domenica 25 aprile 2021

Beppe Fenoglio, "Il partigiano Johnny", Einaudi

 

 L'unico momento veramente epico della storia dell'Italia novecentesca è senza dubbio quello in cui si esplicarono le gesta della Resistenza ed è risaputo come Beppe Fenoglio sia di gran lunga il suo miglior cantore. Quest'anno ho deciso di celebrare il 25 aprile - settantaseiesimo anniversario della Liberazione - con una rilettura personale del suo libro più importante, Il partigiano Johnny.
 Che la vicenda editoriale di questo romanzo (che costituisce in larga parte una trasposizione letteraria di vicende vissute in prima persona dall'autore durante i suoi anni partigiani) sia particolarmente complessa e ponga problemi filologici delicatissimi è cosa nota: l'opera fu infatti lasciata inedita e incompiuta da Fenoglio alla sua morte; del libro esistono due diverse stesure che presentano una difforme scansione interna, notevoli differenze linguistiche, rilevanti discrepanze contenutistiche e, soprattutto, due finali diversi; l'edizione che da vent'anni a questa parte è data alle stampe, a cura di Dante Isella, unisce la prima e la seconda redazione, effettuando scelte filologicamente motivate con lo scopo di conferire coerenza, continuità e leggibilità al testo.
 Tutto ciò non impedisce al Partigiano Johnny di essere uno dei romanzi migliori del nostro Novecento, esattamente come analoghe criticità non impediscono all'Eneide - opera anch'essa incompiuta, a tratti ambigua, contraddittoria e pubblicata contro la volontà del suo autore e al di fuori del suo controllo - di essere uno dei capisaldi della cultura classica.
 Peraltro il suggestivo parallelo con l'Eneide appare pertinente sotto così tanti aspetti da far nascere la tentazione di lasciarsene prendere la mano: come Enea, Johnny è un eroe che non perde mai la sua umanità e che, anche nell'asprezza della battaglia, conserva la capacità di identificarsi nel nemico; sebbene il suo antifascismo e la sua scelta di aderire alla lotta partigiana siano radicali, Johnny non si presenta mai come un fanatico, un invasato, ed è sempre in grado di cogliere i limiti e i difetti dei partigiani stessi, esattamente come l'Enea virgiliano riesce sempre a presentarsi come un esempio di equilibrio, di lealtà e di moderazione; la descrizione della folle corsa di Johnny e dei suoi compagni attraverso le macchie boschive, le salite, le discese, i canaloni, i rittani, le creste delle Langhe per sfuggire al grande rastrellamento nazifascista del "preinverno" 1944 possiede lo stesso altissimo tenore emotivo della rocambolesca fuga di Enea dalla città di Troia in fiamme, descritta nel secondo libro del poema virgiliano; talvolta persino l'adesione degli elementi naturali alle vicende dei personaggi sembra autorizzare un accostamento tra le due opere ("Il sole tramontò, e fu enorme, abissale la sua perdita").
 Più che continuare a coltivare questa suggestione, però, mi piace qui individuare un paio di tratti distintivi che fanno del Partigiano Johnny un libro di fondamentale importanza e di vertiginosa bellezza nel panorama della letteratura italiana contemporanea.
 
