domenica 6 marzo 2016

Gianfranco Ravasi, "Le pietre di inciampo del Vangelo", Mondadori


 Possiamo ascrivere quest’opera del cardinale Gianfranco Ravasi, uno dei migliori biblisti al mondo, alla divulgazione di alto livello della più aggiornata riflessione teologica.
 Nello specifico, Ravasi si sofferma sui passi più “scandalosi” dei quattro Vangeli, quelli che risultano di difficile interpretazione, che sconcertano il lettore, che sembrano a prima vista incoerenti rispetto al solco principale della predicazione di Gesù, che suscitano dubbi o, semplicemente, curiosità inappagate (insomma, sui passi che, secondo l’etimologia della parola scandaloso, costituiscono una “pietra d’inciampo” per il frequentatore dei Vangeli), proponendone una lettura sempre profonda e sagace.
 Innanzitutto Ravasi sottolinea come i vari racconti evangelici presentano delle discrepanze perché gli evangelisti non si comportano come storici in senso stretto o freddi estensori di verbali documentari, bensì come interpreti la cui fedeltà alla sostanza del messaggio di Cristo si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e la storia di Gesù devono essere trasmesse in modo concreto e incarnato.
 Ad esempio, nella presentazione delle Beatitudini espresse nel cosiddetto Discorso della Montagna, Matteo, che scrive per un pubblico di fedeli di origine ebraica, incastona la predicazione di Cristo in una rappresentazione simbolica che richiama la tradizione di Mosè e delle Tavole della Legge; Luca, al contrario, racconta in maniera più realistica il contesto nel quale il discorso venne storicamente pronunciato da Gesù, e riporta in maniera più retoricamente verosimile le sue parole.
 All’interno della cornice teorica definita in questo modo, è possibile stabilire l’interpretazione più attendibile dei singoli passi del racconto di ogni evangelista, sulla base del loro retroterra culturale, del loro “orizzonte di attesa” e della loro specifica personalità.
 Così, quando Matteo riporta la sua versione della preghiera capitale del Padre Nostro, la frase tradizionalmente attribuita a Gesù “non indurci in tentazione” (peraltro recentemente corretta dalla traduzione della Bibbia ad opera della Conferenza Episcopale Italiana in “non abbandonarci alla tentazione”, sulla base di considerazioni di carattere linguistico-filologico svolte sia sul testo greco originario, sia sull’aramaico verosimilmente parlato da Gesù) risulta imbarazzante, perché farebbe discendere il male da Dio stesso, e ridimensionerebbe l’importanza del libero arbitrio dell’uomo e della sua capacità di non cedere al peccato. In realtà, Matteo aveva di sicuro in mente sia il topos della tentazione-insidia con cui Dio mette più volte alla prova l’uomo nel Vecchio Testamento, sia le parole pronunciate dal Signore nel libro di Isaia: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco il male”. Su queste memorie ricalcò il resoconto della preghiera trasmessa agli uomini da Cristo stesso.
 O ancora, quando Matteo parla dei “fratelli” di Gesù, non si deve necessariamente pensare che essi fossero figli carnali di Maria (cosa che metterebbe in discussione la verginità della Madonna), perché nel contesto socio-culturale giudaico il termine fratello può indicare anche un cugino o qualsiasi appartenente al clan parentale di cui Gesù faceva parte.
 A volte capita che Ravasi si soffermi su una vexata questio, per provare a sciogliere un dubbio che ha impegnato molti interpreti, fornendo una sua meditata versione. È il caso della famosa formula “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio”; secondo alcuni esegeti si dovrebbe sostituire il termine greco kámêlon, cammello, con kámilon, gomena, per sanare l’inverosimiglianza  dell’immagine. Ma per Ravasi le immagini dai toni accesi che possiedono una forza paradossale sono tipiche dell’antico Vicino Oriente, tanto che vi sono testi rabbinici di poco posteriori all’epoca di Gesù che parlano dell’impossibilità di far passare “un elefante per la cruna di un ago”; il cammello può dunque tranquillamente restare tale, salvando la straordinaria originalità della sequenza “psichedelica” proposta da Cristo.

