domenica 24 marzo 2019

Michele Mari, "Dalla cripta", Einaudi


 La seconda raccolta poetica di Michele Mari (che giunge in libreria ben 12 anni dopo Cento poesie d'amore a Ladyhawke) è assai meno coerente rispetto alla prima; presenta infatti, materiali molto compositi - alcuni non inediti - prodotti nell'arco di un quarantennio e accomunati fondamentalmente dall'attitudine mimetica dell'autore nei confronti di forme, stilemi e linguaggi propri della tradizione letteraria italiana.
 Sentimenti, emozioni, pulsioni e pensieri reali, concreti e "contemporanei" vengono filtrati attraverso le sonorità, i ritmi, le cadenze metrico prosodiche, i luoghi comuni metaforici, le preziosità lessicali, i cliché espressivi canonizzati da secoli di produzione lirica. Un approccio che caratterizza tutte le prime cinque sezioni in cui il libro è suddiviso (le Rime amorose, le Altre rime, le Esercitazioni comiche, gli Scherzi e i Versi d'occasione: 44 poesie in tutto) e anche il lungo componimento Atleide; mentre un caso a sé costituisce naturalmente la Versione del canto XXIV dell'Iliade.
 L'amore, così, si può manifestare attraverso un sonetto (in qualche caso persino caudato) o una canzone sestina, alla maniera di un petrarchista cinquecentesco; una scherzosa allocuzione ad un amico dà luogo a una serie di ottonari baciati; una poesia d'occasione scritta per celebrare il matrimonio di un conoscente si concretizza in una serie di quartine di settenari (semisdrucciole); la passione per il gioco del calcio e per la squadra del Milan si traduce addirittura in un poemetto, l'Atleide (in onore del calciatore inglese degli anni ottanta Mark Hateley). 
 Nella regolarità di questi metri, l'autore può talvolta rivolgersi al suo stesso scritto, affinché porti all'amata notizia dell'amore che lo perseguita ("Povero è 'l dire e insufficiente l'arte: / pur va, sonetto, a la montagna aprica / dove si posa in solitaria parte // d'Amore 'l vanto e di virtù l'amica / e sanza a l'altrui genti dimostrarte / del mio compagno io vo' che tu le dica"); oppure trovare ristoro dalle ambasce del sentimento in immagini dolcemente classicheggianti ("Di fronte a te, amore mio dolente, / io sono il ciel lustrato dalla lune, / e il rivo che discende alla laguna / voglioso di placar la sua corrente").
 Ovviamente, i casi più interessanti sono quelli in cui lo stile aulico e ostentatamente desueto cozza con ben identificabili riferimenti al presente ("Alta è la notte e silenziosa è l'ora, / ed io son qui sull'abilitazione / a infinger fole sanza convinzione / meco indignato e biastemiando ognora:", in cui il poeta è ritratto alle prese con lo studio per il concorso di abilitazione all'insegnamento liceale), o a frammenti della reale e intima biografia dell'autore ("O cameretta, che già fosti un porto / al corso di mia chiusa giovinezza, / intima pace e solida fortezza, / rifugio di penombra e mio conforto"). Un tipo di attrito che nel caso delle Esercitazioni comiche crea effetti a volte francamente divertenti ("Ottusamente intenti nell'execratio / strabuzzano gli occhietti i genitori, / le malefatte udendo e i gravi errori / commessi dai figliuoli sanza ratio"), altre volte porta a esiti di una violenza farsesca e insultante che incorpora nella sua volgarità uno sghignazzo liberatorio ("Di tutte le bagasce di 'sto mondo / che spengono ai cazzoni la gran foja / solo a tua madre si conviene a fondo / il nome abusatissimo di troja").

Michele Mari

 Per chi conosce Michele Mari è chiaro come tutto questo non si traduce in pura esercitazione erudita; al contrario, gli antichi stilemi servono, da una parte, a dare voce a ciò che con altri strumenti espressivi non acquisirebbe un rilievo adeguato, e d'altra parte ad accorciare la distanza che ci separa dalla nostra tradizione lirica e dalle sue forme, che si rivelano infine perfettamente adeguate a palesare il sentire presente e i suoi contenuti.
 Ad ogni modo, il componimento migliore fra quelli presenti nella raccolta è, a mio parere, il Lamento di Gianciotto Malatesta, in cui il punto di vista espresso da Dante (anzi, da "Durante") nel canto V dell'Inferno viene polemicamente e antifrasticamente rovesciato da Mari, che prende le parti del marito di Francesca da Rimini, e trasforma Gianciotto nel personaggio più nobile della tragica vicenda; più nobile anche sotto l'aspetto cultural-letterario, tanto da trarre dalla lettura dei romanzi dell'epoca ispirazione e forza per consumare la sua legittima vendetta:

D'ignobil ceppo fronda verdeggiante
che in nobiltà rifulgi per ingegno
e per bontade, i' vo' guiderdonare
l'intender che ti guida dritto al segno.
Onde m'ascolta, ché lo tempo e il loco
del fatto antico e 'l modo che m'offende
io svelerotti dell'orrendo scelo.
Traevo il decim'anno di mia vita
allor ch'a mia salute mancò 'l fiore.
la tabe serpeggiommi per le membra,
laonde 'l claudicar che mi dà il nome.
Di scherno fui alle genti e più in castello,
e sommo schernidor s'era mio frate,
il pulcro Paolo dalle chiome bionde.
Allor che il veglio che Ravenna regge
diemmi la figlia in sposa, ambì costui
di torla a suo sollazzo, e ben s'appose:
ché non Semiramìs, non Cleopatràs
furno sì rotte a cagnesca foja
quanto essa putta lussuriosa e falsa.
Come fede nunzial le ingemmò il dito
prese costui a schifarmi coram omne,
d'acerbo dir facendomi bersaglio
cagion de la mia piota, che diverso
mi fa a me stesso come uom che arranca.
E spesso col suo drudo si appartava,
ora ridendo ora occultando il riso.
Di loro infamia i' suspicai gran tempo:
eppur mancommi 'l core a la vengianza,
bontà si fusse o ver pusillitade.
Mille e dugento e ottanta e quattro anni
s'annoverar dal giorno de la Croce
allor che la mia sposa diportossi
col vago drudo suo nella fortezza
che di Gradara è vallo e di sua terra.
Solo e meschino in Rimini io stava,
ed unico conforto era al mio spirto
i finti errori legger de le donne
e degli amanti cavalieri in giostra.
Lessi una sera di Mambron circasso,
come scoprendo di sua sposa il fallo
tosto ne fe' vendetta, il capo a tondo
a lei troncando e all'amador suo tristo:
quel giorno più non vi leggetti avante,
ché 'l cammin corsi in un col palafreno
fino alle stanze ove tenea bordello
l'empia bagascia intimorata e fella.
Fu solo un colpo quel che li divise
ancor congiunti carnalmente in nodo
bestial cotanto che 'l tacerne è bello.
Così violenza fu giustizia in terra,
e ser Durante scriva quel ch'ei vuole.

 Unico appunto sul titolo, Dalla cripta, che vuole fare riferimento alla vocazione ctonia dell'autore e alla sua capacità di disseppellire - dal passato e dai più oscuri recessi della coscienza - ciò che sembrava perduto o comunque inattingibile; ma che mi pare un po' troppo compiaciuto e, tutto sommato, poco azzeccato.

Voto: 6,5   

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