domenica 8 gennaio 2017

Enrico Camanni, "Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia", Laterza


 Alpi ribelli si presenta esteriormente come una galleria di personaggi “irregolari”, eretici, invisi al potere costituito, che nel corso della storia hanno trovato fra le montagne un rifugio sicuro per sfuggire ai loro persecutori, o hanno cercato un luogo separato per sperimentare un modo di vivere diverso, coltivando liberamente le proprie idiosincrasie, lontani dalla pianura - sede privilegiata delle istituzioni “ufficiali” - e dalle sue costrizioni. 
 Eppure l'indole di questo libro non è puramente tassonomica, e l'interesse che suscita non deriva soltanto dal fascino dei personaggi raccontati; infatti, se da una parte, per la loro morfologia naturalmente impervia, le valli montane hanno costituito sempre un mondo "altro" rispetto ai centri urbani della pianura, la diversità dell'ambiente alpino è mutata continuamente di segno a seconda dei luoghi e delle epoche in cui si è configurata, e di conseguenza sono mutate anche le geometrie del rapporto dei comprensori montani con le capitali politiche ed economiche dei loro territori di riferimento: le città e gli Stati su di esse focalizzati, di volta in volta, si sono completamente disinteressati alla "periferia" alpina, oppure hanno manifestato la tendenza a vederla come una propria appendice, destinata inevitabilmente ad essere ridotta al rispetto delle regole da essi imposte, e asservita alle proprie necessità. 
 Dal canto suo, la montagna ha efficacemente risposto alle due diverse facce del "colonialismo" cittadino, opponendogli talvolta l'inerzia dell'attaccamento alle proprie secolari tradizioni, e talaltra la vitalità di chi si dimostra capace di assorbire il meglio dal proprio competitore senza sottomettersi ad esso e senza rinunciare alla propria fondamentale identità.
 Questo schema, in realtà, è un po' andato in crisi con l'accelerazione imposta dalla modernità alla dialettica tra pianura e montagna: di fronte allo spopolamento delle medie valli dovuto alla forza attrattiva dello sviluppo industriale delle pianure, alla disordinata crescita edilizia dei villaggi d'altura dovuta al turismo di massa, alle piste da sci che hanno cancellato boschi e pascoli, alle strade asfaltate e alle funivie che hanno reso alla portata di tutti le valli più remote e i picchi più inaccessibili, la specificità della montagna può dissolversi per sempre; e chi tenta di difenderla con caparbia ostinazione rischia di scivolare nel puro velleitarismo.
 Per Camanni, per contrastare il "genocidio" della civiltà alpina, c'è un'unica possibilità: solo il recupero, da parte di chi ama veramente la montagna, della consapevolezza che il mondo alpino, nella sua complessità, presenta caratteristiche identitarie omogeneee, che meritano di essere difese con forza, tutelate e valorizzate, e contemporaneamente il ricorso all'antica capacità dei montanari di dialogare con il mondo cittadino senza sudditanza - e senza divenire schiavi di piccoli egoismi, di assurdi particolarismi o di stupidi pregiudizi - possono tenere aperta la strada stretta da imboccare per favorire lo sviluppo di un turismo davvero sostenibile, e per impedire la definitiva omologazione delle Alpi ai costumi e alla mentalità della pianura.
 In questa prospettiva, i personaggi presentati nel libro non appaiono semplicemente romantiche figure rappresentative di uno spirito antico ormai al tramonto, da ammirare e da rimpiangere nostalgicamente, ma diventano - anche quando sono votati alla sconfitta - campioni di una mentalità e di un modo di essere che è giusto mantenere in vita e prendere ad esempio.


