Possiamo ascrivere quest’opera
del cardinale Gianfranco Ravasi, uno dei migliori biblisti al mondo,
alla divulgazione di alto livello della più aggiornata riflessione teologica.
Nello specifico, Ravasi si
sofferma sui passi più “scandalosi” dei quattro Vangeli, quelli che risultano
di difficile interpretazione, che sconcertano il lettore, che sembrano a prima
vista incoerenti rispetto al solco principale della predicazione di Gesù, che
suscitano dubbi o, semplicemente, curiosità inappagate (insomma, sui passi che,
secondo l’etimologia della parola scandaloso,
costituiscono una “pietra d’inciampo” per il frequentatore dei Vangeli),
proponendone una lettura sempre profonda e sagace.
Innanzitutto Ravasi sottolinea
come i vari racconti evangelici presentano delle discrepanze perché gli
evangelisti non si comportano come storici in senso stretto o freddi estensori
di verbali documentari, bensì come interpreti la cui fedeltà alla sostanza del
messaggio di Cristo si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e
la storia di Gesù devono essere trasmesse in modo concreto e incarnato.
Ad esempio, nella presentazione
delle Beatitudini espresse nel cosiddetto Discorso
della Montagna, Matteo, che scrive per un pubblico di fedeli di origine
ebraica, incastona la predicazione di Cristo in una rappresentazione simbolica
che richiama la tradizione di Mosè e delle Tavole della Legge; Luca, al
contrario, racconta in maniera più realistica il contesto nel quale il discorso
venne storicamente pronunciato da Gesù, e riporta in maniera più retoricamente verosimile
le sue parole.
All’interno della cornice teorica
definita in questo modo, è possibile stabilire l’interpretazione più
attendibile dei singoli passi del racconto di ogni evangelista, sulla base del
loro retroterra culturale, del loro “orizzonte di attesa” e della loro
specifica personalità.
Così, quando Matteo riporta la
sua versione della preghiera capitale del Padre
Nostro, la frase tradizionalmente attribuita a Gesù “non indurci in
tentazione” (peraltro recentemente corretta dalla traduzione della Bibbia ad
opera della Conferenza Episcopale Italiana in “non abbandonarci alla tentazione”,
sulla base di considerazioni di carattere linguistico-filologico svolte sia sul
testo greco originario, sia sull’aramaico verosimilmente parlato da Gesù)
risulta imbarazzante, perché farebbe discendere il male da Dio stesso, e
ridimensionerebbe l’importanza del libero arbitrio dell’uomo e della sua
capacità di non cedere al peccato. In realtà, Matteo aveva di sicuro in mente
sia il topos della tentazione-insidia
con cui Dio mette più volte alla prova l’uomo nel Vecchio Testamento, sia le parole
pronunciate dal Signore nel libro di Isaia: “Sono io che formo la luce e creo
le tenebre, faccio il bene e provoco il male”. Su queste memorie ricalcò il
resoconto della preghiera trasmessa agli uomini da Cristo stesso.
O ancora, quando Matteo parla dei
“fratelli” di Gesù, non si deve necessariamente pensare che essi fossero figli
carnali di Maria (cosa che metterebbe in discussione la verginità della
Madonna), perché nel contesto socio-culturale giudaico il termine fratello può indicare anche un cugino o
qualsiasi appartenente al clan parentale di cui Gesù faceva parte.
A volte capita che Ravasi si
soffermi su una vexata questio, per
provare a sciogliere un dubbio che ha impegnato molti interpreti, fornendo una
sua meditata versione. È il caso della famosa formula “È più facile che un
cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio”;
secondo alcuni esegeti si dovrebbe sostituire il termine greco kámêlon, cammello, con kámilon, gomena, per sanare l’inverosimiglianza dell’immagine. Ma per Ravasi le immagini dai
toni accesi che possiedono una forza paradossale sono tipiche dell’antico Vicino
Oriente, tanto che vi sono testi rabbinici di poco posteriori all’epoca di Gesù
che parlano dell’impossibilità di far passare “un elefante per la cruna di un
ago”; il cammello può dunque tranquillamente restare tale, salvando la
straordinaria originalità della sequenza “psichedelica” proposta da Cristo.
Gianfranco Ravasi
Altre volte Ravasi cerca di prevenire
lo sconcerto del lettore di fronte a comportamenti di Gesù che risultano
iperbolici, capricciosi, “strani”; come quando, ad esempio, nel Vangelo di
Marco, egli maledice e condanna a essere disseccata una pianta di fico che si
rifiuta di dare frutti fuori stagione per sfamarlo. Si tratta, in questo caso,
di un’azione simbolico-spirituale dello stesso tipo di quelle dei Profeti
veterotestamentari (basta pensare ad Ezechiele) volta a sottolineare il fatto
che la fede, quando è vera, ha una potenza invincibile.
