domenica 12 luglio 2020

Paolo Volponi, "Poesie giovanili", Einaudi


 Non sono rari, nelle opere narrative di Paolo Volponi - l'autore che a mio parere meglio di chiunque altro ha saputo rappresentare nei suoi romanzi le contraddizioni e i difetti presenti nel tessuto socio economico dell'Italia del secondo Novecento, e i loro riflessi sulla cultura e la mentalità dominanti nel nostro Paese -, i passi ispirati a un intenso lirismo e caratterizzati da una profonda compenetrazione tra lo stato d'animo o i pensieri dei personaggi e la descrizione del paesaggio (urbano o rurale) che fa da sfondo al loro agire.
 Paradossalmente meno frequenti sono brani di questo tenore nelle poesie di Volponi, specie quelle delle prime raccolte; nelle esperienze in versi precedenti l'esordio narrativo, infatti, lo scrittore osserva, sente, ragiona in astratto, e poi - spesso con visibile sforzo, senza riuscire materialmente ad amalgamare riflessione e osservazione - traduce i concetti sui quali vuole insistere in espressioni e immagini icastiche, di notevole rilievo simbolico ma di limitata risonanza emotiva.
 La densità del pensiero, così, non trascorre nella scioltezza stilistica come nelle prose migliori, ma dà luogo a una esibizione di complessità, a una solipsistica ostentazione dei problemi logico-esistenziali individuati e messi a fuoco ma non risolti, che avvicina senz'altro la poesia del primo Volponi a quella dei poeti ermetici.
 Il libro uscito ora per i tipi di Einaudi rafforza questa impressione, mettendo a disposizione del pubblico le prime prove giovanili di Volponi, quelle che precedono e preparano la pubblicazione dei componimenti confluiti ne Il ramarro (del 1948) e quelli andati a costituire il corpus de L'antica moneta (del 1955), recentemente recuperate nella casa urbinate dell'autore - suddivise in tre agili fascicoli (le 90 carte, Immagini e Altre) in parte manoscritti, in parte dattiloscritti - e criticamente curate da Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli.
 Queste prove risalgono tutte agli anni quaranta e ai primissimi anni cinquanta e testimoniano, con le frequenti correzioni e riscritture di cui è rimasta traccia sulle carte, l'intenso lavoro di elaborazione a cui Paolo Volponi si sottopose per pervenire a determinati risultati espressivi.

 Paolo Volponi

 Opportunamente i curatori hanno suddiviso per la pubblicazione i componimenti recuperati in due sezioni: "Verso Il ramarro" e "Verso L'antica moneta", per denunciare fin da subito la temperie culturale e la fase evolutiva all'interno della produzione dell'autore a cui sono ascrivibili.
 Colpiscono il lettore la violenza di certe immagini ("Hai riso, / ed io avrei sputato / dentro la tua gola / aperta."; "Nel taglio della ferita / garza gengivosa. / L'acutissimo vetro / t'ha aperta / con una naturalezza spaventosa"; "Ti slarghi come un frutto maturo, / ed io sento lo schifo / di vederti dentro."), spesso riferite alla donna inutilmente amata, la frequenza di enigmatici riferimenti a oggetti simbolici riconducibili a una classicità oracolare ("Nell'osso spolpato / cerca / il profilo degli Dei."; "Prese una smorfia / fissa / come un pupazzo di terracotta."), la febbrile ricerca da parte del personaggio che dice io di una propria, definita identità nella vagabonda ricognizione degli innumerevoli modi d'essere che si danno nel mondo degli uomini e nella natura ("Io sono un cantore d'osteria / che canta canzoni di terra. // Porto le scarpe di un negro, / e l'anima di un muratore / che fu ucciso sul tetto / da un ufficiale a cavallo. // Io sono un'anitra gialla / un garofano sul fiume, / colui che fischia / e aspetta sotto un ponte.").
 Nella resa della femminilità, la cruda rappresentazione dell'erotismo (un erotismo spesso collegato a un pervasivo senso di morte) agisce come uno schiaffo che risveglia, trattiene da languidi abbandoni, scongiura il rischio del romanticismo insito nella bellezza del paesaggio, richiama a un lucido confronto con una realtà che in sé e per sé non è né buona, né riposante, ma difficile, problematica, ruvida, spigolosa, misteriosa ("Le donne si lavano il ventre / ancora ansante, / come i cani / che vegliano il mio sonno. / Ora i vogliosi cavalli / calpestano i fuochi spenti / e l'alba è già nelle mani / che pettinano uccelli."; "Tu priva d'amore / o pastora, / dalle voglie del gregge / e femmina del cane. / Solo le violenze anonime / dei viandanti / hanno soddisfatto il tuo corpo / indurito.").
 Soltanto nella simbolica ciclicità dei ritmi naturali sembra che l'inquietudine dell'io lirico possa sperare di trovare un appiglio interpretativo per dare ordine al mondo, per mettere ordine tra i propri pensieri ("Sempre io guardo l'acqua del fiume / cercando la tua impronta, / le tue membra disperse / come le trote leggere. / Poi canta / uno che non si vede, / allora tu passi. / E un tempo ricomincia."). L'idea che quasi direttamente ne deriva, quella della necessità di morire per rinascere nuovamente, incrocia con naturalezza una serie di concetti e di richiami cristologici ed evangelici, privati però della consueta ordinarietà rituale e riportati alla loro nuda essenzialità ("Tu sei bianca, / nata nel buio / come il germoglio del grano / per il Santo Sepolcro / dei conventi."; "Come d'un eremita / che prega nello speco, / vicino alla rosa / dal suo sangue fiorita. / Così la mia vita / langue accanto a te.").
 La poesia più bella, per me, è forse l'ultima riportata nel libro, quella intitolata Io so che le strade, che anziché avvitarsi intorno ad astrusi enigmi, incorpora l'idea di nuovi abbrivi e di nuovi approdi. Eccone il testo:

S'alzano a volo gli uccelli
all'urlo nostro,
e allargano il cielo.
Corriamo,
io so che le strade
hanno crocicchi dove si canta,
dove le donne
vendono vino e lupini.
Là sono le croci
originali del Cristo,
con grossi chiodi
tenaglie e martello.
Là troveremo una lampada, una moneta,
un cavallo lasciato da un soldato,
forse la strada di antiche città,
le vigne e gli orti tranquilli del mare.
Una barca abbandonata sulla riva.

Voto: 6,5

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