domenica 4 ottobre 2020

Raffaele La Capria, "Ferito a morte", Mondadori

  

 Capita, a chi si occupa quotidianamente di letteratura per professione o per diletto, di girare a lungo attorno a un certo numero di "grandi libri" senza mai affrontarli direttamente, magari assaggiandoli appena o traendone un'impressione mediata attraverso i commenti di altri. 
 Questo può accadere perché si aspetta il "momento giusto" o il giusto stato d'animo per intraprendere una lettura che si sa importante e impegnativa, o perché di questi libri si è sentito parlare talmente tanto da avere l'impressione che le valutazioni altrui si siano stratificate in pregiudizi che avvertiamo in qualche modo di aver fatto nostri e che, nostro malgrado, comprometterebbero il piacere di una lettura libera da condizionamenti. Occorre così uno sforzo supplementare per dedicarvisi facendosi guidare semplicemente dalla curiosità.
 Per me, uno di questi libri è stato fino ad oggi Ferito a morte di Raffaele La Capria: pubblicato nel 1961, viene considerato da molti critici uno dei vertici toccati dalla lettura italiana nel corso del Novecento; d'altra parte, è stato semplicemente ignorato da alcuni altri, forse perché, per la sua singolarità, poco si presta a rientrare in categorie interpretative consolidate.
 Il romanzo fa proprie tecniche narrative, quale quella del flusso di coscienza, sperimentate e codificate nella prima metà del XX secolo soprattutto da James Joyce e Virginia Woolf, e le utilizza magistralmente come catalizzatore - per collegare fra loro e lasciare che si espandano liricamente le problematiche che, incrociando la biografia del personaggio principale, vengono sostanziate letterariamente -, e come lente deformante, per sovrapporre e mischiare fra loro diversi piani temporali, facendo convergere in un unico momento avvenimenti fra loro cronologicamente distanti, o dilatando a dismisura fatti che assumono particolare importanza nell'economia della narrazione.
 Tutto comincia con il dormiveglia di Massimo De Luca, protagonista e alter ego dell'autore, che in un splendida giornata del 1954, alla vigilia del suo definitivo trasferimento da Napoli a Roma per lavoro, dal suo letto in una stanza di palazzo Medina - che sorge direttamente dalle acque trasparenti del mare di Posillipo - rievoca episodi e personaggi della sua recente giovinezza napoletana e borghese, costellata di gite in barca, tuffi, immersioni e battute di pesca subacquea, splendide ragazze ammirate e corteggiate, bravate e pettegolezzi di amici e conoscenti, pigri pomeriggi passati al circolo nautico fra accaniti giocatori di carte, piccoli millantatori, danarosi esibizionisti, "principi delle apparenze".
 Dietro la disordinata e indolente rievocazione del passato, si cela però la più acuminata delle spine che continuano a pungere il cuore di Massimo: l'amore indimenticato e indimenticabile per Carla Boursier, conosciuta nel 1943 durante un'incursione aerea alleata che aveva costretto pescatori e diportisti che se ne stavano in barca sul mare davanti a Castel dell'Ovo a rifugiarsi in una grotta; rivista - più adulta - nel dopoguerra, frequentata almeno fino al Capodanno 1949, e infine perduta dopo un umiliante fallimento per "troppo amore" durante un emozionato approccio sessuale; sempre rimpianta, comunque, nonostante i presunti tradimenti di lei con dei dongiovanni di seconda schiera. 
 La clamorosa defaillance erotica, la Grande Occasione Mancata, viene metaforicamente evocata attraverso il sogno ovattato di una pesca subacque che vede Massimo armato di fucile incrociare una spigola grossa "come una fortezza volante" senza che il suo braccio riesca a scoccare l'arpione al momento giusto per catturarala.
 Quella Grande Occasione Mancata, descritta a stento e in maniera ellittica, riecheggia poi per tutte le stanze del libro, divenendo il simbolo del fallimento di tutta la generazione di cui Massimo è parte e, nello stesso tempo, della borghesia napoletana, incapace di incidere sulla realtà, inetta perfino nel preservare la bellezza della propria città, l'armonia del paesaggio; condannata a vedersi rimpiazzata da palazzinari e nuovi ricchi di una volgarità sconcertante.
 
