domenica 22 gennaio 2017

Sven Felix Kellerhoff, "Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf", Rizzoli


 Fino al 31 dicembre 2015, in Germania, la pubblicazione del Mein Kampf di Adolf Hitler era vietata: la impediva una determinazione del Land della Baviera, che deteneva legalmente i diritti d'autore, essendo stato nominato erede di tutte le proprietà dell'ex Fuhrer dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
 A questa linea di condotta - originariamente dettata dal proposito di impedire la propaganda delle idee naziste - il Governo bavarese non venne mai meno per tutto il dopoguerra, nonostante le ricorrenti proteste di molti studiosi, che pensavano fosse giusto dare la possibilità al pubblico di accostarsi criticamente a quella che era considerata la bibbia del nazionalsocialismo, per meglio capirne la genesi e le ragioni che ne determinarono le fortune politiche.
 Il divieto si riteneva cogente anche al di fuori dei confini tedeschi, ma in molti Paesi un controllo capillare sulla stampa e la diffusione dei prodotti editoriali era difficile da esercitare; io stesso, negli anni novanta del Novecento, ai tempi dell'Università, riuscii a procurarmi una copia in traduzione del testo presso un remainder, nonostante un giudice avesse disposto il sequestro di quell'edizione illegale (con tanto di svastica in copertina) pubblicata da un'oscura casa editrice legata a gruppi di nostalgici del Terzo Reich. 
 D'altra parte, una censura pervicacemente mantenuta finisce per stimolare la curiosità: non sorprende così che, nel 2016, allo scadere dei termini entro i quali è possibile esercitare il diritto d'autore, l'edizione commentata del libro finalmente messa a disposizione dei lettori in terra tedesca sia diventata un best seller, con quasi 86mila copie vendute.
 Il libro di Hitler è prolisso, noioso, approssimativo nei riferimenti filosofici, scadente dal punto di vista letterario, a tratti quasi illeggibile; l'impalcatura logica su cui si regge è assai traballante, e le idee cardine che vi sono espresse sono chiaramente il frutto di un'ossessione paranoica. Proprio per questo, più che temerlo, è importante studiarlo - e studiarne la storia - per comprendere come una simile accozzaglia di sciocchezze sesquipedali, in un determinato contesto socio-economico e culturale, abbia costituito un ingrediente importante di un insieme di fattori capace di scatenare una sequenza di eventi devastanti.
 Tale è il presupposto da cui parte l'attentissima ricerca di Sven Felix Kellerhoff sul testo e su tutto quello che vi è cresciuto intorno.
 L'autore comincia con un'analisi dettagliata dei contenuti del Mein Kampf; operazione indispensabile, visto che molti citano il libro e pretendono di parlarne senza averlo letto affatto. Il Mein Kampf  si presenta di primo acchito come un'autobiografia di Hitler, che però si trasforma presto in un manifesto teorico da cui scaturisce un programma politico. Le idee cardine che tengono insieme questo ammasso di aneddoti, sfoghi, invettive, fantastiche ricostruzioni di eventi storici reali, petizioni di principio, bizzarre convinzioni presentate come incontrovertibili verità, perentorie dichiarazioni d'intenti sono l'antisemitismo (che è la vera architrave di tutto il pensiero hitleriano) e una visione del processo storico come lotta tra gruppi nazionali di matrice razziale, basata su una versione assai rozza del darwinismo sociale.
 L'intento palesato è quello di indicare la direzione verso la quale il popolo tedesco e la razza germanica devono muoversi affinché possa compiersi il loro destino di dominazione degli altri popoli europei. I passaggi obbligati da affrontare per ottenere questo risultato sono, sul fronte interno, la ricostituzione della vera razza ariana attraverso l'espulsione di tutti gli elementi che ne inquinano la purezza, in primo luogo quello ebraico; in politica estera, l'abbandono della politica coloniale e la ricerca di una supremazia sul continente europeo, con l'isolamento e la neutralizzazione della Francia prima, e la ricerca dello "spazio vitale" a est poi. In quest'ottica, il nemico mortale della Germania è giocoforza la Russia, patria del "bolscevismo di matrice giudaico-massonica"; possibili alleati sono invece l'Inghilterra, a cui potrebbe essere lasciato il dominio degli Oceani e dei territori extraeuropei, e l'Italia fascista, che avrebbe nel Mediterraneo il proprio naturale bacino di espansione.
 La guerra, naturalmente, rappresenta l'indispensabile strumento per attuare in concreto questo programma.

