domenica 21 gennaio 2018

Enrico Camanni, "Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti", Laterza


 Enrico Camanni ricostruisce, sulla base di attentissime ricerche documentarie, la vita e la carriera di Giusto Gervasutti, detto "il Fortissimo", uno degli alpinisti italiani di maggior talento di tutti i tempi, uno degli uomini di punta dell'epoca d'oro del Sesto grado - gli anni trenta e quaranta del Novecento -, la fase storica in cui l'alpinismo raggiunse una popolarità eccezionale, e divenne qualcosa di più di una semplice disciplina sportiva.
 Cominciarono allora ad andare in montagna classi e categorie che fino a quel momento erano state escluse da questa pratica, e i regimi autoritari al potere in Europa vollero sfruttare questa nuova passione a scopo propagandistico, nutrendo una retorica che faceva dell'alpinista il simbolo stesso dell'ardimento, e lo trasformava nell'eroe pronto al sacrificio estremo pur di mietere fra le vette strabilianti successi a maggior gloria della Patria: nella corsa alla conquista delle grandi pareti (principalmente la parete Nord del Cervino, le Grandes Jorasses e la Nordwand dell'Eiger), "gli ultimi problemi delle Alpi", molti giovani, soprattutto di origine tedesca e austriaca, ci rimisero la vita.
 In tale contesto, Gervasutti seppe distinguersi per l'originalità del suo approccio - al contempo estremamente moderno, in anticipo sui propri tempi, e perfettamente classico, sobriamente legato all'etica dei grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento, Albert Frederick Mummery in primo luogo - e per la sua complessa personalità.
 In parete, cercava sempre di seguire una linea di salita assolutamente elegante, che si avvicinava il più possibile alla verticale, e realizzava le proprie scalate con una eccezionale economia di mezzi e di movimenti (configurando uno stile che si affermò pienamente fra gli alpinisti solo vent'anni dopo di lui); sovente prediligeva inoltre il tentativo di disegnare una "bella via" alla ricerca del successo a tutti i costi: non a caso si fece soffiare da altri alcune prime ascensioni sulle montagne che meglio conosceva, e che sarebbero state certamente alla sua portata.
 Sul piano teorico, invece, non smise mai di interrogarsi sul significato profondo della propria attività, sul proprio bisogno di scalare, di mettersi alla prova, sul brivido (che oggi chiameremmo adrenalinico) che gli donava l'anelito alle altezze, sul desiderio di staccarsi dalle meschinità della vita quotidiana per attingere a una dimensione "assoluta".
 Nativo di Cervignano del Friuli (che in montagna non è), classe 1909, di famiglia borghese, Gervasutti crebbe lontano dalle grandi cime e imparò ad arrampicare sul calcare delle Dolomiti.  Scoprì le Alpi occidentali solo durante il servizio militare, e se ne innamorò perdutamente, tanto che, nel 1931, si trasferì a Torino proprio per assecondare la propria passione per la montagna.
 Nella città sabauda si attraversava allora la fase in cui il movimento alpinistico italiano - con il CAI ormai colonizzato dalla politica fascista e trasferito d'ufficio a Roma -, cercava un'occasione di rilancio soprattutto grazie all'iniziativa del Club Alpino Accademico sotto la presidenza del magistrato Umberto Balestrieri. Balestrieri, uomo dal limpido profilo morale e dalla spiccata indipendenza intellettuale, morirà presto in montagna; ma fu sull'onda del suo esempio che prese l'abbrivio la carriera dei migliori giovani alpinisti torinesi dell'epoca, fra i quali si palesarono come stelle di prima grandezza Gabriele Boccalatte e Giusto Gervasutti (Gervasutti, fra l'altro, fu sempre molto vicino alla famiglia Balestrieri: la figlia di Umberto, Maria Luisa, che all'epoca della scomparsa del padre aveva solo 12 anni, una volta cresciuta divenne per il friulano molto più di una semplice amica).
 Non è mai stata fatta piena luce sulla vita extra-alpinistica che Gervasutti conduceva a Torino: sappiamo dove abitava, sappiamo che presto lo raggiunsero dal Friuli i suoi genitori, e sappiamo anche che inizialmente si presentava come "studente", sebbene non sia chiaro quali studi abbia effettivamente condotto. Solo a partire dal 1936 conquistò una piena indipendenza economica, diventando a tutti gli effetti un imprenditore (si occupò dapprima del commercio di materie prime e di prodotti semilavorati, e successivamente, dopo l'inizio della guerra, di editoria; nel contempo era diventato istruttore presso la scuola di alpinismo che fu intitolata a Gabriele Boccalatte dopo la scomparsa di quest'ultimo).

