domenica 9 agosto 2020

Juan Rodolfo Wilcock, "Il libro dei mostri", Adelphi


 Ho scritto altrove che il "barocchismo" su cui tanti critici in passato hanno insistito a proposito della prosa di Carlo Emilio Gadda può rivelarsi, se lo si prende troppo letteralmente, una categoria interpretativa fuorviante, perché porta a vedere nelle opere dello scrittore lombardo un compiacimento stilistico fine a se stesso e un'attitudine mitopoietica che non ci sono, e a trascurare invece quell'acribia iperrealistica che gli consente di esplorare con relativistica elasticità tutti gli aspetti di un mondo fenomenico complesso e multiforme.
 C'è invece, nella nostra letteratura del Novecento, un altro autore a cui l'aggettivo barocco calza a pennello. Si tratta di uno scrittore trascurato, per certi versi addirittura misconosciuto, escluso da alcuni dal novero degli autori "italiani" per via delle sue origini argentine, anche se molti dei suoi testi furono scritti in italiano e pubblicati in Italia, e l'italiano divenne in tutto e per tutto la sua lingua d'elezione: Juan Rodolfo Wilcock.
 Wilcock è barocco perché non si limita a una ricognizione degli aspetti talvolta grotteschi della realtà effettuale; egli "forza" la realtà, la ricrea partendo dalla catalogazione teorica di ogni sua declinazione ipotetica che può condurre ad esiti insoliti, bizzarri, sorprendenti, spiazzanti. 
 La ricerca dell'effetto stupefacente è la chiave gnoseologica di questo modo di fare letteratura che non è - come in Gadda - iperrealistico, e neppure programmaticamente antirealtistico, ma "pararealistico" e "metarealistico", se così possiamo dire. 
 Wilcock lavora insomma di fantasia usando soprattutto il metodo ricombinatorio, e sbilanciando ciò che è normalmente bilanciato; quando le sue ricombinazioni trovano un plausibile equilibrio o, per avventura, incrociano inopinatamente aspetti inconsueti della realtà, l'effetto ottenuto è davvero magico.
 
Juan Rodolfo Wilcock
 
 Lo si vede alla perfezione ne Il libro dei mostri, una delle opere dell'autore che si spinge più in là lungo la strada che abbiamo individuato. Il libro è sostanzialmente una galleria di ritratti di personaggi fantastici, ognuno dei quali è leggibile un po' come una poesia, un po' come un esperimento di ingegneria "psico-fisiologica", un po' come un'allegoria filosofica.
 Leggiamo qualcuno degli incipit, per osservarlo direttamente:

"A forza di guardare disegni di un pittore spagnolo di nome Picasso, Letizia Vedi ha dato a luce un figlio con le corna, che tutti chiamano Mino"

"Mesto Copio è cresciuto così piatto che vien da paragonarlo a un foglio di carta, o a una foglia; quando è a letto sotto le coperte non si sa se ci sia o no qualcuno"

"Il critico letterario Berlo Zenobi è una massa di vermi, un ammasso dalla forma non meglio definita, sebbene si supponga che una qualche struttura portante nel suo interno ci debba essere"
 
 Tutti questi ritratti hanno qualcosa di psichedelico: divertono, mettono addosso un senso di euforia, di ilarità o di disgusto e poi, quasi pirandellianamente, innescano una reazione emotiva che conduce sulla soglia di un'identificazione quasi impossibile con personaggi inumani, e quindi una riflessione sulle affinità che questi mostri palesano con gli esseri umani in carne e ossa e sangue e idee.
 Ci si può perfino imbattere in qualcuno che ricorda da vicino Silvio Berlusconi: si vada a leggere il ritratto di Mario Obradour...
 Un gioco di questo genere, nella sua atipicità, alla lunga può stancare? Forse; eppure Wilcock lo conduce con una maestria tale da rendere praticamente obbligatorio riservargli quell'attenzione che troppi studiosi, fino ad oggi, gli hanno negato.
 
Voto: 7

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