(Recensione di Laura Uva, neurobiologa)
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
sta dedicando grande attenzione alla depressione, considerata un problema
globale, poiché affligge complessivamente 350 milioni di persone: si prevede
che nel 2020 essa sarà la seconda causa di disabilità al mondo.
Ma cos’è di preciso la depressione? L’OMS la definisce come un “comune disordine mentale,
caratterizzato da umore depresso, perdita d’interesse e piacere, diminuita
energia, sentimenti di colpa o di auto-svalutazione, disturbi del sonno e
dell’appetito, e ridotta concentrazione”.
La condizione di depressione non deve essere confusa
con la tristezza normale, che è una
risposta psicologica, adattativa comune in condizioni avverse (lutto, perdite
economiche, delusioni…).
La prima definizione di depressione risale al
V-VI secolo a.C., e venne elaborata da Ippocrate. A quei tempi si parlava di melancolia, una condizione
caratterizzata da paura e scoraggiamento per tempi prolungati, attribuita ad un
eccesso di bile nera (uno dei quattro umori contenuti nel corpo umano).
Fu con Adolf Meyer, psichiatra di origine
svizzera emigrato negli Stati Uniti nel 1892, che si ebbe la sostituzione della
categoria di melancolia con quella di depressione.
Nel 1952 fu pubblicata la prima edizione del Manuale
Statistico Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM) da parte dell’Associazione
Psichiatrica Americana, che rispondeva alla necessità di istituire uno
strumento condiviso per la diagnosi delle malattie mentali; il Manuale si
limitava però a considerare i sintomi, e non i meccanismi o le cause interne o esterne
determinanti la malattia. Alla prima edizione ne seguirono altre, fino alla DSM-V
presentata nel 2014.
Secondo il DSM-III (pubblicato nel 1980), per
la diagnosi di depressione (non maniacale) si devono soddisfare tre condizioni: 1) umore disforico; 2) almeno 5 tra i sintomi indicati in un lungo elenco di
possibili manifestazioni della patologia (come ad esempio la perdita di peso,
la spossatezza, l’agitazione permanente, l’insonnia, ecc.) e 3) la durata
continuativa per almeno un mese dei sintomi stessi, senza l’intervento di altre
malattie. Inoltre si venne a definire il disturbo depressivo maggiore (MDD), disturbo
unipolare distinto da altri disturbi depressivi.
Ancora assente risulta la distinzione tra
tristezza come normale emozione e tristezza morbosa, con il rischio quindi
della patologizzazione di persone incidentalmente incappate in momenti
difficili in modo non-patologico (questa condizione viene invece descritta e
riconosciuta in un documento pubblicato nel 2012 dell’OMS).
La definizione di MDD e la diffusione di scale
psicometriche utilizzate per valutarne l’intensità (per esempio la scala di
Hamilton) portò a una crescita dei casi di depressione diagnosticati e, in
parallelo, ad un aumento della prescrizione dei farmaci antidepressivi.
E tuttavia non si può non notare come, dal
momento dell’introduzione dei farmaci antidepressivi, il numero dei depressi
non risulta diminuito. Questa osservazione apre una serie di quesiti riguardanti l’accuratezza della diagnosi e l’efficacia degli antidepressivi
stessi.
Giova a questo proposito notare che anche i
rimedi per la depressione hanno una loro storia, che ha visto il succedersi nel
tempo di diversi approcci. Per quanto
riguarda la farmacoterapia, i mezzi a disposizione della psichiatria
nell’Ottocento e nel Novecento erano piuttosto limitati. Dopo la seconda guerra
mondiale si ebbero invece importanti scoperte riguardanti meccanismi
biochimici, i neurotrasmettitori cerebrali e, sul versante farmacologico, lo
sviluppo degli psicofarmaci.
Con gli anni ’50 iniziò l’utilizzo di due
farmaci antidepressivi: imipramina e iproniazide, capostipiti degli
antidepressivi triciclici (TCA) e degli inibitori delle monoaminossidasi (MAOI).
Fu invece alla fine degli anni ’80 che fece il suo ingresso sul mercato la
fluoxetina (il famoso Prozac), che agisce come inibitore della ricaptazione
della serotonina (SSRI).
Tullio Giraldi
Il Prozac è stato un grande blockbuster,
prescritto a 40 milioni di persone, tanto da essere definito dalla rivista Fortune
“il prodotto farmaceutico del secolo”.
Ma come agiscono in effetti gli antidepressivi?
E, soprattutto, si possono oggi trarre conclusioni incontrovertibili sulla loro
efficacia?
I TCA e gli SSRI agiscono rispettivamente inibendo,
il primo, la ricaptazione della noradrenalina e della serotonina, e, il
secondo, la ricaptazione della sola serotonina, con un aumento della sua
concentrazione nello spazio extracellulare.
Questo meccanismo d’azione è a favore della
teoria del deficit della trasmissione monoaminergica (noradrenalina e
serotonina sono delle monoamine) nella depressione, la cui validità però non è mai
stata direttamente dimostrata, e anzi è messa in discussione da una serie di
evidenze cliniche che l’autore riporta.
Sull’efficacia dei farmaci antidepressivi sono
stati eseguiti diversi studi che, nel loro insieme, portano alla conclusione
che la terapia farmacologica antidepressiva è efficace solo per le depressioni
gravi (in cui l’effetto placebo è meno rilevante) e in acuto, mentre la loro
efficacia a lungo termine va ancora dimostrata.
Anche lo studio STAR*D (Sequenced Treatment
Alternatives to Relieve Depression), iniziato nel 2000 negli Stati Uniti e
durato sei anni, in cui furono analizzati gli esiti di una terapia a più step
somministrata a pazienti con MDD, non ha fornito risultati confortanti
sull’efficacia del trattamento.