 Enrico Camanni

 Le imprese di maggiore rilievo dal punto di vista alpinistico compiute da Gervasutti sono racchiuse negli anni tra il 1936 e il 1942. Il 1936 è l'anno dell'Ailefroide, nel Delfinato, in coppia col francese Lucien Devies: una parete affrontata in precarie condizioni fisiche dopo una sciocca caduta durante la marcia di avvicinamento, con due costole incrinate e i denti rotti. Nel 1938 Gervasutti scala il pilastro del Pic Gugliermina, sul Monte Bianco, in coppia con Gabriele Boccalatte, esaltando sul granito la propria abilità di arrampicatore libero. Nel 1940 espugna il pilone di destra del Freney, in quello che è forse l'angolo più remoto del massiccio del Bianco, in tempo di guerra, in coppia con il giovanissimo Paolo Bollini. Infine, nel 1942, quella che è forse la realizzazione più prestigiosa del Fortissimo: la parete est delle Grandes Jorasses insieme a Giuseppe Gagliardone.
 Gervasutti morì nel 1946, a soli 37 anni, probabilmente per un banale incidente mentre cercava di liberare una corda impigliata sul Mont Blanc du Tacul, durante la discesa. Molti anni passarono da allora prima che la sua grandezza venisse pienamente riconosciuta. Questo avvenne, in parte, perché i principali rivali che ebbe in Italia negli anni trenta, Riccardo Cassin ed Emilio Comici, raccolsero più di lui in termini di "prime" e di realizzazioni prestigiose; d'altra parte, Camanni fa notare come il suo modo di intendere l'arrampicata non fu del tutto compreso da chi considerò la sua figura: qualcuno scambiò il suo problematico sentimento dell'atto dello scalare - inteso come tentativo eternamente frustrato di liberarsi delle pastoie che impediscono all'uomo di nobilitare una volta per tutte la propria natura - per il chiaro indizio di una visione nietzchiana, fondamentalmente superomistica e surrettiziamente parafascista della passione per la montagna e dell'esistenza stessa.
 Qualcun altro, come Gian Piero Motti - intellettuale, storico dell'alpinismo, alpinista egli stesso, fra i fondatori negli anni settanta del movimento del Nuovo Mattino -, parlò di Gervasutti addirittura come del "Michelangelo dell'alpinismo", proiettando sulla sua personalità inquietudini laceranti e contraddizioni assolutamente irrisolvibili che egli forse non coltivò.
 In realtà, secondo Camanni, in Gervasutti la voglia di normalità e il desiderio di andare oltre la normalità convivevano e si alternavano, definendo un profilo caratteriale assai più sfaccettato e umanamente ricco rispetto a quello contemplato dai luoghi comuni più diffusi sul suo conto.
 Il libro è appassionante soprattutto nella parte centrale, quella in cui, prendendo spunto dagli scritti autobiografici dello stesso Gervasutti, si ricostruiscono fedelmente le sue scalate, il suo modo di arrampicare, il suo modo di pensare.
 Decisamente più deboli sono invece le parti in cui, in assenza di documenti capaci di ricostruire nel dettaglio la vita del Fortissimo (che fu sempre uomo estremamente riservato e parco di appunti riguardanti la sua persona e la sua esistenza da "borghese"), si parte dalla definizione del contesto in cui egli si trovò a operare, provando poi ad arrivare per congettura all'individuazione del tratto biografico.
 Questo modo di procedere risulta spesso dispersivo e poco produttivo e genera talvolta una prosa eccessivamente farraginosa (soprattutto nella prima parte del libro). Ciò non toglie nulla al valore delle preziose ricerche compiute da Camanni (con il recupero di fotografie inedite e delle testimonianze spesso dimenticate di chi conobbe Gervasutti e magari scalò con lui: da Paolo Bollini alla stessa Maria Luisa Balestrieri, che "rischiò" di diventare sua moglie); e non toglie nulla neppure alle pagine in cui l'autore ci parla con accenti quasi lirici delle emozioni provate nel ripetere le salite compiute dal Fortissimo, con la magica impressione di averlo accanto e la certezza di riuscire, in questo modo, a cogliere meglio il messaggio contenuto nei suoi scritti, non così raffinati dal punto di vista retorico, eppure terribilmente densi.
 Tenendo fermo tutto questo, bisogna pur dire, però, che Camanni ci ha abituati a testi di ben altra efficacia.

Voto: 5,5

Nessun commento:

Posta un commento