domenica 26 aprile 2020

Fredrik Sjöberg, "Mamma è matta, papà è ubriaco", Iperborea


 Nel suo genere, questo libro è un capolavoro. L'eclettismo peripatetico dell'autore, infatti, vi si dispiega in tutta la sua allegra e fastosa effervescenza, dando luogo a una lunga passeggiata narrativa nutrita di curiosità, erudizione, passione, gusto per l'arte, una vivace vena pettegola e una particolare simpatia per le sorti sfortunate.
 Il risultato di questo percorso è la ricostruzione della figura e della produzione artistica di un pittore danese - attivo tra il secondo e il terzo decennio del Novecento - talentuoso ma oggi quasi del tutto dimenticato, Anton Dich. E tuttavia, tutto quello che ci viene raccontato e tutte le informazioni che ci vengono fornite non sembrano l'esito di un lungo processo di studio e di un faticoso lavoro di ricerca, bensì paiono scaturire da una brillante divagazione che si sviluppa in modo imprevedibile, felicemente tortuoso e ostentatamente digressivo, attraverso continue sorprese e colpi di scena sfoderati con levità e sull'onda di un'inesauribile ironia.
 La storia che leggiamo, in questo modo, sembra più che mai frutto del caso: casuale pare essere la sua restituzione odierna come casuale fu il suo sviluppo allora; e Uno studio sul caso è il sottotitolo, quanto mai appropriato, del testo.
 Per Sjöberg tutto comincia dal fortuito ritrovamento di un bel quadro di Anton Dich, dipinto nel 1921 in Costa Azzurra, che ritrae le cugine Hanna e Lillan, due ragazze entrambe quindicenni, sebbene la prima sembri più matura e infinitamente più triste della seconda. 

 Quello di Dich è un nome misterioso, in cui l'autore si era imbattuto anni prima facendo ricerche su un altro pittore, lo svedese Olof Ågren, che lo nominava en passant in una sua lettera come nuovo marito di Eva Arosenius, vedova del famoso illustratore Ivar Arosenius.  Sjöberg non aveva capito allora di chi si trattasse: pochissime, infatti, sono le tele superstiti di Anton Dich e incredibilmente scarsi i documenti che conservano traccia di un artista troppo dotato per essere consegnato a un oblio assoluto nemmeno cent'anni dopo la sua morte.  
 Così, la via più semplice per cercare di mettere a fuoco la sua figura risulta quella che parte dalla moglie, anzi dalla sua famiglia. Eva, infatti, era figlia di Johanna Bondesdotter e di Jöns Adler; la madre - inaugurando una duratura tradizione eminentemente matriarcale che bene o male percorre tutte le vicende dei suoi discendenti negli ultimi 150 anni - prendendo le mosse da una semplice latteria nella campagna a sud di Trollhattan, in un frangente economicamente propizio, era riuscita a costruire un vero e proprio impero caseario. Nei decenni successivi, diversificando i propri investimenti, gli Adler sarebbero diventati una delle famiglie più cospicue di tutta la Svezia. 
 Fra i figli di Johanna e Jöns, Axel, il primogenito, aveva uno straordinario fiuto per gli affari, ed era destinato a trasformarsi in uno degli imprenditori più fortunati del periodo interbellico su entrambe le sponde dell'Atlantico (senza peraltro derogare alla tradizione matriarcale di cui si parlava, visto che sua moglie fu l'attivista politica Rut Hallenborg, che gli impose di trasformare la sua casa in un punto di ritrovo di tutto il mondo progressista dell'epoca). Le tre sorelle Eva (nata nel 1879), Elvi (nata nel 1880) e Lisa (nata nel 1883) avrebbero invece coltivato tutte ambizioni artistiche e avrebbero tutte sposato degli artisti. L'ultimo nato Nils Bonde Adler, infine, sarebbe diventato un brillante viveur, scapolo impenitente, collezionista e mecenate, senza mai dedicare troppe energie al lavoro.
 Tutti e cinque gli esponenti della seconda generazione della famiglia Adler vissero una vita lunga, movimentata e anche piuttosto avventurosa.
 E' attraverso una ricognizione delle loro esistenze, delle loro decisioni e delle loro frequentazioni - specie quelle delle tre ragazze - che Sjöberg, con una sorta di manovra di accerchiamento, arriva a dare una fisionomia precisa ad Anton Dich e a farsi un'idea della sua personalità, della sua mentalità e delle sue peripezie.   