Sven Felix Kellerhoff

 Passato in rassegna quello che il libro dice, Kellerhoff si dedica allo studio di documenti e testimonianze che ci raccontano come nacquero i due volumi del Mein Kampf: il primo volume - pubblicato il 18 luglio 1925 - fu battuto a macchina in gran parte dallo stesso Hitler nel 1924, nel carcere della fortezza di Landsberg, dove era rinchiuso in seguito al fallito "Putsch di Monaco" del novembre 1923.
 L'autore lavorava sulla base di scalette sovente assai dettagliate, preparate prima della redazione del testo vero e proprio. Falsa è la vulgata secondo cui il volume sarebbe stato dettato dal capo dell'NSDAP all'allora segretario e compagno di prigionia Rudolf Hess; pare invece che Hitler abbia coinvolto Hess solo dopo la stesura del testo, per discuterne con lui alcuni passaggi (come attestato dalle lettere dello stesso Hess ai familiari).
 Il secondo volume - pubblicato l'11 dicembre 1926 - fu invece dettato da Hitler a diverse dattilografe (tra cui certamente ci fu Herta Frey) fra il 1925 e il 1926, in varie località (ma in gran parte nel suo "rifugio" di Berchtesgaden), e poi rivisto nello stile e curato dal punto di vista redazionale da Ilse Prohl, futura moglie di Rudolf Hess.
 Assai interessante è la ricerca delle fonti del pensiero esposto da Hitler nel Mein Kampf: si tratta perlopiù di libri assai oscuri, pubblicati quasi tutti nel corso dell'Ottocento o nel primo Novecento, collocabili al di fuori del novero degli studi cui è possibile attribuire un minimo di autorevolezza dal punto di vista scientifico, e nati nell'ambito della composita costellazione ideologica dell'antisemitismo europeo. Un esempio rilevante dei riferimenti culturali del Fuhrer è costituito da quel clamoroso falso storico che sono i Protocolli dei Savi di Sion, più volte citati nel Mein Kampf  e utilizzati dagli antisemiti di tutto il mondo (è il caso di ricordare, negli Stati Uniti, Henry Ford, che fu un fervente ammiratore di Hitler) per sostenere l'esistenza di una congiura ebraica internazionale.
 Il concetto di "spazio vitale", invece, fu ripreso dalle teorie di Karl Haushofer, conosciuto da Hitler grazie alla mediazione di Rudolf Hess, che di Haushofer era stato allievo all'Università di Monaco.
 L'analisi dimostra come, sotto diversi aspetti, il Mein Kampf non sia un'opera particolarmente originale, ma derivi dalla citazione approssimativa, dalla combinazione e dalla rimasticatura di materiali vari, ascrivibili alla paccottiglia teorica della sottocultura nazionalista e razzista.
 Oltre all'attendibilità culturale, assai discutibile è anche l'attendibilità storica di quello che Hitler racconta nella parte autobiografica del suo libro: la sua infanzia e la sua giovinezza sono infatti rivisitate sorvolando su tutto quello che avrebbe potuto nuocere all'autore dal punto di vista politico, e presentando ogni avvenimento come un tassello di un mosaico biografico coerente col successivo sviluppo dell'ideologia nazionalsocialista. Si pensi, ad esempio, all'omissione della notizia dell'elusione del servizio militare nell'impero Austro-ungarico, alle fandonie raccontate da Hitler a proposito delle modalità del suo arruolamento nell'esercito bavarese dopo il suo trasferimento a Monaco (da "apolide") e lo scoppio della Grande Guerra, all'esaltato e inverosimile resoconto dell'unica battaglia a cui Hitler partecipò personalmente col reggimento List nel corso della guerra, quella di Gheluvelt nell'ottobre 1914 (poi, dopo essere stato promosso caporale nel mese di novembre, Hitler ricevette l'incarico di portaordini, e passò il resto della guerra lontano dalla prima linea). Si pensi, ancora, alle inesattezze narrate a proposito del proprio comportamento nel corso dei convulsi avvenimenti del 1919, e del proprio ingresso, nel settembre di quell'anno, nel Partito tedesco dei lavoratori.
