venerdì 25 marzo 2016

Ernst Jünger, "Trattato del Ribelle", Adelphi


 Ho letto una prima volta il Trattato del Ribelle diversi anni fa, senza trovarlo particolarmente significativo, e anzi costruito su una struttura argomentativa debole e non priva di contraddizioni; l’ho ripreso in mano ora perché mi sembra curioso che venga citato come testo di riferimento da esponenti di spicco della destra italiana contemporanea (come Giorgia Meloni) perfettamente integrati nella classe dirigente politica che si specchia con serenità nelle istituzioni dello Stato, proprio come lo citavano i loro padri ideologici di estrazione neofascista, che invece con quelle istituzioni avevano un rapporto quantomeno controverso.
 Il saggio venne composto nel 1951, e riflette tutto il disorientamento e l’inquietudine della borghesia tedesca del dopoguerra, che – uscita con le ossa rotte dalle disastrose esperienze del conflitto mondiale e del nazismo (in cui aveva creduto) – non si sentiva adeguatamente tutelata dalle istituzioni democratiche (le quali, del resto, in verità, non avevano impedito nel 1933 la presa del potere da parte di Hitler) al cospetto dell’incombere della minaccia del socialismo reale incarnato negli assetti politici a cui era stata destinata la DDR.
 Ciò che sembra sconcertare di più Jünger è l’assoluta impotenza del singolo cittadino elettore di fronte al potere schiacciante della maggioranza, soprattutto quando essa costituisce la plastica rappresentazione del controllo sulle menti e sui cuori di un’autorità statale di matrice totalitaria (identificabile con il Leviatano di hobbesiana memoria), per la quale le elezioni costituiscono solo l’occasione per ribadire teatralmente la propria legittimità (ragion per cui la presenza di un modesto dissenso – quantificabile più o meno con il 2 percento dei votanti – diventa funzionale agli scopi dell’autorità stessa).
 L’unica forma di opposizione possibile per il singolo sta allora nel trasformarsi in un Ribelle; il termine italiano è l’approssimativa traduzione del tedesco Waldgänger, letteralmente “colui che passa al bosco”, “colui che si dà alla macchia”, insomma colui che rifiuta l’integrazione nel sistema sociale in cui si trova a vivere, non accetta di essere semplicemente un membro di una collettività, e cerca dentro di sé le risorse spirituali per affermare la propria libertà, la propria superiore individualità, la natura immortale della propria essenza.
 Si capisce bene come gli irriducibili del neofascismo, in preda a una sorta di “sindrome da accerchiamento” all’interno del nuovo regime democratico, fossero portati a identificarsi e a trarre ispirazione da questa suggestiva figura, tanto più che Jünger la proponeva in chiave non troppo velatamente antibolscevica.
 Il Ribelle viene dipinto con una serie di caratteristiche, alcune tratteggiate con vaghezza, altre specificate con estrema precisione: egli “non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore, né con i mezzi della propaganda, né con la forza”; “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”. Il suo orientamento è sostanzialmente antimodernista, perché si oppone a qualsiasi forma di automazione introdotta dalle macchine; e tuttavia “nell’ambito delle terapie mediche, del diritto e dell’uso delle armi la decisione sovrana spetta solamente a lui”; per di più, “anche in campo morale le sue azioni non si conformano in alcuna dottrina”.

 Un giovane Ernst Junger in uniforme, con le decorazioni ricevute nel corso della Prima guerra mondiale

 Questo complesso di caratteristiche non possono che condurre a riconoscere nel Ribelle un individuo dalle qualità d’animo eccezionali, nettamente al di sopra della media, e ben conscio della propria superiorità sulla massa degli altri uomini.
 Significativo e piuttosto interessante, in relazione a tali caratteristiche, è l’atteggiamento di Jünger nei confronti della proprietà, perché sembra abbastanza in contrasto con lo “spiritualismo” che per il resto connota la fisionomia del Ribelle; rifiutando il concetto secondo cui “la proprietà è un furto”, e sostenendo anzi che “l’esproprio che prende di mira la proprietà come idea ha come conseguenza inevitabile la schiavitù”, il filosofo tedesco arriva ad affermare che, in un certo senso, “la proprietà è esistenziale, vincolata al suo detentore e indissolubilmente legata al suo essere”
 Così, gli sbocchi naturali di una simile impostazione finiscono per essere essenzialmente due : 1) l’individualismo sfrenato; 2) Il culto delle élites. Il che lascia piuttosto perplessi.
 D’altra parte bisogna ammettere che tutto ciò che definisce la “singolarità” e la “diversità” del Ribelle può anche risultare molto affascinante; ma mi sembra che a lasciarsene affascinare sia soprattutto il sociopatico che alberga in ognuno di noi: tutto sommato, infatti, nella maggior parte dei casi, professarsi un Ribelle significa trovare una comoda giustificazione per assecondare passivamente le proprie idiosincrasie o il proprio egoismo, senza darsi la minima pena di provare a confrontarsi con gli altri con un pizzico di umiltà.
 Personalmente, dunque, posso affermare senza remore di preferire alla figura del Ribelle quella del Conformista come lo intendeva Antonio Gramsci quando, nel Quaderno 14, diceva: " Conformismo significa niente altro che socialità; ma piace usare la parola conformismo appunto per urtare gli imbecilli".

Voto: 6  
 

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