Enrico Camanni

 Questa chiave di lettura funziona particolarmente bene per alcuni dei protagonisti delle storie proposte da Camanni, lontani o vicini nel tempo. Penso ad esempio, più che a fra' Dolcino, a Giosuè Janavel, mitico comandante dei resistenti delle valli valdesi contro la prepotenza dei Savoia nel XVII secolo. Penso a César-Emmanuel Grappein, il "comunista di Cogne", un medico che tra Settecento e Ottocento coltivò il sogno di sfruttare le miniere di ferro della sua terra a esclusivo beneficio dei valligiani. Penso a Tita Piaz, il "diavolo delle Dolomiti", protagonista dell'epoca d'oro delle guide, legato indissolubilmente alla val di Fassa e insieme aperto al mondo, tanto da saper difendere con fermezza e con straordinaria lucidità le proprie idee e la propria autonomia anche al cospetto del conformismo autoritario dei fascisti. Penso ai fratelli Berthalon, nativi del Delfinato, renitenti alla leva disposta in Francia per il gigantesco massacro della Grande Guerra in nome della fedeltà al precetto biblico "non ammazzare", e di una viscerale estraneità alle logiche di uno Stato nazionale a cui non sentivano di appartenere. 
 Penso, ancora, alla spiccata personalità di due donne come Mary Varale e Giovanna Zangrandi: la prima, formidabile compagna di cordata del mitico Emilio Comici in un'epoca in cui l'alpinismo non era considerato cosa per donne, fu capace di ritirarsi dall'attività quando la sua stella brillava più che mai, e di chiamarsi fuori dal Cai commissariato da politici al servizio del Regime; la seconda, insegnante decisa a rinunciare alle comodità e all'agiatezza di una vita borghese per amore della montagna, fu staffetta partigiana e in seguito autrice de I giorni veri, una delle migliori - per quanto misconosciuta - testimonianze della Resistenza in Italia. 
 Penso all'indimenticabile Franz Thaler, il "ricamatore di piume di pavone" (secondo la tradizione della nativa Val Sarentino), altoatesino di lingua tedesca che, nel 1939, all'epoca delle famigerate "Opzioni" (che consentivano ai sudtirolesi che ne facessero domanda di aderire al Reich ottenendone notevoli vantaggi) seppe dire di no al nazionalsocialismo anche in nome della fedeltà alla propria terra. Penso allo sguardo dolente di Nuto Revelli, costantemente rivolto al passato per poter meglio leggere i mali del presente. Penso al beatnik dell'alpinismo Gary Hemming, divenuto una celebrità a Chamonix negli anni sessanta, e poi morto suicida sulle Montagne Rocciose, travolto dalle proprie inquietudini.
 Notevoli sono i ritratti di personaggi in qualche modo noti al grande pubblico, che con le montagne ebbero a che fare, come la coraggiosa Tina Merlin - l'unica giornalista che non chiuse gli occhi dinanzi al crimine che si stava perpetrando nella valle del Vajont, e che deflagrò con la tragedia di Longarone - e il mite Alexander Langer, il più importante esponente dell'ecologismo in Italia, l'uomo che forse meglio di tutti incarnò la mentalità di cui questo libro vorrebbe essere manifesto (con il suo motto "più lento, più profondo, più dolce").
 Poi ci sono i miei preferiti, i personaggi poliedrici: Attilio Tissi, alpinista, imprenditore, uomo politico; Guido Rossa, alpinista, operaio e sindacalista, assassinato barbaramente dalle Brigate Rosse; Gian Piero Motti, alpinista, filosofo, scrittore. Uomini che dimostrano come l'amore per la montagna e la comprensione della montagna possono diventare più profondi e concreti se trasfigurati attraverso un'esperienza a tutto tondo.
 Alla galleria di personaggi non poteva naturalmente mancare Reinhold Messner, controverso quanto si vuole ma capace come pochi di proporre una sua visione della centralità della montagna e dell'omogeneità della civiltà alpina. 
 Più difficile da giudicare, infine, risulta per me la figura di Luca Abbà, in cui si compendiano tutte tensioni e le contraddizioni riconoscibili nel movimento No Tav, al centro di una vicenda che a mio parere è emblematica più dell'incapacità, tipica del nostro Paese, delle istituzioni centrali e delle periferie di dialogare proficuamente tra loro, che di un reale tentativo della civiltà alpina di elaborare, sulla base delle proprie autentiche radici identitarie, un progetto di autorigenerazione che possa guardare al futuro. 

Voto: 6,5

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