Particolarmente interessanti sono
taluni tentativi di riportare alla loro autentica radice evangelica credenze
fortemente radicate nella tradizione popolare, come quella, rappresentata nel
presepe, che contempla la nascita di Gesù in una grotta, dove viene deposto in
una mangiatoia e scaldato dal fiato di un bue e di un asino. Ora, l’evangelista
Luca parla semplicemente di un alloggio (katályma),
probabilmente la casa di alcuni parenti di Giuseppe che risiedevano a Betlemme;
e tuttavia la casa di una famiglia media di allora possedeva spesso un vano,
sovente scavato nella roccia, dove, accanto all’abitazione principale, venivano
ospitati gli animali. Non è inverosimile pensare che Maria e Giuseppe, nel
villaggio agricolo-pastorale di Betlemme, avessero passato la notte proprio in
un luogo simile.
Alcuni dettagli riconducibili
alla quotidianità di duemila anni fa possono addirittura far sorridere. Quando,
in Luca, Gesù dice “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un uovo, gli
darà uno scorpione?”, l’immagine pare abbastanza sgangherata. In realtà, nell’arida
Palestina, capita spesso di vedere degli scorpioni biancastri, lunghi anche una
quindicina di centimetri, che quando si arrotolano su se stessi nascondendosi
sotto una pietra assumono, appunto, la forma e l’aspetto di un uovo. Gli
interlocutori di Gesù dovevano averli ben presenti per essersi spesso imbattuti
in essi − forse con un certo spavento −, e quindi non trovavano nessun
paradosso nell’immagine usata da Cristo.
Un caso a sé stante, nei quattro
Vangeli, è costituito dai paralleli istituiti da Gesù tra talune dinamiche
spirituali e particolari situazioni di carattere economico-finanziario; come
quando, in una parabola, il padrone loda l’amministratore disonesto per aver
agito con scaltrezza, oppure, nel Vangelo di Luca, Cristo invita a farsi degli
amici “con la ricchezza disonesta, perché, quando verrà a mancare, essi vi
accolgano nelle dimore eterne”. Tali paradossi, per Ravasi, rappresentano un
tentativo di sottolineare ironicamente la scarsa prontezza dell’uomo nel fare
il bene, quando invece è sempre zelante nel seguire le vie del male, e per
operare implicitamente una distinzione tra le ricchezze materiali, che incorporano
sempre elementi di corruzione, e le ricchezze spirituali, a cui dobbiamo
tendere con tutte le nostre forze barattando per esse i beni materiali, che
siano ottenuti onestamente o no.
Le parti più appassionanti del
libro, però, sono forse quelle in cui ci si sofferma sui passi evangelici di
maggiore intensità e spessore filosofico. Essi sono particolarmente numerosi
nel Vangelo di Giovanni, la più profonda tra le quattro narrazioni della vita
di Gesù. Ad esempio, l’apertura stessa del Vangelo giovanneo: “In principio era
il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. “Verbo” è la
traduzione del greco Lógos, che oltre
ad avere implicazioni più vaste del termine italiano, funge nella frase da
predicato, a esprimere nella maniera più sintetica e insieme più intensa la
pienezza della divinità manifestatasi attraverso la parola.
O ancora, quando si dice che Dio
va adorato “in spirito e verità”, la frase si presta a varie interpretazioni,
fra le quali particolarmente suggestiva è quella che conduce al rifiuto di ogni
esibita ritualità esteriore, riferendo la fede alla segreta intimità del cuore,
anche se Ravasi spiega come Giovanni intende invece sottolineare la pienezza
spirituale che il credente può conseguire soltanto attraverso il “respiro
vitale” infuso dai sacramenti.
In ciascuno dei casi proposti,
insomma, gli interventi esplicativi di Gianfranco Ravasi sono improntati a
finezza, sensibilità e rigore, supportati da una straordinaria erudizione.
Il problema è che tutto questo non basta a chi, come il sottoscritto, conserva un approccio da agnostico ai testi sacri, a dissipare l'impressione che tanta acribia e tanta sagacia siano strumentalmente messe al servizio di una aprioristica volontà di giustificare una lettura dei Vangeli volta a legittimare i dogmi su cui si fonda il credo della Chiesa Cattolica, scansando abilmente tutto quello che proprio quei dogmi potrebbe mettere in discussione.
Voto: 6,5
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