Raffaele La Capria
 
 Il senso malinconico e lievemente struggente di ciò che poteva essere e non è stato unisce la prima e la seconda parte del libro: la prima abbraccia i sette capitoli iniziali, e prende le mosse proprio dal dormiveglia di Massimo, che lo porta avanti e indietro nel tempo permettendogli di soffermarsi su quelli che sente come i momenti cruciali della sua avventura umana. La seconda abbraccia invece gli ultimi tre capitoli e vede Massimo, ormai residente a Roma, ritornare a più riprese a Napoli fra il 1954 e il 1960, incontrando i vecchi amici dell'ormai scomparso Middleton - Glauco, Cocò e soprattutto Sasà - constatandone l'inevitabile invecchiamento e ricordando come erano un tempo; sentendo contemporaneamente raccontare da altri come lo scettro della brillante capacità di intrattenere e di sedurre donne e potenti danarosi sia ora stato raccolto da suo fratello minore Ninì, mitizzato ma inafferrabile.
 La circolarità narrativa che questo corto circuito fra passato e presente crea contribuisce alla rappresentazione di Napoli, della sua gente e delle sue aspirazioni come di un mondo condannato dalle proprie debolezze intrinseche, da vizi storici ereditati e dal fatalismo pervasivo (dall'incapacità di riconoscere davvero e di superare i limiti di una visione del mondo improntata a una filosofica forma di rassegnazione che sfocia nel culto dell'effimero) a sprecare le proprie potenzialità. 
 Il senso di spreco è il sentimento che realmente Massimo De Luca, e con lui l'autore stesso, sembrano dolorosamente maturare ed esprimere nel testo: la rappresentazione più efficace che ne viene data si trova nella scena in cui il costoso motoscafo di Glauco (acquistato con gli ultimi soldi rimasti dopo la sua avventura come cercatore d'oro in Venezuela) naufraga miseramente girando in tondo nel mare agitato tra Napoli e Capri, con alla guida un ubriaco incapace di pilotarlo. 
 Due sono le cose assolutamente ammirevoli in questo romanzo, quelle che fanno sì che possa essere giustamente considerato un classico: la capacità di incarnare la sofferenza del protagonista, e la sua incerta ricerca dei motivi di quella sofferenza, in opzioni stilistiche che non rispondono mai all'esibizione di uno sperimentalismo formale fine a se stesso, ma diventano le lacrime e il sangue del racconto; e la limpidezza della scrittura, che rende godibile anche da parte del lettore medio un libro strutturalmente e narratologiocamente complesso.
 Caratteristiche che fanno di Ferito a morte, se non un modello (perché assai difficile da imitare), certo una pietra miliare della nostra letteratura negli ultimi 80 anni.
 
In poche parole: nel flusso di coscienza indotto dal dormiveglia in cui si crogiola - alla vigilia della sua definitiva partenza per Roma - nel mattino di una splendida giornata del 1954, sentendo i rumori del mare, Massimo De Luca rievoca la sua gioventù passata a Napoli, fra i tuffi, la pesca, gli scherzi con gli amici, l'indolente contemplazione della propria città; soprattutto, però, gli attraversa la mente il ricordo della Grande Occasione Mancata, il suo amore frustrato per Carla, la bionda ragazza di cui forse è ancora innamorato. Il senso di spreco che da quel ricordo, come un'ombra, si stende sugli anni passati, tornerà anche nelle sue successive visite a Napoli, incontrando gli amici ormai invecchiati che gli trasmettono il senso inesorabile del tempo che passa, ma che non riescono a trattenerlo dal cercare di scorgere ancora fra la folla l'oscillare di una bionda coda di cavallo. Indimenticabile divagazione su una città e un rimpianto d'amore, Ferito a morte è oggi da considerare un classico contemporaneo per la perfetta integrazione tra i mezzi tecnico-espressivi impiegati e la sostanza del racconto, e per l'assoluta limpidezza del dettato. 
 
Voto: 8 

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