domenica 19 aprile 2020

Denis Johnson, "Jesus' Son", Einaudi


 Pochi mesi fa ho avuto modo di recensire l'ultimo libro realizzato da Denis Johnson prima della sua scomparsa: La generosità della sirena, una notevole raccolta di racconti il cui antecedente diretto nella produzione dell'autore è senza dubbio Jesus' Son, uscito negli Stati Uniti nel 1992, pubblicato in Italia alcuni anni più tardi (dopo che dal libro era stato tratto un film presentato e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia), e ora riproposto da Einaudi nella traduzione di Silvia Pareschi.
 Jesus' Son è una rapsodica composizione narrativa costituita da undici racconti, di dimensioni piuttosto contenute, che constano di diversi episodi, fra di loro slegati - o legati solo da un filo sottile -, della vita del protagonista-narratore, un giovane tossicodipendente (noto negli ambienti che frequenta con il periglioso pseudonimo di Testadicazzo) la cui distorta e singhiozzante visione della realtà rende il suo profilo umano e il suo stesso statuto identitario improntati a un'assoluta precarietà. 
 Un'ottica profondamente allucinata, impostata su un punto di vista "esploso", vale a dire di volta in volta frammentato, deformato, appannato, molteplice, corrotto, gelatinoso, evanescente, fantasticamente proteiforme - comunque sempre inaffidabile - è il tratto fondamentale che caratterizza le undici tessere di questo bizzarro mosaico. 
 Tanto che spesso è impossibile stabilire se sia assurdo in sé e per sé il mondo in cui il protagonista si muove, o se a renderlo assurdo siano le sue percezioni, i suoi proponimenti, le sue reazioni alle sollecitazioni a cui la vita lo sottopone. 
 Come quando, dopo un incidente stradale in cui è rimasta coinvolta la famiglia che gli ha offerto un passaggio mentre, bagnato fradicio sotto un diluvio, faceva autostop proteggendosi con il suo sacco a pelo, osserva inebetito un uomo ferito a morte sentendo vagamente l'obbligo di fare qualcosa, ma senza capire bene cosa (Incidente durante l'autostop); o come quando accetta di accompagnare in ospedale due amici strafatti, Dundun e McInnes, dopo che il primo, senza sapere nemmeno bene perché, ha sparato nel ventre al secondo che, come se niente fosse, quietamente muore durante il trasporto sul sedile posteriore di una Plymouth presa a prestito mentre l'auto corre lungo un rettilineo fra campi inariditi, sotto "un cielo in cui sembra che non ci sia aria", in una terra che pare "fatta di carta" (Dundun); o ancora, come quando, nel pronto soccorso in cui ha trovato lavoro come portantino, Georgie, un inserviente suo compagno di bevute, buchi e fumate, distrattamente, senza aspettare l'arrivo del neurochirurgo, dell'oculista e dell'anestesista che sono stati convocati, estrae dalla testa di un paziente - senza fargli del male - il coltello da caccia che sua moglie gli aveva spinto nell'occhio fino all'impugnatura (Emergenza).
 Il modo inerme, completamente straniato, disarmato e innocente con cui vengono descritti eventi e situazioni surreali trasforma un simile delirio percettivo in un vero e proprio afflato lirico di tipo contemplativo. 
 Ci si può imbattere, allora, in passi come quello presente in Fuori su cauzione, laddove si racconta l'incontro tra il protagonista e Jack Hotel, prima che quest'ultimo muoia di overdose: "Cosa non darei, certe volte, per un altro incontro come quello, noi due seduti in un bar alle nove del mattino a raccontarci bugie, dimentichi di Dio". 
 Oppure come quello che troviamo in Happy hour, all'approdo del protagonista - alla ricerca di una giovanissima danzatrice del ventre di cui si è innamorato - al Pig Alley, un locale affacciato sul porto e costruito sopra un pontile traballante: "Il fumo di sigaretta aveva un aspetto sovrannaturale. Il sole scendeva attraverso il tetto di nuvole, infiammava il mare e riempiva la grande finestra panoramica di luce fusa, così i nostri traffici e i nostri sogni si svolgevano dentro una nebbia radiosa". 

Denis Johnson

 La confusione dei piani temporali e l'indeterminatezza della collocazione spaziale di molti degli eventi narrati (vi sono scene che si svolgono in paesaggi tipici del Midwest, a volte ci si ritrova lungo la costa atlantica, si riconosce in parecchi episodi una generica ambientazione urbana, ma nulla più), unite all'illogicità dei comportamenti di molti dei personaggi, danno a chi legge l'impressione di galleggiare su un mare burrascoso, alla deriva sotto un cielo che non offre punti di riferimento.
 La voce che ci parla, d'altra parte, non sembra neppure cercare la nostra comprensione; si accontenta di chiedere la nostra compassione, tanto da arrivare a pronunciare, nell'ultimo racconto, Beverly Home, in una vera e propria allocuzione al lettore, parole di questo tenore: "Come potevo farlo, come poteva una persona cadere così in basso? E capisco la vostra domanda, a cui rispondo: state scherzando? Questo non è niente. Ero caduto molto più in basso di così. E mi aspettavo di fare ancora peggio".
 Proprio Beverly Home è certo il racconto più articolato fra quelli che fanno parte della raccolta, e segna un punto di approdo di tutto il discorso narrativo. Il protagonista - in via di disintossicazione - cerca qui con fatica di condurre una vita più regolata dopo aver trovato lavoro in una casa di cura per anziani e persone disabili. 
 La via verso la "normalità", però, passa per lui innanzitutto da una riconciliazione con la propria stranezza, a partire dalle donne che si mette a frequentare: prima una "bellezza mediterranea" affetta da nanismo, poi una donna menomata nei movimenti dalle conseguenze di un'encefalite infantile, dalla cui conclamata disabilità egli è eccitato e tranquillizzato insieme. 
 La sua routine quotidiana, fra l'altro, in questa fase, ruota intorno a un segreto difficile da confessare: ogni sera, tornando a casa dal luogo in cui lavora, prima di prendere l'autobus, quando fa buio, il protagonista - spinto da un impulso irresistibile - si ferma presso una villetta isolata e, protetto da una siepe, spia dalla finestra del bagno una graziosa donna bionda mentre si lava sotto la doccia, ne esce, si asciuga. Ad affascinarlo non è tanto la nudità della donna - appartenente alla minoranza religiosa della Chiesa mennonita - o la sua sensualità, ma la domesticità della scena a cui assiste.
 Poi, di nascosto, attende che il marito torni dal lavoro in macchina, e dalla finestra del soggiorno osserva le conversazioni della coppia, guarda l'uomo e la donna mentre riposano sul divano o leggono la Bibbia; aspetta che si corichino, e spera ardentemente di coglierli mentre fanno l'amore. Ma lo appaga anche vedere l'uomo che, teneramente, si inginocchia davanti alla moglie per lavarle i piedi, in una sorta di rito. E in fondo, di tutto questo, non si sente colpevole: non prova vergogna.
 La riconquista del benessere e dell'equilibrio, così, non si traduce in un passivo adeguamento a comportamenti conformisticamente standardizzati, bensì nella scoperta che il mondo è un posto dove diversità, stramberie e stravaganze sono di casa, senza dover necessariamente suscitare riprovazione, senza determinare angosciose censure. Concetto che, forse, costituisce la vera morale di questo libro.

Voto: 7

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