martedì 27 dicembre 2016

Melania G. Mazzucco, "Io sono con te. Storia di Brigitte", Einaudi


 Cosa sanno gli italiani dei richiedenti asilo, della loro storia, delle loro peripezie, del loro profilo umano, e delle trafile burocratiche attraverso le quali devono passare affinché sia riconosciuto loro lo status di rifugiati e il diritto a rimanere nel nostro Paese? La risposta, in media, è: assolutamente niente. 
 Per i più, il "richiedente asilo" appartiene a un sottogruppo dai contorni mal definiti della più vasta famiglia dei "migranti" (a cui magari si aggiunge a sproposito l'aggettivo "clandestini"), ed è - nel migliore dei casi - un essere umano genericamente bisognoso di aiuto, nel peggiore soltanto un problema sociale o l'oggetto di una polemica politica più o meno pretestuosa; raramente è un individuo meritevole di attenzione per via della sua particolare esperienza o delle sue specifiche qualità.
 Con questo splendido libro-verità, Melania Mazzucco si fa tramite del racconto della storia di una rifugiata, una donna congolese, la cui vicenda viene resa in tutta la sua drammatica tipicità, palesandone l'orrore, ma evitando di far gratuitamente vibrare le corde del pathos.
 Evidente è lo sforzo dell'autrice di non eclissare con il suo punto di vista quello della protagonista, che viene subito messa in primo piano, ma senza svelare troppo di lei; si fa anzi in modo che il lettore vi si avvicini e la conosca piano piano.
 Quando poi lo sviluppo narrativo ha svelato abbastanza del suo "salvataggio" in Italia, si lascia che la stessa Brigitte (questo il nome della donna) possa raccontare quello che le è successo, con la stessa asciutta fermezza e la stessa lucidità con cui ha permesso di ricostruire nel dettaglio la sua storia agli operatori del Centro Astalli che, a Roma, si sono presi in carico il suo caso, dopo averla trovata - grazie all'intervento di un religioso - alla Stazione Termini, in condizioni fisiche pietose e in preda a una totale confusione mentale.

Melania Mazzucco

 Solo a questo punto entra in scena in prima persona la narratrice Melania Mazzucco, che ci dice come è arrivata a occuparsi di rifugiati, come ha imparato a conoscere il Centro retto dai Gesuiti che offre soccorso e assistenza ai richiedenti asilo, come poi si è imbattuta in Brigitte Zébé. E' allora, con la palese estrinsecazione della personalità della scrittrice - e con una scrittura che si fa più distesa, meno "elettrica" - che si realizza un inquadramento prospettico dell'avventura della protagonista nel panorama più ampio dei fenomeni migratori e delle questioni che sollevano.
 Da ultimo, Melania e Brigitte diventano due donne con esperienze di vita molto distanti, con un retroterra culturale diversissimo, con prospettive esistenziali incomparabili, eppure in grado di trovare un terreno comune in cui riconoscere dei punti di contatto e imparare a comunicare da pari a pari.
 Quello che è accaduto a Brigitte è quasi impensabile per chi sia cresciuto sotto l'ombrello di uno Stato di Diritto e sia abituato ai nostri standard di vita. In Congo, a Matadi, la donna, nonostante fosse vedova e con quattro figli a carico, conduceva un'esistenza che potremmo definire "borghese": non solo possedeva un diploma di infermiera e faceva parte della Croce Rossa Internazionale, ma, grazie alla sua iniziativa imprenditoriale, era riuscita ad aprire una piccola clinica in cui lavoravano sotto la sua diretta responsabilità diversi medici e operatori sanitari.
 Un giorno erano venuti a farsi soccorrere nel piccolo ospedale alcuni uomini feriti negli scontri a fuoco scoppiati durante una manifestazione politica indetta contro il Vicegovernatore Déo Nkusu, già protetto del presidente Kabila. La sera stessa si era presentato alla clinica un colonnello dell'esercito, che pretendeva che Brigitte somministrasse ai feriti una sostanza che li avrebbe uccisi; in cambio, la donna avrebbe ricevuto un assegno per l'equivalente di 100mila euro.
 Davanti al rifiuto di Brigitte (legata, come i suoi medici, alla pronuncia del giuramento di Ippocrate), l'uomo se ne era andato senza protestare. Ma il giorno dopo erano venuti a casa sua dei soldati armati, che avevano ucciso suo fratello e avevano rapito lei, strappandola ai suoi figli. Brigitte era stata portata in una località segreta e chiusa in una cella stretta e buia, dove erano ammassati così tanti prigionieri che nessuno poteva stendersi sul pavimento.
 Nella cella non c'era un luogo deputato a fare i propri bisogni, e non si aveva la possibilità di mangiare né di bere, se non la propria urina. Ogni giorno i soldati venivano a prelevare gli uomini e le donne da interrogare con la tortura; quelli che non tornavano venivano chiusi in sacchi di juta e gettati in un fiume. Quasi ogni notte, Brigitte veniva presa e portata in una stanza dove i soldati la seviziavano e poi la violentavano a turno per ore, fino a lasciarla dolorante ovunque e quasi priva della ragione.
 Destinata anch'essa a un sacco di juta, Brigitte era riuscita a salvarsi solo grazie all'intervento di uno dei soldati, un graduato che aveva riconosciuto in lei la donna capace di assistere anni prima sua moglie in un parto difficile. Il soldato l'aveva fatta fuggire di nascosto; Brigitte tagliando per la foresta e per i campi, era riuscita a raggiungere la vicina carreggiabile e, nascondendosi nel cassone di un camion che trasportava fusti di olio di palma, era arrivata a Kinshasa. Qui aveva rintracciato fortunosamente un cugino che l'aveva aiutata a salire a bordo di un aereo, con la complicità di un amico deputato, del quale era stata presentata al check-in come la moglie. Partita con l'aereo, Brigitte aveva fatto scalo a Istanbul, e poi era atterrata a Roma. Il deputato, spaventatissimo dalle possibili conseguenze dell'appoggio dato a una presunta oppositrice del regime, l'aveva accompagnata a bordo di un taxi fino alla Stazione Termini, dove l'aveva abbandonata senza troppi complimenti con una banconota da venti euro in mano e nessun viatico.