Beppe Fenoglio in tenuta da calciatore
 
 Il primo è il paradosso del mito: Fenoglio nella sua rappresentazione non nasconde nulla. Nulla del tragico dilettantismo di molti partigiani; nulla della scoraggiante rozzezza di alcuni di loro (quando espone al comandante Nord la propria perplessità a proposito della decisione di prendere la città di Alba, Johnny si dimostra perfettamente consapevole del fatto che, sebbene i borghesi vedano i partigiani come arcangeli, questi non lo sono per nulla); nulla dell'opportunismo che serpeggia fra le loro file (molti di coloro che si arruolano fra i ribelli al momento della presa di Alba, si dileguano prontamente quando arriva il momento di difendere la città dalla controffensiva fascista); nulla dell'ambiguità e dell'incompetenza di alcuni comandanti (il commissario Nemega, che comanda il presidio di Mombarcaro durante la prima esperienza di Johnny in una formazione garibaldina durante l'inverno 1943-44, a dispetto della purezza ideologica che ostenta, si scopre avere dei precedenti come studente di "mistica fascista" a Torino; il capitano Marini, che comanda la piazza di Alba durante i 23 giorni della Repubblica partigiana nell'ottobre del 1944, sembra nascondere dietro l'imperturbabilità del suo luminoso sorriso una totale mancanza di acume strategico); nulla dell'irriducibilità a una mentalità e a un credo comuni del modo di pensare dei singoli membri delle varie formazioni partigiane (ogni divisione, ogni presidio, sembra incapace di coordinarsi con le altre formazioni di "ribelli"; partigiani rossi e azzurri coltivano una patente, reciproca avversione; all'interno degli stessi rossi e degli stessi azzurri è presente un'infinita varietà di posizioni ideologiche inconciliabili tra loro); nulla delle motivazioni spesso affatto personali che si mischiano con quelle ideali a spingere parecchi partigiani a gettarsi nella lotta o che li portano a operare dei distinguo anche nel campo fascista (il partigiano Kyra, che ha un fratello fra i repubblichini del presidio di Asti, trepida tutte le volte che un fascista catturato dai partigiani in missione viene portato alla fucilazione; Pierre stesso, grande amico e superiore diretto di Johnny, è fidanzato con una ragazza di Neive di famiglia fascista, "e anche lei è dell'idea"); nulla della crudeltà a cui l'asprezza dello scontro induce i partigiani nella fase più terribile della guerra (quando nasce l'esigenza di individuare e neutralizzare le spie che mettono a repentaglio la sicurezza dei ribelli sbandati sulle colline nell'inverno 1944-45, il comandante Nord ordina: "nel dubbio, sopprimete").
 Eppure, nonostante tutto questo,  al cospetto della viltà e della prepotenza fascista, la fermezza di chi si è impegnato a "dire di no fino in fondo", rischiando tutto - compresa la vita stessa - in un innegabile impeto di generosità trasfigura nel cielo del mito l'immagine del partigiano, di ogni partigiano, e dona i requisiti di una verità profonda (anche al di là del significato ad essa attribuito dal personaggio che la formula) alla frase pronunciata dal professor Cocito nella prima parte del libro, quando Johnny non è ancora salito sulle colline: "Partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità".
 Il secondo è un elemento squisitamente stilistico, ed è proprio di tutti i grandi libri: si tratta della perfetta integrazione tra forma e contenuto. Si è insistito anche troppo sull'invadenza di singoli termini e di frasi intere tratti dall'inglese nel romanzo di Fenoglio. A mio parere l'utilizzo dell'inglese, più che dalla cultura dell'autore e, di riflesso, del protagonista che costituisce il suo alter ego letterario, deriva dall'esigenza di forgiare una lingua nuova capace di descrivere il mondo che verrà e di dare conto del faticoso passaggio dalla vecchia alla nuova Italia. Non a caso, al di là dell'utilizzo frequente dell'inglese, notevoli in Fenoglio sono i neologismi (a volte derivati dalla cultura classica, a volte tratti dal dialetto, che è lo strumento espressivo del mondo contadino), una costruzione del tutto personale della frase e l'impiego massiccio di avverbi e sintagmi avverbiali volti a definire con la maggior precisione possibile ciò che non è facile definire.
 Mi sembra che questo stile venga forgiato in aperta opposizione tanto alla marcia retorica fascista quanto alle modalità espressive compostamente tradizionali caratterizzanti tutta una parte dell'intellettualità italiana che troppo tiepidamente o troppo tardivamente si era opposta al fascismo.
 Chiudo questo breve excursus  su un libro che meriterebbe pagine e pagine di riflessioni in maniera decisamente sentimentale: rievocando gli episodi del romanzo che più mi emozionano a rileggerli. 
 Ne citerò tre: il primo è quello della morte e del compianto sul corpo di Tito, il compagno dal volto "lombrosiano" di Johnny nella brigata garibaldina a cui si associa un po' per caso quando entra nei partigiani. 
 Il secondo è il ritorno di Johnny, sfinito e disperato, a Cascina di Langa, dopo essere sfuggito fortunosamente a un agguato fascista nel dicembre 1944 in cui crede siano caduti vittime Pierre ed Ettore, che invece trova riposati e sorridenti mentre accarezzano la cagna lupa della Cascina sul letto della padrona.
 Il terzo è il finale che oggi leggiamo nell'edizione del romanzo a cura di Dante Isella, in cui il racconto - condotto in terza persona ma dal punto di vista di Johnny - si interrompe bruscamente all'ennesimo crepitare del fucile semiautomatico che ha già abbattuto molti compagni del protagonista; al quale segue, semplicemete, la notazione didascalica: "Due mesi dopo la guerra era finita". Una breve frase neutra che riesce a racchiudere meglio di tante lamentazioni il senso del sacrificio estremo di moltissimi partigiani per un'Italia libera e antifascista che, nell'infuriare della lotta, sapevano bene che probabilmente non sarebbero riusciti a vedere; e nonostante questo continuavano a lottare. 
 "Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt", per tornare ancora una volta a Virgilio.
 
In poche parole: "Partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità". La frase riassume meglio di ogni altra il carattere mitico dello sfondo sul quale Beppe Fenoglio riesce a proiettare l'esperienza storica della Resistenza, senza tacere nessuno dei suoi limiti ed esaltando alla perfezione, in questo modo, l'indiscutibile grandezza dell'unico passaggio veramente epico del Novecento italiano. 
 
Voto: 9  

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