Studi recenti, infine, hanno messo in evidenza
come la combinazione del genotipo (in particolare la lunghezza del promotore del
gene che regola il trasportatore sinaptico della serotonina, bersaglio degli
SSRI) e di eventi di vita stressanti sia importante per il manifestarsi
della patologia, e nel determinare la sua severità. Altri studi hanno di volta in volta
ridimensionato o riconfermato l’importanza di questo gene.
L’ultimo aspetto che prende in esame l’autore
è la sicurezza dei farmaci antidepressivi. Rispetto a TCA e MAOI (che causano
seri effetti avversi), si ritiene che i farmaci SSRI abbiano meno effetti
collaterali, anche grazie alla loro azione più selettiva. In realtà, anch’essi possono
procurare effetti collaterali importanti. Il più sorprendente (sebbene poco
frequente) è l’aumentato rischio di suicidio, cosicché sulle confezioni del
farmaco negli Stati Uniti è obbligatorio indicare il maggior rischio suicidario
tra i 18 e i 24 anni.
Proprio la maggiore tollerabilità degli SSRI
ha fatto sì che questi venissero prescritti anche per le forme più lievi di
depressione o per altre condizioni consimili, quali attacchi di panico o
disturbi alimentari. In più, il fatto che la diagnosi di depressione si basi solo
sulla sintomatologia ha fatto sì che la diagnosi di MDD andasse ad includere anche
casi più moderati, se non addirittura stati d’animo di tristezza “normali”, a
cui segue la prescrizione di farmaci antidepressivi.
Va inoltre segnalata la pressione operata dai
produttori per aumentare il numero delle prescrizioni degli antidepressivi.
Questo fornisce all’autore l’occasione per avanzare il sospetto che, nel
trattamento farmacologico della depressione, si sia verificata una perdita di
valori etici e scientifici a favore del marketing e delle industrie
farmaceutiche, e che sia stata assai discutibile, in questo settore, la gestione
dei trial clinici che precedono la messa in commercio dei nuovi farmaci. Anche
l’autorevolezza e l’integrità della comunicazione scientifica medica sembrano talvolta
vacillare a causa di conflitti d’interesse o di rapporti con i media o le ditte
farmaceutiche.
Buoni risultati sono stati ottenuti in Gran
Bretagna grazie all’applicazione delle linee-guida per il trattamento della
depressione elaborate dal NICE (National Institute for Health and Clinical
Excellence), in cui, tra le varie indicazioni, si stabilisce l’abbandono o la
riduzione dell’utilizzo dei farmaci antidepressivi nel caso di depressione
lieve o moderata, o con sintomi “sotto-soglia”, e in cui viene dato spazio alla
psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Un altro approccio interessante per l’attenuazione
delle manifestazioni ansiose e depressive si basa invece sulla meditazione;
questo metodo è da intendersi non per i malati mentali, ma nel caso di stati
non morbosi. Naturalmente un approccio non esclude affatto l’altro.
Le problematiche affrontate nel libro sono interessanti
e attuali: è sotto gli occhi di tutti l’aumento dell’incidenza delle patologie
depressive (in 10 anni si è avuto un aumento dei casi di quasi il 20%), tanto
che qualcuno si è spinto a definire la depressione “il male del secolo”.
Risulta senz’altro utile, quindi, fare il
punto della situazione.
A questo scopo concorre la definizione del
percorso storico del progresso delle conoscenze sulla malattia e sul suo
trattamento, fino ad arrivare al giorno d’oggi.
Significativa è in particolare la conclusione
a cui si giunge: tutto al momento è ancora nebuloso. perché mancano molti
tasselli al puzzle che in futuro potrà descrivere compiutamente i meccanismi
che stanno alla base della depressione.
Le informazioni che vengono fornite
dall’autore sono giocoforza numerose e complesse, anche perché, in mancanza di
una solida definizione di questa categoria patologica, è
indispensabile rendere conto dei punti di vista diversi e delle opinioni
talvolta contrastanti di vari studiosi per fornire un quadro completo della
considerazione clinica della depressione al giorno d’oggi.
Questo naturalmente implica il moltiplicarsi
degli approcci e delle tematiche che vengono trattate, richiamando concetti frammentari e talvolta ostici per chi non abbia una formazione scientifica più che solida: la
lettura risulta di conseguenza non sempre semplicissima.
In conclusione, a chi consigliare questo libro? In primo luogo, a chi ha specifico interesse a conoscere come è stato affrontato il problema della depressione nel tempo. E' bene però segnalare che solo il possesso di nozioni neuroscientifiche di base potrà permettere la comprensione integrale di un saggio che ha ambizioni che vanno oltre la pura divulgazione.
P.S. davvero troppo numerosi risultano nel testo i refusi e le sviste grammaticali, che spesso infastidiscono il lettore, e denunciano un difetto a livello di cura redazionale che non fa onore a una casa editrice seria come Il Mulino.
Voto: 6,5
In conclusione, a chi consigliare questo libro? In primo luogo, a chi ha specifico interesse a conoscere come è stato affrontato il problema della depressione nel tempo. E' bene però segnalare che solo il possesso di nozioni neuroscientifiche di base potrà permettere la comprensione integrale di un saggio che ha ambizioni che vanno oltre la pura divulgazione.
P.S. davvero troppo numerosi risultano nel testo i refusi e le sviste grammaticali, che spesso infastidiscono il lettore, e denunciano un difetto a livello di cura redazionale che non fa onore a una casa editrice seria come Il Mulino.
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