domenica 13 gennaio 2019

Paolo Cognetti, "Senza mai arrivare in cima", Einaudi


 Senza mai arrivare in cima è un singolare taccuino ascrivibile all'ambito di quell'affascinante sottogenere della letteratura di viaggio che è la letteratura di montagna. 
 E tuttavia, il piccolo libro di Paolo Cognetti si distingue dalle espressioni tipiche di questo particolare filone per più di una ragione: la letteratura di montagna - sia che si tratti del classico récit d'ascension, sia che si faccia riferimento a opere più complesse articolate -, nonostante rifugga normalmente i toni eroici (specie nelle sue migliori manifestazioni), presenta quasi sempre situazioni estreme con implicazioni anche cruente. Di più: anche laddove lo stile è più sobrio e la visione del mondo rispecchiata dall'ordine della scrittura risulta perfettamente razionale, la dimensione a cui si attinge nella letteratura di montagna tende a essere spesso "superumana", e quasi disumano il coraggio dei suoi protagonisti. Pensiamo, tanto per fare qualche esempio, a Hermann Buhl che, discendendo dal Nanga Parbat conquistato per la prima volta in solitaria e senza ossigeno nel 1954, perde un rampone ed è costretto a passare la notte a 8000 metri, al buio, in equilibrio precario su una cengia di ghiaccio larga appena una spanna (Hermann Buhl, E' buio sul ghiacciaio); pensiamo, in tempi a noi più recenti, a Joe Simpson, che in Touching the void, narra come, nel 1985, sulle Ande Peruviane, dopo la rottura di una gamba e la successiva caduta dentro un profondo crepaccio, abbandonato dal compagno di ascensione che lo crede morto, riesce a sopravvivere uscendo dal ghiacciaio e trascinandosi non si sa come fino al campo base; pensiamo, ancora, ai tragici avvenimenti relativi alla morte di diversi alpinisti sorpresi dal maltempo sul monte Everest nel maggio del 1996 di cui è testimone Jon Krakauer, magistralmente raccontati nel suo Into thin air.
 Inoltre la letteratura di montagna parla per lo più di salite, di vette tentate o conquistate, di pareti inviolate sulle quali viene aperta una nuova via, o comunque di arrampicate cariche di storia, di difficoltà e di suggestioni.
 Il libro di Paolo Cognetti, invece, non racconta un'ascensione e non spinge la dimensione avventurosa al limite del rischio estremo, secondo un cliché con il quale la letteratura di montagna ingloba elementi caratteristici del thriller. Senza mai arrivare in cima narra infatti la storia di un lungo trekking compiuto dall'autore nel 2018, insieme ad alcuni fidati compagni, lungo itinerari himalayani, fino a raggiungere la remota regione nepalese del Dolpo, abitata da popolazioni di etnia e cultura tibetane. 
 Il viaggio si snoda attraverso sentieri impervi e spesso scoscesi, raggiunge quote considerevoli (si arriva oltre i 5000 metri), ma non porta mai i protagonisti ad affrontare una delle magnifiche vette di quella parte del mondo: Cognetti, a dispetto del suo viscerale amore per la montagna (per il quale si è trasferito a vivere in una vallata alpina) e del suo sogno giovanile di diventare un alpinista, confessa di soffrire di una fastidiosissima forma di mal di montagna, che rende proibitive per lui le altitudini eccezionali delle cime dell'Himalaya. 

Paolo Cognetti

 Il percorso compiuto lambisce le pendici del Kanjiroba, costeggia le rive del lago Phoksundo e circumnaviga la Montagna di Cristallo - la montagna sacra, considerata il centro del mondo da buddhisti e induisti, su cui è proibito salire - per poi piegare verso Shey, verso Saldang, e più tardi, attraverso luoghi semidesertici, toccare Charka e Kagbeni; il tutto sulle orme di Peter Matthiessen, che nel 1978 compì un viaggio simile alla ricerca dell'anima del Tibet autentico, e descrisse la sua avventura ne Il leopardo delle nevi
 Matthiessen, con il suo libro, a poco a poco diventa per Paolo Cognetti il vero e proprio nume tutelare dell'esperienza che sta vivendo: le loro prospettive tendono a sovrapporsi e a confondersi, gli occhi di Peter sono gli occhi con cui Paolo comincia a guardare la realtà intorno a sé; addirittura, l'autore immagina che l'anima di Peter si sia trasfusa dentro un cane che comincia a seguire fedelmente la loro carovana, e che accompagnerà il camminatori fino alla fine del viaggio.
 In virtù di questo originale legame - e del tentativo di comprendere e di fare propria la logica placidamente rapsodica che regna nelle piccole comunità che si raccolgono intorno agli antichi monasteri di quella remota provincia -, l'emozione si fa pensiero, e accende la magia di una scrittura semplice, limpida, densa. Una scrittura tramata di intuizioni che si trasformano in accensioni liriche, di visioni che si trasformano in progetti, di ricordi e constatazioni che si trasformano preghiere. 
 Emergono così le idee e le immagini che restano nel setaccio della memoria del lettore: quella del vento come respiro della divinità, che passa attraverso le classiche, variopinte bandiere da preghiera e le riduce a brandelli, e nella sua incessante opera di logoramento dei manufatti umani e delle cose della natura testimonia la sua e la loro essenza; quella dell'insufficienza del pensiero razionale a penetrare il senso del destino dell'uomo; quella della persistenza delle autentiche e universali tradizioni della vita in montagna in quest'angolo di mondo solo lambito dalla voracità contemporanea e non toccato dalle banalità efficientistiche della cultura urbana; quella dell'appartenenza di tutte le comunità montane sparse per il globo a una nazione comune, con caratteristiche proprie e capace di esprimere una propria originale civiltà.
 Spunti di riflessione che rendono questo testo prezioso e profondamente suggestivo. 

Voto: 7 

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