 Come fu accolto il Mein Kampf alla sua uscita? I critici che lo presero in considerazione - quasi tutti appartenenti ad ambienti vicini alla destra - espressero giudizi negativi sia sullo stile sia sui contenuti, pur riconoscendo all'autore una certa forza e apprezzando il tentativo di cercare una strada per riportare la Germania verso la grandezza perduta. Qualcuno parlò addirittura della "più ricca raccolta di svarioni del mondo"; qualcun altro lo giudicò "un miscuglio di idee nietzschiane e darwiniane patinate".
 Il fatto è che i seguaci e i simpatizzanti del movimento di cui Hitler era il capo vi si riconobbero alla perfezione, e riconobbero tutto l'ardore di quello che Hess chiamava "il tribuno", e che era capace di esaltarli con i suoi discorsi incendiari; Goebbels ritenne il libro addirittura "meraviglioso". Tanto che, sulla scorta di simili pareri, Kellerhoff scrive: "il libro di Hitler non riuscì a convincere i lettori abituali colti, né tanto meno a conquistare la loro adesione al nazionalsocialismo. Al contrario fece perfettamente leva sulle emozioni delle cerchie nazionaliste e antisemite, e per di più con una retorica davvero travolgente".
 Le vendite, così, crebbero col crescere della fortuna del movimento politico nazionalsocialista: nei primi anni gli incassi non riuscirono neppure a ripagare gli anticipi piuttosto cospicui che l'editore (l'Eher-Verlag, lo stesso del Volkischer Beobachter) aveva versato a Hitler durante la fase di stesura; in seguito esplosero letteralmente, rendendo ricchissimo il suo autore prima ancora che giungesse a conquistare il potere.
 Fino al 1944 si calcola che furono vendute 12.400.000 copie del Mein Kampf, e ricerche condotte dall'esercito Alleato al termine della guerra portarono a concludere che - secondo stime prudenziali - almeno un tedesco su quattro avesse letto buona parte del libro del Fuhrer.
 Al cospetto di dati del genere, è lecito chiedersi quanto il Mein Kampf contribuì alla traduzione in atto delle idee naziste. Se si guarda all'evoluzione della carriera politica di Hitler, alle determinazioni giuridiche assunte dal suo Governo a partire dal 1933, e all'esplicarsi della politica estera della Germania negli anni trenta e quaranta, vi si ritrova moltissimo di quanto previsto nel libro.
 Vero è che lo sviluppo del processo storico che vide i nazisti protagonisti non fu sempre coerente né lineare: vi furono fasi in cui il Mein Kampf  dovette risultare anacronistico agli occhi dei tedeschi, e forse anche un poco imbarazzante per Hitler medesimo; si pensi, ad esempio, a quando i nazisti affermarono che il Sud Tirolo e i sudtirolesi "di nazionalità tedesca" dovessero essere sacrificati a un'alleanza con l'Italia fascista; o quando, nel 1939, si giunse a un compromesso con la Russia (il presunto nemico giurato della Germania e del popolo tedesco) per la spartizione della Polonia.
 Diciamo dunque che il Mein Kampf non fu un vero proprio manuale d'azione politica per i nazisti; rappresentò piuttosto uno strumento propagandistico e una guida ideologica doviziosamente ammannita a una generazione intera di cittadini tedeschi.
 Alla luce di tutte le questioni trattate da Kellerhoff, con che occhi occorre guardare oggi questo libro di eccezionale rilevanza storica? Bisogna innanzitutto affermare con forza che il Mein Kampf non ha nulla di stregonesco, e non deve quindi essere considerato tabù. Al contrario, è bene accostarvisi sulla scorta della consapevolezza delle terribili conseguenze prodotte dall'ideologia di cui è lo specchio fedele, ma senza paure irrazionali. Piuttosto, esso rappresenta un documento insostituibile per cercare di capire attraverso quali processi psicologici, in un'epoca non troppo lontana, il male abbia potuto farsi strada accanto a noi e dilagare in mezzo a noi.

Voto: 7,5             

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