lunedì 19 giugno 2017

Mohsin Hamid, "Exit West", Einaudi


 Già autore di quel libro magistrale che è Il fondamentalista riluttante, Mohsin Hamid propone questa volta una sorta di fantaromanzo d'attualità che, con mossa paradossale, spoglia la vicenda raccontata (per il resto perfettamente incastonata nella concretezza della cronaca quotidiana) di molti dei più puntuali riferimenti storico-geografici, per proiettarla idealmente su uno sfondo universale ed extratemporale.
 Protagonisti della storia sono Saeed e Nadia, due giovani istruiti, di estrazione medio-borghese, che vivono e si incontrano in una città mediorientale (o forse orientale tout court) attraversata da pericolose tensioni sociali e interreligiose, che la spingono costantemente sull'orlo del baratro della guerra civile: potremmo essere allo stesso modo a Damasco, ad Aleppo, a Beirut, a Tripoli, a Kabul, o a Lahore.
 Lui è figlio di due insegnanti moderatamente progressisti, è appassionato di astronomia, lavora per un'agenzia pubblicitaria, porta una barba non troppo folta, prega regolarmente come gli hanno insegnato i genitori, ma è aperto alla modernità e ben disposto verso il mondo. Lei porta una lunga tunica nera che la copre dalla gola fino alla punta dai piedi, ma lo fa solo per nascondere la sua indole anticonformista e la sua fiera indipendenza, mimetizzandosi al meglio in un ambiente in cui molti non vedono di buon occhio una donna autonoma e ribelle; non ha l'abitudine di pregare e, appena ha potuto, ha abbandonato la sua famiglia d'origine, di tendenze tradizionaliste, per andare a vivere da sola in un monolocale, mantenendosi con il suo lavoro presso una compagnia assicurativa.
 Saeed e Nadia approfondiscono la loro conoscenza, si piacciono e cominciano a frequentarsi proprio mentre la loro città scivola inesorabilmente verso la tragedia: le milizie radicali da tempo attive nel loro Paese, infatti, procedendo quartiere dopo quartiere, conquistano sempre più terreno, arrivano a controllare interi settori dello spazio urbano imponendovi la propria mentalità e le proprie leggi, e spazzano via la libertà di vivere ciascuno a modo proprio.
 A poco a poco muoversi per le strade diventa più pericoloso, più difficile comunicare a distanza, e l'idea stessa della "normalità" viene erosa fino a essere trasformata in un inutile guscio vuoto. Lavorare non è più possibile, fra gli agguati, le sparatorie, le bombe: sia l'agenzia pubblicitaria di Saeed sia la compagnia assicurativa di Nadia, improvvisamente, chiudono. Chi si affaccia alle finestre dei palazzi, ora, lo fa a rischio della vita. E un giorno accade che la madre di Saeed venga uccisa da una pallottola vagante, mentre si trova sulla sua auto, china a cercare qualcosa che è rotolato sotto al sedile.
 Nadia si trasferisce allora a casa del fidanzato, a cercare di confortare la sua famiglia menomata; ma, quasi da subito, fuggire da lì diviene il pensiero dominante dei due ragazzi, perché tutto appare ormai impossibile, perché l'idea stessa del futuro è difficile da concepire: e allora l'imperativo diventa uscire da quella prigione in cui la loro patria si è trasformata. D'altra parte, di tanto in tanto, anche in una città come quella, vi sono delle porte segrete che in maniera inattesa si aprono a consentire un'uscita verso altri mondi, verso quei veri e propri universi paralleli che ai loro occhi appaiono i Paesi in cui non infuria la guerra, e dove persino il tempo sembra scorrere diversamente: delle Exit West, dei passaggi verso l'Occidente.

