domenica 19 marzo 2017

Daniele Rielli, "Storie dal mondo nuovo", Adelphi


 Storie dal mondo nuovo è una raccolta di dieci reportage realizzati da Daniele Rielli (giovane giornalista del Venerdì di Repubblica) su personaggi, luoghi, storie, fenomeni, ambienti i più vari, accomunati dai loro patenti addentellati con la contemporaneità e dal tentativo dell'autore di osservare quanto descritto "dall'interno", svincolandosi dai punti di vista con i quali vengono generalmente considerati i temi affrontati, e dai pregiudizi che inevitabilmente ne derivano. 
 La caratteristica più notevole di questi scritti risiede nel linguaggio utilizzato che, per un verso, fa sfoggio di una competenza terminologica assoluta, da "iniziato" degli ambiti sui quali si svolge l'indagine, impiegando sovente vocaboli tecnici e settoriali; d'altro canto, prova ad affrancarsi dalla pura e semplice gergalità, per elaborare uno strumento capace di rispecchiare una più evoluta coscienza critica e di restituire una visione problematica dello spicchio di realtà che viene raccontato.
 Il primo reportage si intitola Il retroscena, del retroscena del retroscena e rappresenta il Parlamento italiano dal punto di vista di un giornalista che ha libero accesso a quello che dovrebbe essere il "tempio" della democrazia rappresentativa, e che invece sembra un disco volante, abitato da alieni del tutto avulsi dalla realtà che si respira "fuori". Rielli riesce tutto sommato a rendere l'atmosfera asfittica di quell'ambiente particolarissimo, che è l'incubatrice del potere e delle sue logiche felpate, senza scivolare nei luoghi comuni di un populismo di maniera. Nel suo scritto ho ritrovato invece gli accenti di alcuni di quei "romanzi parlamentari" che andavano di moda all'inizio del Novecento (come ad esempio L'imperio di Federico De Roberto).
 Il secondo reportage, Disrupt!, è il resoconto di un evento londinese in cui i (mediamente giovani) titolari di startup operanti nei più diversi settori economici presentano (a colpi di pitch, brevissime presentazioni di pochi minuti ciascuna) i propri prodotti a una platea di giornalisti, possibili investitori e nerds, con la pretesa di rivoluzionare il mondo grazie all'utilizzo della tecnologia. La segreta ambizione di ognuno di quei giovani imprenditori (vestiti per lo più con felpa d'ordinanza) è quella di far diventare la propria azienda un "unicorno", cioè in un'impresa valutata più di un miliardo di dollari.
 Spesso le soluzioni proposte sono molto curiose: c'è una app che "fa parlare" gli oggetti che vengono inquadrati dalla telecamera dello smartphone, spiegando di cosa si tratta e quali sono gli argomenti ad essi correlati; c'è la startup che produce film in cui si possa virtualmente "entrare"; ci sono perfino soluzioni per produrre automaticamente sceneggiature cinematografiche a partire dalle predizioni probabilistiche sui potenziali incassi.
 Il problema è che, da una parte, non è affatto detto che aziende che propongono soluzioni anche molto brillanti, a conti fatti, facciano effettivamente guadagnare il venture capitalist che decide di investire su di loro; dall'altra, a dispetto di visioni futuribili che esaltano le magnifiche sorti e progressive della tecnologia, sembra che l'effetto più immediato dell'introduzione di alcune innovazioni "rivoluzionarie" sia semplicemente l'aumento delle marginalità di chi già possiede un'azienda ben avviata in un determinato settore e che può applicare l'innovazione tecnologica ottenendo una drastica riduzione della forza lavoro necessaria a rendere operativi i processi di produzione: i reali benefici per la collettività sarebbero minimi. E, tutto sommato, si può dire che nel mondo della Smart Technology ci sia anche un'enorme quantità di fuffa.
 I problemi sono altri è un'incursione nel mondo dei writers e degli street artists, ambiente che Rielli dice di aver brevemente frequentato nel corso della propria adolescenza. Il dilemma che accomuna queste discipline affini ma diverse è quello tra il desiderio di conservare un profilo "controculturale" e la tentazione di cedere alle lusinghe dei galleristi per entrare nel circuito dell'arte ufficialmente riconosciuta. Permangono, comunque, di questo universo alternativo, il fascino underground, l'importanza fondamentale della "street credibility" nel determinare le fortune di un artista e lo scorrere dell'adrenalina durante azioni che, a ben vedere, sono sempre considerate illegali e, in alcuni Paesi, espongono al rischio di pene anche molto pesanti.
 La fine della linea è un'immersione nel clima particolarissimo di "Little Odessa", il quartiere di South Brooklyn in cui si è concentrata nel corso dei decenni l'emigrazione - soprattutto ebraica - dall'ex Unione Sovietica, e dove oggi si conserva un'atmosfera tipicamente est-europea e caratteristicamente novecentesca, che nei Paesi di provenienza degli emigrati è totalmente scomparsa.
 Frank è la cronaca di un incontro con il leggendario Frank Serpico, lo sbirro italoamericano "abile nei travestimenti con i capelli lunghi e una fascinazione per controcultura e belle donne", che negli anni settanta per primo denunciò, rivolgendosi al New York Times, la sistematica corruzione della polizia di New York.
 Serpico rischiò di pagare con la vita il suo coraggio da whistleblower (i colleghi, che glie l'avevano giurata, fecero in modo che cadesse nella trappola di un gruppo di spacciatori e, quando fu colpito, non chiamarono i soccorsi, sperando che la sua ferita fosse mortale; non furono fortunati). Forse per questo, ancora oggi dichiara di stare dalla parte di personaggi come Manning, Assange e Snowden, e non crede nel mito della democrazia americana. Con tutte le sue bizzarrie e il suo pittoresco modo di essere, appare comunque una figura davvero bigger than life.

