Berenice e John Henry non riescono neppure a tenere Frankie lontana dai pericoli: come quando un soldato, forse ubriaco, credendola più grande dei suoi dodici anni, la invita in una taverna malfamata, si apparta con lei e poi tenta di usarle violenza, tanto che la ragazza per respingerlo deve rompergli sul capo una brocca di vetro con una forza tale da arrivare a credere di averlo ucciso.
L’episodio serve comunque a palesare la sostanziale impreparazione della pretenziosa Frankie di fronte alla prepotenza dell’attrazione sessuale (che aleggia per tutto il libro come qualcosa di molesto alla periferia dei suoi pensieri, filtrata attraverso il ricordo non piacevole del primo, parziale “incontro” con un coetaneo) come pure al cospetto di tanti altri aspetti dell’età adulta.
Eppure nelle fantasticherie di Frankie, nei suoi interminabili soliloqui c’è una poesia che di primo acchito pare assurda, ma poi sembra rivelarsi come l’unica illuminazione possibile di un mondo dipinto a tinte fosche. Perché spesso la realtà è sopportabile solo quando è trapunta dai ricami dei nostri singolari desideri, mentre la concretezza dei fatti oggettivi è bene che perda consistenza, anche se si tratta di eventi non ignorabili: tali sono non solo il crollo del castello di carte costruito da Frankie sul matrimonio del fratello, ma anche, nell’autunno successivo al matrimonio, il trasferimento della protagonista e di suo padre in una nuova casa, la partenza definitiva di Berenice – che trova un nuovo marito – e, soprattutto, la morte del piccolo John Henry a causa di una meningite fulminante; tutte cose che ci vengono rivelate alla fine del romanzo.
Così il punto di vista di Frankie Jasmine – “errante” nelle due accezioni di questa parola − assume uno spessore lirico fuori dal comune; e tutte le descrizioni di oggetti, personaggi e situazioni su cui la ragazza proietta la sua emotività si trasformano in un caleidoscopio di sentimenti di incredibile intensità: qualcosa che sta fra il correlativo oggettivo di Thomas Stearns Eliot e quella personalissima declinazione del jazz che si riconosce nei testi e nella musica di Paolo Conte.
Basta leggere qualche frase presa qui e là dal libro per comprendere quanto dico:
“l’estate non era che un sogno verde e languido o una giungla silenziosa e pazza come in una campana di vetro”.
“Il matrimonio era splendente e bello come la neve, ma il cuore era come distrutto”.
“Il firmamento era color lavanda e si andava lentamente oscurando. Nelle vicinanze, udì delle voci e percepì un profumo leggero e fresco di erba annaffiata”.
“Frankie aspettava la notte. Proprio in quell’istante un corno cominciò a suonare. In un punto non molto distante, il corno aveva attaccato un blues, una melodia dolente e sommessa. Era il canto triste di un ragazzo nero”.
La vibrazione che da tutto ciò deriva ha il sapore autentico delle cose che appartengono alla sconnessa concretezza del vissuto individuale e non alle simmetrie artificiali di una morale senza sbavature.
Voto: 7
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