 Mohsin Hamid

 Una di queste porte viene imboccata da Nadia e Saeed, che nell'intraprendere il loro viaggio che non contempla un ritorno si lasciano dietro tutto quello che hanno avuto e che sono stati fino a quel momento: le loro case, le loro cose, i loro amici, il padre di Saeed. Così, come d'improvviso, come per effetto di un rude teletrasporto, si ritrovano sull'isola greca di Mykonos, fra altri migranti, fra genti di tutte le etnie che parlano tutte le lingue.
 Ma Mykonos è solo una stazione di transito; ben presto un'altra porta si apre, e i due ragazzi si ritrovano a Londra; una Londra per certi versi assai simile alla metropoli internazionale che ben conosciamo, per altri versi assimilabile a una babele postapocalittica, divisa in quartieri in cui si affrontano - gli uni contro gli altri armati - migranti di tutte le nazionalità e quei "nativisti" che hanno concepito verso di loro un odio viscerale e implacabile.
 A Londra Nadia e Saeed vivono in un caseggiato abitato per lo più da nigeriani, dove il giovane più della sua compagna non riesce mai a sentirsi realmente a proprio agio. Le circostanze mutate, fra l'altro, paiono scavare un solco sempre più profondo fra i due ragazzi, che faticano a ritrovare l'antico interesse l'uno per l'altra, e a rinfocolare la potente corrente erotica che un tempo li attraeva vicendevolmente; anche quando si trasferiscono in un quartiere periferico, si mettono a lavorare con altri migranti per un'impresa di costruzioni, e tornano a dare un senso compiuto allo scorrere delle giornate, la freddezza fra di loro persiste.
 L'ultima scossa a tutto quello che sono stati in quanto coppia la ricevono in seguito all'ultimo trasferimento, quando una nuova porta si apre in maniera inattesa e li trasporta oltreoceano, in California. Qui comincia davvero una nuova vita per Nadia e Saeed, che ben presto non è più la vita insieme che avevano immaginato al momento della fuga dalla loro patria: lei, infatti, si innamora di una donna, la cuoca della cooperativa alimentare presso cui si è messa a lavorare; lui invece intreccia una relazione con la figlia del predicatore della piccola comunità religiosa a cui si è accostato. E la nuova situazione in cui si trovano finisce per dividerli definitivamente.
 Nell'ultimo capitolo del romanzo, in un'immaginifica proiezione verso un futuro ipotetico, Saeed e Nadia si ritrovano: è passato mezzo secolo dalla loro fuga, e tutti e due sono tornati nella loro città, finalmente in pace. Lei è una donna anziana con una tunica nera, lui un uomo anziano con la barbetta; bevono insieme un caffè seduti al tavolino di un locale all'aperto, e ripercorrono il tragitto delle loro vite separate. Poi ricordano un loro vecchio sogno, quello di contemplare insieme le stelle nei deserti del Cile; ancora piacerebbe a entrambi poter dar corpo, una sera, a quel desiderio. Ma infine si separano abbracciandosi, "senza sapere se quella sera sarebbe mai venuta".
 Il libro di Hamid ha uno spessore realistico e uno spessore simbolico, e su tutte e due i versanti offre una vivida rappresentazione e una efficace chiave interpretativa di un mondo turbolento e tormentato, percorso da tempestose correnti che trascinano gli uomini come naufraghi, e li separano, e li mescolano, e li perdono, senza riguardo alcuno per i loro pensieri, le loro opinioni, le loro aspirazioni, e le legittime speranze che nutrono per il domani. Per questo, soprattutto in alcuni passaggi, il racconto riesce a far vibrare le corde profonde della sensibilità del lettore.
 Ma ad un'analisi più attenta, l'architettura diegetica appare meno equilibrata e il piglio narrativo meno graffiante di quelli delle opere migliori di questo autore: i protagonisti Saeed e Nadia non riescono mai a trasformarsi nei personaggi archetipici che si vorrebbe che fossero; i dodici, misurati capitoli che si susseguono con cadenza regolare (secondo quella lineare concezione della scansione narrativa che avevo tanto ammirato nel Fondamentalista riluttante) non risultano lapidari come pretenderebbero di diventare; e anche gli spunti più interessanti proposti dalla storia rimangono sospesi in una parziale indeterminatezza che non convince fino in fondo.
 A conti fatti, questa volta lo scrittore anglo-pakistano si ferma decisamente a qualche passo di troppo dall'eccellenza.

Voto: 6,5     

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