Daniele Rielli

 Duecentoventi voti è la storia dell'interessantissima, progressiva scoperta da parte dell'autore dell'Albania contemporanea (grazie anche a un occasionale amico, il Pedrazzi), che ha da tempo superato il trauma della caduta della dittatura socialista (che lì ebbe per molto tempo le sembianze del terribile Enver Hoxha), e si è aperta ai nuovi miti turbocapitalisti, smettendo di guardare all'Italia come a una terra promessa, e trovando piuttosto nuovi punti di riferimento culturali nella Germania e negli Stati Uniti.
 L'ultimo rave è il racconto di un pazzo weekend passato al Mugello per l'annuale Gran Premio di Moto GP, fra i fans dell'ultimo grande mito dello sport italiano, quel Valentino Rossi che si avvia verso il tramonto di una carriera irripetibile. Il tutto, tra motori (di auto, motociclette o anche di motoseghe) spinti al massimo giorno e notte per fare più rumore possibile, e i roghi simbolici delle effigi dei principali avversari del "46 giallo".
 L'anomalia è probabilmente uno dei pezzi più interessanti, ed costituito da un'informatissima ricognizione dell'universo di quella declinazione del Poker tradizionale che è il Texas Hold'em, fra professionisti con un profilo più simile a quello di analisti finanziari che di classici giocatori d'azzardo (capaci comunque di guadagni calcolabili in decine di migliaia di euro al mese), e Fishes - danarosi ludopatici da spogliare delle loro sostanze (che, quando sono particolarmente cospicue, individuano una Whale).
 Nell' Hold'em, è fondamentale distinguere tra i tornei on line e quelli "in presenza" (Rielli ha l'occasione di assistere ad uno di questi in Montenegro, dove si reca al seguito di un professionista italiano), il ruolo fondamentale della statistica e l'ineliminabile incidenza della varianza nel succedersi delle partite, le strategie classiche e i mutamenti negli stili di gioco determinati dall'avvento di internet e dall'ingresso nel circuito di amatori sufficientemente preparati e talvolta abbastanza fortunati da sbaragliare la concorrenza dei più agguerriti tra i professionisti (come nel caso, divenuto di scuola, di Chris Moneymaker, il pokerista dilettante dal nome profetico capace di vincere 2,5 milioni di dollari nel main event delle World Series del 2003).
 Fasano, India è la cronaca di un fantasmagorico matrimonio fra i rampolli di due delle più ricche famiglie indiane, che nell'agosto del 2014 ha avuto come location la Puglia, e di cui hanno abbondantemente parlato anche i giornali nazionali. Vero regista dell'evento risulta essere il discusso Sindaco di Fasano, Lello Di Bari, promotore nella propria area geografica delle condizioni capaci di attirare un turismo di ultralusso, appannaggio esclusivo di personaggi super-danarosi, indipendentemente da qualsiasi considerazione sul rispetto dell'ambiente e sulla prospettiva di una gestione "democratica" del territorio e delle sue bellezze.
