnica dell’autore e gli accenti di verità presenti in tante liriche,
raramente la poesia di Gianni D’Elia riesce a scaldarmi il cuore.
Il componimento migliore della raccolta, comunque, per me, è Il treno:
E riecco le figure che riscatta,
mentre lampa nel buio al litorale
la più grande pellicola che sappia
con la sua corsa il cinema imitare,
il treno, che rifischiando di rabbia,
inquadra ogni fotogramma mortale...
Nei finestrini accesi e via fuggenti,
e al rutilìo dei vagoni smorenti,
rivedi le ombre nette dei viventi
fiorire, e lampo a lampo dileguare,
rispento anche il rombo della Statale,
al remoto rifrangersi del mare...
Riecco gli anni, lumini svanenti,
il salve del silenzio e del girare,
come le ruote, che si porta il vento
al ritmo tamburino degli assali,
nel doppio battito dei quattro gravi,
infinitamente, sopra i binari...
Riecco l'alba, che cova i tremendi
incubi e risvegli del Capitale,
qui, sotto il Monte, che cinguetta ai venti
l'amore della vita e del cantare...
Voto: 6-
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