domenica 6 dicembre 2020

Chandra Livia Candiani, "La domanda della sete", Einaudi

 
 Molti sono i poeti contemporanei che, per reagire alle difficoltà incontrate nel tentativo di autorappresentarsi restando in contatto con la specificità della nostra sostanza umana - al cospetto di una mentalità dominante che tende all'alienazione di massa, alla spersonalizzazione utilitaristica e alla stereotipia immaginativa -, scelgono di fare riferimento alle basi biologiche del nostro esistere e al mondo naturale al quale apparteniamo.
 Non fa eccezione Chandra Livia Candiani, che filtra però questo approccio attraverso gli occhiali di una visione buddhista della realtà, che non elude la problematicità dell'essere uomini, ma la dichiara, la accetta e la descrive con una speciale disponibilità a ritenerla parte di una proteiforme armonia cosmica.
 L'ultima raccolta della poetessa milanese (che comprende le poesie composte fra il 2016 e il 2020) consta di 6 parti e di 115 componimenti in tutto. Diversi i temi trattati nelle singole sezioni: la prima, Il corpo battello, prende in considerazione le diverse parti del corpo umano considerate come entità autonome, ciascuna delle quali capace, sulla base delle proprie funzioni, di interpretare l'uomo nelle sue complesse interazioni col mondo esterno, metaforicamente o concretamente. Così, ad esempio, "La pelle è sempre in prima linea / come i cappotti le madri i villaggi, / è un confuso conoscitore di mondi / è serbatoio e cemento / trasale fa barriera / è distendibile e delicatamente resistente / saguina respira..."; "Un piede avanza / per metà sono uccello / per metà sono albero / il piede ritrova terra / si posa e con lui tutti / i contatti della mia vita / fluttuano febbrili nel sangue..."; "Povero molto povero / è l'occhio / finché non è il mondo"; "Le orecchie orchestrano il mondo, / di gridi e canti bisbigli e strepiti...". Perfino il cuore, che la tradizione vuole simbolicamente essere, insieme alla mente, una delle sedi d'elezione della nostra individualità, è trattato come un pezzo di mondo che prendiamo soltanto in prestito: "Sono il tuo cuore. / Sono il tuo cane. / Non partirò con te. / Fermerò il corpo. / Perché non ti segua".
 La seconda parte, Testimoni glaciali, esplora il male che abita il mondo e che fa inevitabilmente parte della vita; di fronte ad esso non si può che assumere un atteggiamento di resistenza passiva, di accettazione contemplativa: "sull'albero della vita / c'è posto per la malvagità. / Voglio stare dentro un paesaggio / e guardarlo piano piano / nei suoi particolari..."; "Mi fa male la realtà / sale in nebbiose volute fino alla gola / dove forma uno stagno..."; "Può accadere di tutto / senza che qualcuno risenta niente. / Il vuoto è riposo senza moto / direzione senza senso di direzione..."; "Il danno è uno zaino feroce / non sai cosa contiene / non è mai vuoto...". Così facendo, si può anche arrivare a sentire la necessità del male, come un idolo dialettico col quale confrontarsi e al quale imparare ad opporsi: "Ho bisogno del male / ho bisogno del suo appello"; "La vita è vasta / ha bisogno di temperature elevate / e di capacità glaciali / di scompiglio del sangue / e di evaporazione"; "l'erba guerriera alza i pugni / contro il vento mietitore".
 La terza sezione è l'eponima La domanda della sete, dove a prevalere è il senso della mutevolezza e della multiformità dell'uomo e del mondo attorno a lui, cantate con concentrazione analitica e a volte quasi con entusiasmo panico: "Avevi per me un amore grande / non l'avresti mai chiamato affetto / poi uno gentile dimentico di sé e sottopeso / ti voglio tanto bene si chiama / e uno filosofico la cura dei mortali / dei feriti degli offesi / e uno irriconoscibile / pestato a sangue sotto le suole / chiodate; il dono / che si offre agli esclusi ai violenti"; "Sono legno mi conficco / in terra di viaggio / passo presto / più presto di quanto immagini / e non lascio nulla / un'eredità sperperata / nel presente"; "Il fiume incantato dal ghiaccio / ti pensa, apre squarci / poi li sigilla". Anche la morte fa parte di questo flusso, e la si può perciò osservare con nostalgia per ciò che è stato, ma senza disperazione, che si tratti della morte propria, di una persona o di un animale domestico: "Eccomi qui / a vegliare / la tua assenza con la coda. / La casa stava così bene / intorno a te / che prendevi il sole / sugli zerbini di tutti / senza distinzioni, / che emettevi solitudine / e raccoglievi carezze per gatto"; "Sembra la morte, vero ? / Ti dico che certe volte la vita è così. / Amore che battezza la deriva".
 