 Il decimo e ultimo reportage si intitola Io che ho attraversato l'Alto Adige. Il titolo è tratto da una battuta del film Totò e Peppino divisi a Berlino, ma rispecchia il vissuto personale di Rielli, che a Bolzano è nato - da una famiglia di italiani ivi emigrati dal Meridione - e lì ha vissuto l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza. Il pezzo è secondo me il più bello dell'intera raccolta, forse perché appare immediatamente il più sentito: si tratta infatti di un'analisi approfondita e di una denuncia esplicita dell'anomala, assurda situazione in cui - al cospetto della totale indifferenza di tutti gli osservatori - versa da anni il Sudtirolo-Alto Adige.
 Qui, nel cuore dell'Europa delle democrazie, risulta operante da tempo un sistema che non si può che definire di Apartheid, e che, sotto l'ombrello dell'autonomia, concede alla comunità maggioritaria di lingua tedesca vantaggi di ogni tipo sulla minoranza italiana. Gli effetti della discriminazione sono appena mitigati dal generale benessere in cui versa una Provincia che beneficia di notevolissimi contributi economici dallo Stato italiano.
 A una situazione del genere, nemica di ogni forma di civile convivenza e di compiuta integrazione, si è giunti per via di una sostanziale resa dello Stato alle rivendicazioni di una comunità tedesca sovente guidata da personaggi legati a filo doppio all'ideologia nazista, e portatori di un pensiero di matrice manifestamente razzista, che hanno condotto la loro lotta attraverso una propaganda martellante supportata negli anni da azioni terroristiche (con censurabilissimi protagonisti quali Georg Klotz) che hanno avuto come bersaglio le infrastrutture e gli uomini delle istituzioni italiane, e che hanno causato, fino alla fine degli anni ottanta, ben tredici morti innocenti.
 Oggi le norme vigenti, figlie di quella stagione sciagurata, vietano di fatto un trattamento paritario di italiani e tedeschi, e sono pensate per perpetuare separazioni che impediscono a chiunque di sperare in una maggior compenetrazione tra le due comunità (le scuole miste per esempio sono, se non esplicitamente vietate, di fatto fortemente scoraggiate), esaltando quello che le unisce anziché quello che le divide.
 La conclusione dell'articolo è magistrale, ed è il caso di riportarla integralmente:
 "Di fronte a questo territorio si aprono oggi solo due possibilità.
 La prima, auspicabile, che l'Alto Adige diventi un po' più simile al resto d'Europa.
 La seconda, radicale, impronunciabile eppure non impensabile, è che sia il resto d'Europa, assediato da flussi di migranti, attentati e nuovi populismi, a riscoprire il sangue e il suolo, a somigliare sempre di più all'Alto Adige".
 Nel complesso, il libro costituisce una lettura molto gradevole e istruttiva. La varietà dei temi trattati è compensata dalla consistenza della personalità letteraria dell'autore, che impedisce all'eterogeneità contenutistica di diventare un elemento destrutturante. Forse il limite più grande della raccolta è un certo autocompiacimento stilistico che si sente in vari passaggi, ma che non inficia la generale bontà del dettato.

Voto: 6,5             

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