domenica 16 agosto 2020

Piero Trellini, "La partita", Mondadori


 Il libro si basa su una tesi romantica - ma suffragata da una serie di argomentazioni articolate e, soprattutto, da un certo numero di suggestioni di notevole potenza retorica - che risulterà convincente per molti degli appassionati di calcio della mia generazione: Italia-Brasile 3-2, la famosa partita della seconda fase del Mundial spagnolo giocata il 5 luglio 1982 allo stadio Sarrià di Barcellona, non solo fu, sportivamente parlando, l'incontro del secolo (per via dei contenuti tecnici ed emotivi che in essa si sommarono, e che portano a preferirla alla tante volte esaltata Italia-Germania 4-3 di Messico '70), ma costituì anche un punto di svolta epocale per tutto il movimento calcistico planetario, tanto da poter separare abbastanza nettamente tutto quello che venne prima di Italia-Brasile da quello che sarebbe venuto dopo. 
 L'atteggiamento dei giocatori, l'incidenza delle sponsorizzazioni, la copertura mediatica, il comportamento dei tifosi, lo spessore culturale dei giornalisti, i criteri di selezione dei campioni porterebbero infatti a individuare in quel match il culmine e, insieme, il canto del cigno di una sorta di "età della spontaneità" nelle espressioni del gioco del calcio, seguita poi da una più stereotipata "età dello spettacolo" che durerebbe tuttora.
 A sostegno di questa tesi Piero Trellini costruisce un affresco di vastissime dimensioni, impostato intorno a una grandiosa prospettiva in cui tutte le linee convergono nell'unico punto di fuga della fatidica partita del Sarrià, per poi perdersi o sfumare sul fondo del quadro. Verso il 5 luglio 1982 precipita - si può dire - tutta la storia del calcio: i protagonisti, a vario titolo, di quell'evento (giocatori, tecnici, cronisti, dirigenti sportivi, rappresentanti istituzionali, fotografi, tifosi) vengono descritti come portatori di vicende umane, sportive, economiche, politiche che l'autore prova a tenere insieme e a intrecciare con criteri a volte quasi cabalistici, affinché trovino giustificazione nei novanta minuti in cui si affrontarono le due squadre nazionali probabilmente più rappresentative del continente europeo e di quello sudamericano in un torrido pomeriggio estivo di 38 anni fa.
 La straordinaria messe di informazioni offerte viene gestita attraverso un gran numero di capitoli brevi, ciascuno dei quali mette a fuoco un personaggio, un aspetto particolare, una curiosità, un momento significativo dello sviluppo di una delle linee narrative che si uniranno nella Partita per eccellenza.
 Tutti i racconti che vengono fatti, già noti o meno noti, sono intriganti: i primi perché richiamano alla memoria dell'appassionato o dello spettatore di un tempo emozioni del passato, gli altri perché rivelano retroscena di estremo interesse. Si possono citare, ad esempio, il racconto della comune origine di due delle principali case produttrici di equipaggiamento sportivo l'Adidas (fondata da Adi Dassler) e la Puma (fondata da suo fratello Rudy Dassler, chiamata dapprima "Ruda" e poi designata con l'attuale denominazione, dato che la prima soluzione appariva vagamente cacofonica); o quello della carriera non limpidissima di Joao Havelange, padre-padrone del calcio per diversi decenni; o ancora, quello della passione per il palio di Siena di Artemio Franchi, quello dell'avventurosa vita e dei misconosciuti meriti di Raimundo Saporta nell'organizzazione del Mundial, quello delle rivalità fra inviati che fecero la storia del giornalismo sportivo italiano o la convincente descrizione di quello che era il calcio in Brasile fino all'inizio degli anni ottanta.   

Piero Trellini

 L'enfasi dell'epica sportiva che spesso anima la narrazione non infastidisce per nulla, il gusto dell'aneddoto e la precisione documentaria riscattano qualche lungaggine e il visibile sforzo di mantenere il controllo su una quantità di materiale così imponente e su un progetto nel suo genere parecchio ambizioso.
 A Italia-Brasile viene in definitiva attribuito un valore simbolico che indubbiamente ebbe per coloro che oggi hanno tra i 45 e i 65 anni, anche se mi pare che di certe cose venga esagerata la portata. 
 Io stesso il calcio cominciai a seguirlo davvero da lì: ricordo perfettamente mio padre, di ritorno dal lavoro in banca nel tardo pomeriggio, mettersi davanti alla nostra televisione ancora in bianco e nero, e saltare letteralmente dalla sedia ad ogni gol di Paolo Rossi, mentre io festeggiavo con lui. Ricordo l'esaltazione della gente e i caroselli per le strade quell'estate, e alcune vecchie scassatissime auto ridipinte di bianco, rosso e verde, e i motorini, e le esultanze in piazza, e la gioia collettiva di giovani e meno giovani, di uomini e donne, autentica e - credo di poter dire - per nulla sguaiata. 
 Ma ciò non basta a deprezzare tutto quello che venne dopo, né a concludere che gli sponsor o il denaro avessero poco peso nel calcio di allora (al contrario, c'era gente disposta a vendersi per una manciata di lire), né che l'aspetto etico prevalesse ancora su quello tecnico nell'organizzazione sportiva. 
 L'innocenza tanto decantata era forse più nei nostri occhi che in quelli dei protagonisti, il cui spessore umano viene talvolta esagerato al cospetto di quello di calciatori, allenatori e dirigenti del presente. Così, qualche giudizio un po' tranchant risulta francamente sbilanciato (anche se convengo sul fatto che un Enzo Bearzot non si vede nel mondo sportivo di oggi); ma, dopotutto, questo sbilanciamento e questa parzialità sono comprensibili e funzionali alla tesi che si vuole portare avanti.
 Le cose che mi sono piaciute di più in assoluto sono la profondità dello sguardo gettato sul calcio brasiliano di allora, che era davvero un altro mondo rispetto al nostro (le figure mitiche dei giocatori degli anni settanta e ottanta, grandi e meno grandi, e quelle dei tragici protagonisti dello storico Maracanazo del 1950...), e la ricostruzione della storia di Abraham Klein, il bravissimo arbitro israeliano della partita del Sarrià.
 Comunque, un testo consigliatissimo agli amanti di libri di questo tipo.

Voto: 7,5

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