Chandra Livia Candiani
 
 La morte diventa assolutamente centrale nella quarta sezione, Chiamati al volo, che attraversa il sentimento della scomparsa e il dolore che provoca riflettendo sullo strappo provocato dallo spegnersi della sorella dell'autrice. La morte viene rappresentata comunque come un passaggio naturale, misterioso e fecondo di prospettive quanto una nuova nascita: "Un altro tipo di nascita / ti ha rapita / lasciando qui / l'ingombro del corpo. / Hai il sonno della neve / un silenzio disseminato / come una città di lucciole / in campo nero"; "Ora il mondo / brucia da solo per te / non per me, io ancora / brucio con lui"; "Dare una svolta alla parola morte / una scossa di risveglio, / farla uscire dai gusci di spavento / dei secoli e degli antenati, / farla neonata / smettere di capirla / dichiararsi incapaci / e tenerla tra le mani giunte / delicatamente / come fiammifero / nel vento". 
 Il fatto che tutto sia destinato alla morte, ma che, in qualche modo, tutto continui ad esistere, esorcizza il residuo timore del passaggio: "Che io possa morire all'aperto / nel pieno di quella segreta forza / che ci sostiene e ci distrugge. / Che possa scivolare fuori / imitando gli alberi inchinàti al cielo / o le bianche nuvole i bastimenti di uccelli"; "Non essere solenne, morte / fammi ramo / e ti sarò foglia / obbedirò alla legge di leggerezza / scioglierò il patto della parola / purché tu canti / sopra le mie ossa"; "Sarà meraviglioso / non tornare più / fare la conta degli elementi / e restituirli uno a uno / alle fonti".
 La quinta sezione, I nascosti, prende in considerazione quello che, tutto sommato, ci sfugge, quello che provoca malessere perché irriducibile alle misure dello scandaglio della nostra razionalità, all'acutezza del nostro sguardo: "Conosco la minaccia / il colpo differito / l'aria satura / di parole cucite / appese a testa in giù". Di fronte a tutto questo la risposta è, semplicemente, nell'accettazione e nell'abbandono, perché "Vivere è ospitare".
 La sesta e ultima sezione, Gli abitanti della meraviglia, focalizza l'attenzione su tutti gli elementi del mondo naturale - gli animali, i vegetali e persino le rocce e l'acqua - che impersonano un modo di essere affatto diverso dal nostro, ma non meno importante nell'equilibrio del mondo: "E' viva l'erba vivi i sassi / gli alberi giganteschi / secolarmente vivi..."; "Custodite il giardino / voi betulle tu faggio rosso / custodite il nostro silenzio vegetale..."; "Perché c'era il rosmarino / l'ibisco rosso e giallo / e il santo basilico..."; "Io mi inchino a te pioggia / per la scompostezza dei tuoi gesti / il tuo ignorare la clemenza / e affratellarti al fulmine". 
 Si assume in questo modo un'ottica per la quale l'uomo non gode affatto di una posizione di privilegio all'interno del creato, bensì uno statuto di esistenza paragonabile a quello di una qualsiasi delle altre forme a cui la combinazione dei diversi elementi dei quali è composto l'universo può dare luogo: "Quando guardo una rosa / e nessuno si affaccia agli occhi / quando la rosa è / e io non è. / Quel che da me / uscirà dopo la morte / quello che della rosa / non ha nome sfiorendo. / Esseri di frontiera / che fanno terra / che fanno fuoco. / Sfilàti / nel vento. / Piove.".
 Ciò che accomuna i componimenti ricompresi nelle diverse sezioni sono una coerente visione del mondo - improntata a una sorta di panteismo antispiritualista - e la forma letteraria: Chandra Livia Candiani costruisce un discorso poetico razionalmente articolato, ma all'interno del quale il rapito coinvolgimento emotivo dell'io lirico incenerisce la punteggiatura, fa saltare i connettivi e i nessi sintattici, alza la temperatura espressiva facendo sì che i sintagmi si fondano e si saldino tra loro. Le scansioni logiche del periodo sono allora sostituite dalle fratture create dalle dimensioni del verso, che spesso ricalca le misure e i ritmi della metrica tradizionale (privilegiando l'endecasillabo e il settenario, ma con una notevole ricorrenza anche del novenario e di versi di altro tipo): forme in cui viene colata, e si raffredda consolidandosi in barre facilmente maneggiabili, la sostanza incandescente del poetare.
 Il componimento più bello della raccolta, a mio parere, è questo:
 
Le mani rotolano la terra
la farina l'acqua il sale
impastano, bevono
e distinguono, raccolgono,
addormentano, addomesticano
il dolore, accarezzano, come un gesto
che prende il posto del pensiero, i suoi
manovali. Le mani sono ricche e vuote
conoscono molte altre mani
e caldo e freddo e le voci le attraversano
e loro sanno buono quando è buono
e cattivo quando è cattivo.
Le mani perpendicolari al filo
si stendono sull'abisso e dicono:
stai quieto stai quieto
come con un mare in burrasca.
Vecchie molto vecchie
le mani.
 
In poche parole: Chandra Livia Candiani esprime nel suo poetare una visione del mondo secondo la quale l'uomo risulta parte di un cosmo in cui non occupa una posizione privilegiata, ma condivide con gli altri elementi naturali il medesimo statuto di esistenza, in cui il male è necessario quanto il bene, in cui la morte si può contemplare con serenità, perché principio di una nuova nascita, in un flusso perpetuo che riguarda tutto e tutti, ma che non prevede alcuna forma di trascendenza. A creare questo universo concorre un discorso poetico complesso, all'interno del quale il coinvolgimento emotivo dell'io lirico alza la temperatura espressiva fino al punto di incenerire i segni di interpunzione e di fondere tra loro i nessi sintattici, colando la sostanza incandescente della soluzione verbale entro gli stampi di forme metriche che spesso si rifanno ai versi più tipici della nostra tradizione letteraria. 
 
Voto: 6,5

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