lunedì 7 gennaio 2019

Carlo Emilio Gadda, "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", Adelphi


 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è una delle gemme più preziose della letteratura italiana del Novecento, e uno dei libri il cui tormentato processo compositivo più si presta ad attirare la curiosità degli studiosi.
 Così appare particolarmente interessante la nuova edizione del romanzo da poco uscita per i tipi di Adelphi, corredata da una Nota al testo a cura di Giorgio Pinotti, che riporta una serie di documenti capaci di ricostruire le varie tappe della genesi del capolavoro, e di chiarire - ove possibile - quali fossero le reali intenzioni dell'autore a proposito dello sviluppo dell'impianto narrativo e della conclusione verso cui esso avrebbe dovuto tendere. 
 E' noto come il testo comparve a puntate, nel 1946, sulla rivista Letteratura, per poi uscire in volume - per volontà di Livio Garzanti - soltanto 11 anni dopo, nel 1957. 
 E' altresì noto come mai vide la luce il previsto secondo volume del romanzo, in cui sarebbe stato rivelato il nome del colpevole dell'efferato assassinio di Liliana Balducci nel "palazzo degli ori" - già teatro della rapina ai danni della signora Menegazzi -, su cui si applicava l'acribia investigativa del commissario don Ciccio Ingravallo (anche se la sceneggiatura del film a cui Gadda lavorò, senza che la pellicola vedesse la luce finché egli fu in vita, ci rivela come la responsabile del delitto fosse Virginia, una delle "nipotine" che la Balducci e il marito si mettevano in casa, sostituendole con una certa frequenza).
 Meno noto è l'episodio di cronaca a cui Gadda si ispirò per elaborare la sua storia: l'assassinio, avvenuto il 19 ottobre 1945, della signora Angela Barruca da parte delle sorelle Franca e Lidia Cataldi, "varie volte beneficiate dalla vittima". 
 Meno note sono anche le lettere agli amici e le dichiarazioni progettuali che rivelano come Gadda avesse fin dall'inizio concepito uno sviluppo della trama che avrebbe portato Ingravallo a individuare in Virginia la colpevole dell'assassinio di Liliana, dopo essere approdato all'intuizione (proprio in prossimità dell'episodio con cui si conclude il testo come oggi lo conosciamo) che non un uomo, ma una donna era l'autrice del delitto. 
 I documenti riportati pongono anche un problema critico-interpretativo: l'incompiutezza del Pasticciaccio (come pure, più tardi, de La cognizione del dolore) ha indotto diversi studiosi a riconoscere nel "non finito" uno degli assi portanti della poetica dello scrittore milanese; la scelta di non portare a termine il romanzo sarebbe la perfetta rappresentazione letteraria dell'impossibilità di venire a capo dell'irriducibile complessità del reale (a maggior ragione trattandosi in questo caso di un romanzo giallo, in cui la soluzione dell'enigma dovrebbe essere consustanziale alla concezione e allo sviluppo della trama).     

Carlo Emilio Gadda

 Ora, questa interpretazione continua a essere valida se si appura che l'incompiutezza è dovuta non a una meditata decisione di Carlo Emilio Gadda, ma a fattori esterni indipendenti dalla volontà dello scrittore, quali le difficoltà economiche che lo inducevano a prendere impegni con diversi editori senza poterli poi onorare?
 A me pare che, al di là degli impedimenti concreti che fecero sì che Gadda non riuscisse a portare a termine il suo progetto iniziale, il romanzo appare artisticamente perfetto così come lo leggiamo noi oggi, e anche l'ingegnere, a un certo punto dovette accorgersene; il fatto che le circostanze abbiano contribuito a condurre l'autore ad acquisire tale consapevolezza in corso d'opera non altera la bontà dell'esito finale, e non muta la sostanziale correttezza dell'interpretazione critica a cui esso fu sottoposto.
 Piuttosto sono altre informazioni che la Nota al testo riporta a porre questioni assai interessanti: ad esempio, il romanesco che, insieme a tanti altri dialetti italici (il veneto, il napoletano, il molisano, il toscano, il torinese, ecc.), costituisce lo straordinario tessuto linguistico del testo, fu sottoposto da Gadda a una minuziosa revisione grazie anche all'aiuto di alcuni consulenti. 
 Tale cura testimonia un'attitudine analitica e mimetica da parte dell'autore, che mette in guardia il lettore portato, sulla base delle proprie reminiscenze scolastiche, a intendere in maniera troppo letterale la suggestiva definizione di Gadda come scrittore "barocco". Il barocchismo insito nella matrice plurilinguistica della prosa gaddiana, infatti, non è mai teatrale esibizione di virtuosismo stilistico, bensì resa plastica del relativismo insito nella peculiarità multiforme con cui il reale si presenta sempre a chi lo osserva con attenzione (è appena il caso di ricordare come Gadda era solito rispondere a coloro che, con intenzione riduttiva, definivano barocco il suo modo di scrivere: "è la realtà che è barocca!").
 Sotto questo aspetto, è assolutamente sbagliato, a mio parere, collegare automaticamente - come qualcuno ha fatto - l'utilizzo della lingua vernacolare in questo romanzo alla volontà di rappresentare il mondo in maniera grottesca; solo in rari casi il dialetto diventa elemento caricaturale della descrizione di taluni personaggi, che si prestano a una critica socio-politica di alcuni elementi della società italiana del 1927, avviata a una totale fascistizzazione. 
 Penso innazitutto alla contessa Menegazzi, vittima del primo, incruento crimine avvenuto nel "palazzo degli ori", la rapina dei gioielli della nobildonna; o al brigadiere Pestalozzi, nei confronti del quale peraltro il narratore mostra talvolta una certa bonomia. 
 Piuttosto, i giudizi più severi della voce narrante sono riservati a personaggi che poco hanno di vernacolare, come Giuliano Valdarena, cugino di Liliana Balducci e primo sospettato della sua uccisione, o come lo stesso Benito Mussolini, il "mascellone autarchico", il "defecato maltonico" a cui sono indirizzate violentissime invettive.
 Al contrario, uno dei passaggi senz'altro più poetici del libro, e forse il mio preferito in assoluto, ha al centro un personaggio in tutto e per tutto rustico e vernacolare, la povera Ines Cionini - già giovane lavorante presso il laboratorio di sartoria dell'ineffabile Zamira Pàcori, caduta nottetempo in una retata della buoncostume impegnata a moralizzare l'Urbe -, che viene sottoposta a un duro interrogatorio da parte di Ingravallo e dei suoi colleghi affinché riveli quello che sa sull'autore della rapina in casa della Menegazzi, preludio all'atroce assassinio di Liliana.

Voto: 10

Nessun commento:

Posta un commento