Brigitte Zébé con il libro che racconta la sua storia

 Brigitte si era così ritrovata in una città per lei misteriosa, fiaccata fisicamente e destabilizzata mentalmente, senza conoscere una parola di italiano né di inglese, senza sapere dove fossero i suoi figli e se fossero ancora in vita; rapidamente si era lasciata andare, trasformandosi in una clochard.
 Senza l'intervento degli operatori del Centro Astalli sarebbe forse tuttora fra i tanti "invisibili" che, quasi dimentichi di sé, si incontrano talvolta nelle stazioni delle grandi città.
 La risalita di Brigitte dal buco nero in cui era precipitata è stata lenta e difficile, e resa possibile solo dagli psicologi, dagli avvocati, dai mediatori che si sono occupati di lei in Italia. Per lungo tempo la donna è vissuta nell'incertezza della sorte dei suoi figli ancora bambini, abbandonati senza parenti che potessero occuparsi di loro.
 E le sue peripezie, in verità, non sono terminate col suo salvataggio, né con la lunga attesa e i numerosi esami superati per ottenere lo status di rifugiata, e nemmeno con il commovente ricongiungimento con due dei suoi quattro figli rocambolescamente ritrovati in Congo.
 La sua non è necessariamente una storia a lieto fine, ma - come quella di tanti altri rifugiati approdati in Italia - una vicenda aperta, come aperta è la sua lotta per riconquistare un minimo di dignità, e la facoltà di mantenere da sola sé stessa e i suoi figli, con sulle spalle il fardello dei soprusi subiti e in aggiunta la zavorra del razzismo strisciante di un Paese che ella considera ormai la sua patria d'elezione, ma che - spesso solo per il colore della sua pelle -, pur senza dichiararlo apertamente, la ritiene inadeguata per svolgere persino i mestieri più umili.
 Questo è uno di quei libri che meritano di essere fatti leggere a scuola, perché contengono informazioni indispensabili per capire la realtà con cui abbiamo quotidianamente a che fare, e possono costituire il fondamento (anche emotivo) di un'educazione civica che non sia solo un rito formale.

Voto: 8 

Nessun commento:

Posta un commento