Gianfranco Ravasi

 Altre volte Ravasi cerca di prevenire lo sconcerto del lettore di fronte a comportamenti di Gesù che risultano iperbolici, capricciosi, “strani”; come quando, ad esempio, nel Vangelo di Marco, egli maledice e condanna a essere disseccata una pianta di fico che si rifiuta di dare frutti fuori stagione per sfamarlo. Si tratta, in questo caso, di un’azione simbolico-spirituale dello stesso tipo di quelle dei Profeti veterotestamentari (basta pensare ad Ezechiele) volta a sottolineare il fatto che la fede, quando è vera, ha una potenza invincibile.
 Particolarmente interessanti sono taluni tentativi di riportare alla loro autentica radice evangelica credenze fortemente radicate nella tradizione popolare, come quella, rappresentata nel presepe, che contempla la nascita di Gesù in una grotta, dove viene deposto in una mangiatoia e scaldato dal fiato di un bue e di un asino. Ora, l’evangelista Luca parla semplicemente di un alloggio (katályma), probabilmente la casa di alcuni parenti di Giuseppe che risiedevano a Betlemme; e tuttavia la casa di una famiglia media di allora possedeva spesso un vano, sovente scavato nella roccia, dove, accanto all’abitazione principale, venivano ospitati gli animali. Non è inverosimile pensare che Maria e Giuseppe, nel villaggio agricolo-pastorale di Betlemme, avessero passato la notte proprio in un luogo simile.
 Alcuni dettagli riconducibili alla quotidianità di duemila anni fa possono addirittura far sorridere. Quando, in Luca, Gesù dice “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”, l’immagine pare abbastanza sgangherata. In realtà, nell’arida Palestina, capita spesso di vedere degli scorpioni biancastri, lunghi anche una quindicina di centimetri, che quando si arrotolano su se stessi nascondendosi sotto una pietra assumono, appunto, la forma e l’aspetto di un uovo. Gli interlocutori di Gesù dovevano averli ben presenti per essersi spesso imbattuti in essi − forse con un certo spavento −, e quindi non trovavano nessun paradosso nell’immagine usata da Cristo.
 Un caso a sé stante, nei quattro Vangeli, è costituito dai paralleli istituiti da Gesù tra talune dinamiche spirituali e particolari situazioni di carattere economico-finanziario; come quando, in una parabola, il padrone loda l’amministratore disonesto per aver agito con scaltrezza, oppure, nel Vangelo di Luca, Cristo invita a farsi degli amici “con la ricchezza disonesta, perché, quando verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Tali paradossi, per Ravasi, rappresentano un tentativo di sottolineare ironicamente la scarsa prontezza dell’uomo nel fare il bene, quando invece è sempre zelante nel seguire le vie del male, e per operare implicitamente una distinzione tra le ricchezze materiali, che incorporano sempre elementi di corruzione, e le ricchezze spirituali, a cui dobbiamo tendere con tutte le nostre forze barattando per esse i beni materiali, che siano ottenuti onestamente o no.   
 Le parti più appassionanti del libro, però, sono forse quelle in cui ci si sofferma sui passi evangelici di maggiore intensità e spessore filosofico. Essi sono particolarmente numerosi nel Vangelo di Giovanni, la più profonda tra le quattro narrazioni della vita di Gesù. Ad esempio, l’apertura stessa del Vangelo giovanneo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. “Verbo” è la traduzione del greco Lógos, che oltre ad avere implicazioni più vaste del termine italiano, funge nella frase da predicato, a esprimere nella maniera più sintetica e insieme più intensa la pienezza della divinità manifestatasi attraverso la parola.
 O ancora, quando si dice che Dio va adorato “in spirito e verità”, la frase si presta a varie interpretazioni, fra le quali particolarmente suggestiva è quella che conduce al rifiuto di ogni esibita ritualità esteriore, riferendo la fede alla segreta intimità del cuore, anche se Ravasi spiega come Giovanni intende invece sottolineare la pienezza spirituale che il credente può conseguire soltanto attraverso il “respiro vitale” infuso dai sacramenti.
 In ciascuno dei casi proposti, insomma, gli interventi esplicativi di Gianfranco Ravasi sono improntati a finezza, sensibilità e rigore, supportati da una straordinaria erudizione.
 Il problema è che tutto questo non basta a chi, come il sottoscritto, conserva un approccio da agnostico ai testi sacri, a dissipare l'impressione che tanta acribia e tanta sagacia siano strumentalmente messe al servizio di una aprioristica volontà di giustificare una lettura dei Vangeli volta a legittimare i dogmi su cui si fonda il credo della Chiesa Cattolica, scansando abilmente tutto quello che proprio quei dogmi potrebbe mettere in discussione.

Voto: 6,5

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