Fredrik Sjöberg

 Lisa, studentessa nella Vienna dello Jugendstil, conobbe e sposò l'ebreo galiziano Isidor Gesang, in quegli anni studente di architettura, ma poi diventato famoso come attore del cinema muto col nome di John Gottowt (ebbe una parte importante in Nosferatu e una triste fine: dopo la separazione, negli anni trenta del Novecento tornò in Polonia e, nel 1942, venne assassinato durante un rastrellamento compiuto dalle SS a caccia di ebrei nelle campagne presso Varsavia); dalla loro unione nacquero un maschio, Ivan, e le gemelle Eva e Hanna - che compare insieme alla cugina nel dipinto ritrovato di Anton Dich -, ma la prima, dichiaratamente la preferita della madre (da qui la cronica depressione da cui fu afflitta Hanna, che pure in seguito divenne una campionessa di sci ed ebbe la ventura di ospitare in casa sua Willy Brandt durante la sua fuga verso la Norvegia), morì per una brutta tonsillite in villeggiatura a Rostock quando era ancora una bambina.
 Elvi si maritò con Heinrich Weissenberg (conosciuto grazie al marito di Lisa, che era suo amico) alias Henrik Galeen, sceneggiatore e regista di successo - uno dei pionieri della settima arte -, e fu una vera e propria cittadina d'Europa: visse in Austria, poi a Berlino, poi a Merano, poi a Bordighera, poi  (durante la Seconda guerra mondiale) in Svizzera, prima di fare ritorno a Göteborg.
 Eva - che era bellissima - come detto sposò invece Ivar Arosenius e riuscì a donargli l'equilibrio necessario affinché egli entrasse nella fase più felice e proficua della sua stagione creativa, prima di spegnersi, a soli trent'anni, a causa dell'emofilia; dalla loro unione nacque la bionda Lillan.
 E' qui che entra in scena Anton Dich, che aveva dieci anni in meno di Eva e - come Arosenius - le stimmate del bohémien: amava l'alcol, aveva un carattere scontroso e smodate ambizioni.
 Di condizione discretamente agiata, Dich era stato membro di circoli d'avanguardia in Danimarca, ma li aveva polemicamente abbandonati dando prova del suo spiccato individualismo. Durante il suo apprendistato a Vienna aveva probabilmente avuto come compagno ad un corso di disegno Adolf Hitler (un nudo realizzato a matita dal futuro dittatore è tuttora in possesso degli eredi della famiglia Adler); in seguito - già in compagnia di Eva -, a Parigi e in Costa Azzurra, avrebbe conosciuto e frequentato figure meno sinistre ma forse ancora più ingombranti per chi aspirasse alla gloria artistica come Amedeo Modigliani (di cui fu amico e compagno di bevute, e che ritrasse la figliastra Lillan) ed Henri Matisse.
 Al contrario di quanto accaduto ad Arosenius, Anton Dich non seppe derivare dalla vicinanza della moglie quella stabilità emotiva necessaria a stimolare la sua vena creativa; fors'anche perché Eva, pur senza darlo a vedere, rimpianse sempre il primo marito di cui era profondamente innamorata. Dich continuò così per tutta la vita ad avvitarsi intorno alle proprie insicurezze - vittima di un perfezionismo che lo portava a distruggere sovente tele che gli erano costate molto lavoro ma delle quali non era del tutto convinto - e ad annegare i dispiaceri nell'alcol.
 La sola parentesi felice che conobbe fu quella del soggiorno a Mentone, al principio degli anni venti, durante la quale riuscì a lavorare con regolarità e profitto, producendo un buon numero di quadri di grande formato e di notevole interesse, fra i quali quello che ritrae Hanna e Lillan nel pieno della loro adolescenza.
 Ma durò poco: il successo non arrivava, Anton non era mai soddisfatto a sufficienza delle proprie opere e le cose con Eva andavano sempre peggio. I due cominciarono a vivere di fatto separati, finché nel 1932 non arrivò il divorzio (del periodo infelice vissuto dalla famiglia nel corso degli anni venti è emblematica la frase che dà il titolo al libro, "Mamma è matta, papà ubriaco": un pensiero a voce alta che la giovane Lillan si lasciò sfuggire in treno, in lingua svedese, durante un trasferimento da Nizza a Parigi). Nel frattempo Anton Dich si era rifugiato a Bordighera, dove prese a vivere in solitudine nella stessa casa in cui, prima di lui, aveva alloggiato Claude Monet.
 Si spense, alcolizzato, nel 1935, a poco più di quarantacinque anni, quasi dimenticato: la retrospettiva che era stata organizzata in suo onore a Copenaghen nel 1928 si era inspiegabilmente risolta in un fiasco, e le ventilate possibilità che i musei della capitale danese si procurassero ed esponessero i suoi lavori migliori non si erano realizzate. A questo si aggiunse la sorte avversa: il nipote Ivan, che aveva raccolto i suoi quadri e si era proposto di promuoverli sul mercato internazionale, era morto improvvisamente di peritonite nel 1950. E quando Poul Dich, medico e fratello del pittore, prossimo alla fine dei suoi giorni, aveva fatto un ultimo tentativo nel 1981, organizzando, sempre a Copenaghen, una grande mostra dal titolo Il mondo di Anton Dich, era ormai troppo tardi, e i distratti visitatori erano stati ben pochi.
 La vicenda di Anton Dich diventa così una sorta di paradigma che illustra l'arte del fallire, assecondando un destino inclemente; o forse qualcuno potrà dire che è solo l'esemplificazione dell'imprescindibilità, in questo mondo, dell'attesa: perché, in qualche modo, egli è riuscito, rocambolescamente, a ottenere - se non altro presso l'autore e i lettori di questo libro - quell'attenzione che è la sola forma di sopravvivenza dopo la morte (per quanto puerile ed effimera) su cui con sicurezza possiamo contare.

Voto: 8  

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